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Storia di un delitto annunciato: Le ombre del caso Moro
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Storia di un delitto annunciato: Le ombre del caso Moro

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Sono trascorsi quaranta anni dal sequestro e dall’uccisione di Aldo Moro, un evento politico che ha determinato un sostanziale mutamento nella storia del nostro Paese.
L’autore, fratello di Aldo Moro, sviluppa in questo volume una sua lettura dei fatti di quel drammatico 1978, analizzando e collegando in modo organico tutto ciò che era emerso nei vari processi penali e nelle molte inchieste parlamentari sul caso Moro. Non ne risulta una verità alternativa ma vengono evidenziati i molti inquietanti interrogativi rimasti senza risposta, le tessere del mosaico che non vanno a posto, i buchi neri, gli episodi inspiegabili, le carenze ingiustificate, le illogicità. La verità reale, non quella di comodo, appare velata.
La seconda parte del volume analizza gli scritti di Moro dalla “prigione” e pone in evidenza da una parte l’azione censoria e manipolatoria dei sequestratori e dall’altra i segnali che attraverso le lettere Moro cercava di inviare all’esterno per far conoscere il suo vero pensiero.
Attraverso gli scritti, specie quelle ai familiari, l’Autore individua il reale stato d’animo del prigioniero, i suoi sentimenti, la sua serena accettazione del martirio: ne emerge un ritratto dell’uomo Moro assai diverso da quello che ci è stato presentato.
LanguageItaliano
Release dateJun 28, 2019
ISBN9788835981480
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    Storia di un delitto annunciato - Alfredo Carlo Moro

    diritti.

    Introduzione

    di Guido Formigoni

    Il panorama degli scritti dedicati al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro è oggettivamente sterminato. In questo, rispecchia in qualche modo il senso collettivo di una tragedia che non ha avuto la sua catarsi, in una duratura e ormai forse irreversibile sensazione di mancanza di verità, che dà spazio a tutte le acribie e anche le fantasticherie possibili. All’interno di questo orizzonte, il volume che state leggendo ha una collocazione del tutto particolare. Alfredo Carlo Moro lo pubblicò nel 1998, a vent’anni dal sequestro e dall’assassinio di suo fratello Aldo. Da allora sono passati altri vent’anni, un periodo di tempo esattamente uguale. Questi due archi temporali sono ambedue altamente rilevanti: una semplice considerazione sul loro significato può giustificare il senso dell’operazione culturale della riedizione del libro, che appare a mio parere centrata e opportuna.

    Apparendo infatti dopo un congruo periodo di tempo dai fatti, il libro non poteva rientrare nella categoria degli instant-book, o delle testimonianze a caldo, che spesso hanno anche il loro interesse, ma a volte mostrano tutti i limiti dell’estemporaneità. In queste pagine invece si leggono riflessioni lungamente maturate e approfondite, che offrono un solido contributo alla conoscenza e al dibattito interpretativo. Sono riflessioni che hanno la loro origine fondamentale nel dramma condiviso da un familiare stretto del rapito e poi dell’ucciso. Alfredo Carlo, il più giovane dei fratelli, nato nel 1925, nove anni dopo Aldo, era il «piccolo» di famiglia, legato da un rapporto affettuoso al fratello maggiore (anche per aver seguito le sue orme negli studi giuridici). La condivisione del suo dramma era stata resa ancor più dolorosa – come Alfredo Carlo confessa nel libro – da una strana sensazione di emarginazione patita nel corso dei cinquantacinque giorni del sequestro. Infatti, stranamente, tra le molte lettere scritte dal prigioniero non ne emerse nemmeno una scritta da Aldo ai suoi fratelli, con cui aveva notoriamente un legame molto stretto. Inoltre, Alfredo Carlo visse con difficoltà il progressivo chiudersi della moglie di Aldo, Eleonora e della sua famiglia in un circuito di gestione dei drammatici eventi che per una serie di ragioni divenne sempre più esclusivo e per lui comportò una sofferta lontananza da ogni pur minimo ruolo e anche da ogni possibile servizio. Il libro racconta queste cose con rispetto e pudore, ma anche con grande chiarezza.

    Da quel tormento del tutto immaginabile, si sviluppò poi un ovvio percorso di attenzione acuta e critica a tutto quello che emerse dopo il tragico 9 maggio. I primi successi nella lotta alle Br, il ritrovamento rocambolesco di altri scritti del fratello (nel 1978 e poi ancora nel 1990), i numerosi processi a carico dei responsabili (cinque, con quattro sentenze emesse nel 1983, 1988, 1994 e 1996), la commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro (1979-1983) e quelle sulle stragi e il terrorismo (attive dal 1988 per parecchi anni). Il tutto accompagnato da un lungo dibattito pubblico, che alternava momenti alti e momenti francamente discutibili. Il nostro autore ovviamente ha potuto considerare tutto questo itinerario con l’empatia del coinvolgimento personale e con la propria vasta sensibilità culturale e sociale, nutrita di una fede cristiana fortemente radicata, quanto articolata nella laicità dello sguardo alla vicenda umana e storica che lo circondava. Ma non mancava in lui nemmeno l’occhio attento di un magistrato esperto.

    Nel 1998 egli decise quindi che poteva provare a fare un bilancio articolato di tutta una prima stagione della «ricerca della verità» sul delitto Moro. Una stagione che era proceduta con lentezza e contraddizioni, ma che aveva trovato un suo progressivo consolidamento attorno a una versione dei fatti molto debitrice della decisione da parte di alcuni brigatisti di squarciare il velo del silenzio opposto inizialmente dagli arrestati, che si erano orgogliosamente dichiarati «prigionieri politici». Le rivelazioni giunsero attorno alla metà del decennio ’80, in un’epoca in cui era ormai evidente la sconfitta della lotta armata e anzi si era aperta una complessa discussione sulla necessità di provvedimenti per ricucire le fratture di quella stagione, in nome della pacificazione della società italiana. A questa ricostruzione dei fatti aveva contribuito soprattutto inizialmente Valerio Morucci, a cui si ascrive una sorta di «memorandum», sulle cui rivelazioni più o meno si erano allineati tutti gli altri brigatisti. Almeno quelli che avevano deciso di dire qualcosa, ovviamente in sede giudiziaria, ma via via anche nelle sedi più svariate di un confronto pubblico che era continuato vivacissimo nel corso degli anni (e in cui i brigatisti cominciarono a rilasciare interviste, a scrivere libri, a partecipare a dibattiti). Anche i risultati degli ultimi processi avevano mostrato di essere molto debitori di questa ricostruzione, pur tra persistenti dubbi e incertezze degli inquirenti stessi e della magistratura giudicante. Alfredo Carlo si accinse a fare proprio un’affilata revisione di questa versione ormai piuttosto consolidata, con sobrietà e lucidità (in nome di quella che definiva «una personale e partecipata esigenza di verità»).

    Ora, non si può dire che nel ventennio successivo a questo libro siano mancati altri contributi di vario tipo e spessore in tale ricerca, per certi versi angosciosa, di una verità più completa, fino al lavoro recente dell’ultima Commissione parlamentare d’inchiesta, riaperta nella legislatura appena conclusa (2014-2017). Ma l’impressione che si può comunicare è che tutti questi contributi e tentativi non siano ancora riusciti a fornire un quadro non dico definitivo, ma almeno sostanzialmente più ricco e completo degli avvenimenti, rispetto a quello che forniva il libro di Alfredo Carlo Moro. E neppure sono riusciti a rispondere a molti dei dubbi e degli interrogativi che egli sollevava. In parecchi aspetti dell’intricata vicenda, siamo ancora fermi a quelle domande e a quei punti critici. In questo senso, gli ultimi vent’anni non hanno fatto radicalmente invecchiare questo testo (anche se magari l’autore stesso, immaginiamo, avrebbe auspicato con tutto il cuore un esito di questo tipo...).

    Sono due le parti fondamentali del volume. La prima è dedicata a una rilettura ravvicinata dei fatti, cioè delle risultanze processuali e delle verità apparentemente consolidate sui tragici giorni della primavera del 1978. In queste pagine introduttive non si possono trascurare alcuni contributi forti di Alfredo Carlo Moro al dibattito in corso. In primo luogo, il fratello di Aldo esprimeva una serie di perplessità sulle ragioni di una tutela piuttosto carente della sicurezza di Moro, nonostante ci fossero stati una serie di segnali e di condizioni ambientali che potevano far pensare allo statista pugliese come obiettivo di azioni terroristiche. Seguiva una ricostruzione dei limiti della versione «codificata» dell’agguato di via Fani, che riprendeva diffusi e circostanziati dubbi sulla reale consistenza del commando brigatista, sulla dinamica precisa dei loro movimenti, sulla questione delle armi e della concentrazione di colpi da parte di una di esse, sulla presenza poco spiegabile di uomini delle istituzioni nei pressi della scena del delitto. Su tutta questa parte della riflessione, Alfredo Carlo Moro si basava su una discussione delle risultanze giudiziarie che era già stata abbastanza ampia, e in particolare sull’acribia con cui aveva sollevato interrogativi e dubbi Sergio Flamigni, membro della commissione parlamentare sul caso Moro e poi per lungo tempo studioso e prolifico autore di contributi su queste vicende. Più originale la riflessione successiva, dedicata fondamentalmente alla questione non banale della «prigione del popolo» in cui era stato detenuto il fratello nei cinquantacinque giorni. Alfredo Carlo Moro partiva dal racconto brigatista del disimpegno da via Fani delle auto con a bordo il politico sequestrato, per mettere in luce una serie di incongruenze e di elementi inverosimili nel racconto di Morucci, convalidato dagli altri brigatisti. Si partiva dal curioso itinerario seguito attraverso Roma, per arrivare al racconto del trasbordo di Moro su un furgone – lasciato parcheggiato precedentemente in modo incustodito – avvenuto in piazza del Cenacolo (in pieno giorno e in luogo aperto), al successivo trasbordo della cassa con il sequestrato su una macchina in un parcheggio sotterraneo di un supermercato in via Newton, fino al racconto poco coerente del modo in cui la cassa (affidata per un periodo al solo Moretti perché gli altri brigatisti non dovevano conoscere l’ubicazione della prigione) sarebbe arrivata in via Montalcini. Cioè in quell’appartamento, comprato da Anna Laura Braghetti in una normale palazzina abitata da altre persone, che sarebbe poi stato (secondo una rivelazione del 1988 confermata solo nel 1993) la prigione del politico democristiano per tutti i cinquantacinque giorni. Nella sala da pranzo sarebbe stato ricavato il famoso cubicolo di pochi metri quadri con la brandina su cui si teneva segregato Moro. Tale descrizione venne poi completata dal racconto della presenza nel covo di soli quattro brigatisti: i non clandestini Braghetti e Maccari nella parte della coppia «normale» che usciva tutti i giorni per andare al lavoro, il solo Gallinari come unico sequestratore che sorvegliasse in pianta stabile l’ostaggio e il capo Moretti che – oltre a condurre i famosi interrogatori – andava a veniva per incontrare la dirigenza brigatista nel nord Italia. L’analisi del libro è serrata, mettendo in luce tutti gli elementi di debolezza del racconto e le incongruenze tra la descrizione di questa forma di detenzione e le risultanze dell’autopsia sul cadavere dello statista. Infine, collegato all’ubicazione del carcere, sta il racconto delle modalità dell’uccisione, anch’esso piuttosto poco credibile, con Moro trasferito vivo e sveglio in una cesta di vimini per le scale e Moretti che avrebbe sparato – seppur con il silenziatore – parecchi colpi nel garage dello stesso condominio, mentre altri inquilini potevano passare. Alfredo Carlo Moro, dopo aver descritto e soppesato tutto questo quadro, giunge quindi con una certa solidità a produrre domande cruciali: «Non sappiamo, e non possiamo sapere, se Moro sia stato, sia pure per solo un certo periodo di tempo, in via Montalcini o non vi sia stato mai; non sappiamo se tutti coloro che si dicono i suoi carcerieri siano o non siano stati sempre in via Montalcini; non sappiamo, e non possiamo sapere, se Moro sia stato sempre nelle mani di coloro che si dichiarano i suoi custodi o se ciò sia avvenuto solo per un periodo di tempo con la consegna di Moro anche ad altri gruppi di brigatisti restati ancora sconosciuti o al limite addirittura a gruppi estranei all’area terroristica; non sappiamo, e non possiamo sapere, dove e veramente da chi, fu effettuata la sua uccisione». Si tratta di dubbi radicali, che ancora oggi non possono essere dichiarati assolutamente estinti.

    Anzi, in qualche modo, le ultime piste di indagine aperte, anche grazie al contributo della nuova commissione d’inchiesta parlamentare, oltre che ad alcuni lavori di pubblicisti e studiosi, hanno rimesso al centro dell’attenzione il problema di verificare se la scomparsa del corteo delle auto dei sequestratori attorno alla zona di via Licinio Calvo (dove poi sono state fatte trovare «a rate» le auto di via Fani) non indichi qualche elemento nuovo su un possibile luogo di detenzione almeno iniziale del rapito; mentre altri hanno utilizzato la perizia mortuaria e l’analisi della Renault che fu bara di Moro per mettere in discussione il racconto della sua morte.

    La seconda parte del libro appariva ancora più personale, perché era dedicata alla riflessione sulle modalità con cui era stata presentata durante il sequestro la figura del fratello, in connessione con l’uscita dal carcere brigatista delle lettere che chiedevano una trattativa, e della successiva e tortuosa discussione sul tema della «fermezza» per la difesa dello Stato. Alfredo Carlo Moro prende in considerazione tutto il pur probabilmente mutilato corpus degli scritti di Aldo nel carcere brigatista, conosciuto attraverso successive rivelazioni (con la vicenda del ritrovamento «a rate» nel covo di via Monte Nevoso a Milano di alcune sole copie dattiloscritte nel 1978 e poi delle fotocopie di un numero più ampio di manoscritti nel 1990). Naturalmente, egli non si esime dal porre interrogativi su tale rinvenimento, che ancora una volta instilla dubbi sulla vera gestione di tutto il sequestro.

    Il punto importante però è forse ulteriore: secondo il fratello, la polemica superficiale (o in qualche caso capziosa) sugli scritti dal carcere non ha permesso di adottare un metodo corretto nella loro valutazione, e quindi ha condotto a deformare l’immagine del prigioniero stesso. Nei giorni drammatici del sequestro, era una strategia cinica quella di svalutare il valore della personalità del politico e dell’uomo Moro, dipingendolo come un tremebondo familista alla mera ricerca della propria sopravvivenza. Da parte di alcuni che erano più legati alla sua figura si è negato che ci fosse il vero Moro in quegli scritti. Oppure, al contrario, si è parlato della rivelazione finale di un giudizio critico sul proprio partito che Moro non aveva mai espresso in vita, fino alla «peregrina» tesi di Sciascia sull’etica carceraria liberante delle Br che avrebbe offerto a Moro di potersi finalmente esprimere. Occorreva adottare invece, a parere di Alfredo Carlo Moro, una chiave di lettura più attenta, che non trascurasse quanto l’autore di quei tormentati testi voleva intendere e sostenere. Senza per questo dimenticare le condizioni drammatiche in cui gli scritti erano stati prodotti: non bisogna sottovalutare infatti il limite indubbio costituito dal quadro «carcerario» stesso da cui essi provengono. Non bisogna nemmeno dimenticare la censura brigatista, espressa sia in forma preventiva (influenzando il modo di scrivere fino a chiedere di riscrivere i testi, come testimoniano molti esempi), sia in un momento successivo (scegliendo di far conoscere alcuni scritti e non altri). Soprattutto le lettere ai politici andrebbero quindi lette secondo Alfredo Carlo Moro con molta attenzione ad alcune incoerenze logiche, ai cenni in cui l’autore diceva di non essere informato perfettamente sui fatti, ai suggerimenti a leggere gli eventi in un contesto più complesso. L’analisi mostra alcune forzature dei testi, chiedendosi a questo proposito se Moro volesse forse far intendere di essere stato indotto a scrivere cose non tutte da lui autonomamente pensate e decise. Il fratello ritiene comunque che la proposta fondamentale dello scambio «di prigionieri» (l’uso del plurale fa anche sospettare che Aldo credesse di non essere l’unico ostaggio) fosse sicuramente voluta da Moro e da lui difesa come del tutto legittima. Su tale questione, le pacate parole del libro sono ancora oggi una guida essenziale: forse lo scambio era inopportuno, forse era realmente impraticabile perché le Br non l’avrebbero perseguito se non in modo propagandistico: ma il solo fatto di proporlo non era né eticamente spregevole né privo di senso dello Stato, nella logica dell’eccezione secondo cui quando sono in gioco valori più alti è possibile e anche giusto superare la norma ordinaria.

    Inoltre, Alfredo Carlo Moro sostiene come non possa che risaltare agli occhi dell’attento lettore una discrasia tra il tono complessivo delle lettere ai politici – le più condizionate dalla strategia comunicativa delle Br – e i testi del cosiddetto «memoriale» o anche le lettere e i testamenti scritti per la famiglia (e non casualmente non rivelati dai brigatisti al momento dei fatti). Nelle considerazioni scritte dal prigioniero sulla propria esperienza politica e sulle vicende del proprio partito (pubblicate con adeguato inquadramento da Francesco Biscione), pur monche e quasi certamente mutile, emergono riflessioni pacate e giudizi più che coerenti con la cultura politica e la sensibilità del Moro libero. Anche dove si spinge – rispondendo presumibilmente a domande dei suoi carcerieri – a narrare particolari o retroscena non del tutto noti e che i brigatisti avrebbero potuto valorizzare (mentre fecero di tutto per non adempiere al proprio proclama secondo cui avrebbero reso pubblici tutti i risultati del cosiddetto «processo del popolo»). Soprattutto, Alfredo Carlo Moro individua come interessanti gli scritti non numerati e non dipendenti da domande dei carcerieri, che sembrano liberi ripensamenti, o magari approfondimenti personali di alcuni temi e momenti della propria esperienza che ad Aldo stavano a cuore. I giudizi sulla Dc, la sua evoluzione storica nel rapporto con la Chiesa e gli americani, gli stessi giudizi sui suoi compagni di partito sono molto più cauti e prudenti delle lettere rese note nel corso dei cinquantacinque giorni. Anche se sono non privi di polemica (ma l’unico veramente caustico è quello su Andreotti, mentre rispetto agli altri compagni di partito il prigioniero sottolinea l’inanità al ruolo piuttosto che elevare astiose condanne).

    Infine, le molteplici lettere alla moglie e ai familiari che vennero a suo tempo nascoste dai brigatisti rivelano una persona tutt’altro che concentrata su se stessa, quanto piuttosto sempre pronta a proiettarsi sulle esigenze dei suoi amati; tutt’altro che meschinamente indotta a piangere la propria sorte, ma aperta alla fede e alla speranza cristiana nel futuro, pur nell’angoscia comprensibile per la prospettiva vicina del sacrificio personale.

    «La verità – quella che sola può farci liberi – è ancora velata»: la citazione dal capitolo 8 del vangelo di Giovanni che stava nell’introduzione del libro di Alfredo Carlo Moro nel 1998 può risuonare ancora oggi come appropriato accompagnamento di queste pagine lucide e istruttive, dolenti e appassionate.

    Milano, febbraio 2018

    Perchè questo libro

    Sono passati venti anni dalla strage di via Fani e dall’omicidio di mio fratello.

    Ho sempre mantenuto un grande riserbo su quei tristissimi avvenimenti nella speranza che si facesse chiarezza su tanti misteri; che la giustizia riuscisse a dipanare una intricata matassa, svelando quanto realmente è accaduto; che le confessioni di coloro che sono stati identificati come autori del sequestro e dell’uccisione portassero ad una sicura ricostruzione dei fatti e delle responsabilità.

    Ma i molti dubbi emersi sin dal primo momento non sono stati ancora chiariti; le molte ombre che avvolgevano gli avvenimenti così come ricostruiti si sono tutt’altro che diradate e anzi, col tempo, mi sembrano ulteriormente infittite; gli interrogativi inquietanti che man mano emergevano non hanno trovato alcuna soddisfacente risposta.

    La verità – quella che sola può farci liberi – è ancora velata.

    Ho avuto spesso l’impressione, in questi anni, che per rimuovere un periodo terribile della nostra storia e per rasserenare il presente ci si sia appagati di «verità» parziali ed equivoche: ma i misteri del passato, se restano tali, finiscono inevitabilmente con l’inquinare anche il nostro oggi e il nostro domani.

    I dubbi e le inquietudini non sono solo miei e non sono solo legati, come è peraltro inevitabile, al mio forte coinvolgimento emotivo. Non è senza significato che il parlamento italiano abbia ritenuto opportuno reiterare commissioni di inchiesta per appurare verità ancora sfuggenti e per cercare di trovare chiavi interpretative di avvenimenti ancora oscuri; non è un caso che anche la magistratura continui a svolgere inchieste per trovare risposte a interrogativi che, malgrado i molti processi effettuati, continuano a rimanere senza appaganti risposte.

    Ho, in questi venti anni, seguito, con comprensibile spasmodica attenzione, tutte le rivelazioni che man mano sono emerse, cercando sempre di sceverare quelle che avevano un certo fondamento da quelle che costituivano pure illazioni o troppo contorti collegamenti, ho letto i molti libri – alcuni assai puntuali altri un po’ più fantasiosi o romanzeschi – che sono stati dedicati a quella che è stata definita «l’operazione Moro»; ho cercato anch’io, per quel che mi era possibile, di trovare risposte esaustive ai molti «perché» e «come» che emergono dalla vicenda; ho cercato di sottoporre ad una analisi critica le rivelazioni fatte dai brigatisti arrestati che proclamavano di aver detto tutta la verità.

    Non ho fatto indagini personali perché mi mancavano strumenti di seria verifica di ciò che avrei potuto appurare. Così come ho evitato di basare il mio giudizio dell’intera operazione sulle diverse, e alcune volte conturbanti, segnalazioni che pur mi sono prevenute di strani episodi connessi a quella vicenda: non avendo modo di controllare l’esattezza di quanto mi è stato riferito ho preferito mettere del tutto da parte queste confidenze – non so quanto esatte e comunque non documentabili – per basare la mia analisi esclusivamente sulle cose già note e in un certo modo riscontrate.

    Mi ha certamente aiutato, in questa ricerca di verità, la mia lunga esperienza professionale di magistrato giudicante che ha prevalentemente operato nel settore penale e che ha sempre cercato di individuare, con il massimo impegno, la verità reale sottostante alle molte versioni di comodo che proponevano i coinvolti nei reati.

    Non ho trovato né una sicura soluzione alternativa a quella emersa né una risposta ai molti dubbi che scaturiscono dalla lettura dei fatti così come sono documentati. Pur tuttavia non posso non rilevare – con gli strumenti di analisi che l’attività professionale mi ha abituato a usare e con l’obiettività che ho cercato in tutti i modi di mantenere, almeno per quel tanto che il mio personale coinvolgimento emotivo consentiva – che il quadro finora emerso dell’intera vicenda del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro non appare chiaro; che la ricostruzione data da coloro che si dichiarano gli autori del sequestro è non solo poco convincente sul piano della logica ma anche contraddetta da quei pochi elementi obiettivi e sicuri che sono stati rilevati, che i «buchi neri» sono ancora troppi e perciò inquietanti.

    Mi è sembrato doveroso mettere insieme tutti gli elementi che non trovavano un loro posto nella ricostruzione del «puzzle»: più che una compiuta ed esaustiva ricostruzione dell’intera vicenda è questa mia solo una testimonianza di una personale e partecipata esigenza di verità che mi ha portato a scandagliare gli elementi raccolti, a cercare di renderli per quanto possibile coerenti, a collegarli tra loro pervenendo più a dubbi che a certezze.

    Mi sembra che, comunque, l’insieme degli interrogativi senza risposta sia abbastanza eloquente e che perciò legittimi questa mia fatica. Una fatica che peraltro mi è costata molto anche sul piano delle emozioni e degli affetti.

    Certo, mi rendo perfettamente conto che il mio coinvolgimento affettivo e la mia ansia di scoprire la verità può talvolta avermi fatto velo e suggerito interpretazioni che possono essere considerate opinabili. Certo, una più sicura ricostruzione di tutti gli avvenimenti potrà essere fatta, se sarà ancora possibile, tra molti anni, quando saranno consultabili fonti documentarie oggi non accessibili e quando su essa si impegneranno storici forniti di quelle adeguate metodologie di ricerca e di analisi che io non ho.

    Ma ho ritenuto non del tutto inutile proporre una mia lettura, spero non del tutto arbitraria, dei fatti e degli scritti di quel terribile periodo: per rendere pubblici i miei dubbi e i miei interrogativi. Non ho la pretesa che questa mia lettura sia l’unica possibile e quella sicuramente vera: ma, valga quel che valga, questo mio sforzo di mettere insieme i vari elementi di un ancora confuso quadro mi sembra possa costituire un contributo non banale che stimoli ad un ulteriore approfondimento di una vicenda che non merita di essere definitivamente archiviata, ritenendola ormai del tutto chiarita.

    Lo dovevo a mio fratello, così barbaramente sacrificato. Ma lo dovevo anche a tanti altri carissimi amici che ho visto trucidati in quei terribili anni. A Vittorio Bachelet, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, che era per me più un fratello che un amico (Aldo e Vittorio sono stati i testimoni alle mie nozze e io sono stato testimone a quelle di quest’ultimo); ai carissimi colleghi Minervini, Tartaglione, Galli, Palma, Alessandrini, Occorsio con cui ho avuto intense relazioni amicali; agli agenti della scorta di mio fratello alcuni dei quali nel corso del tempo ho sentito miei amici.

    Tutta la strategia dell’eversione è stata unitaria; un sottile filo lega tutti gli omicidi di quell’epoca, in quanto si è sempre cercato di scegliere le vittime non tra coloro che tradivano le funzioni pubbliche ad essi affidate, per perseguire personali vantaggi, ma proprio tra coloro che più erano impegnati a realizzare una convivenza più umana e giusta e a sviluppare una reale democrazia nel nostro paese: nell’ottica distorta dell’organizzazione eversiva i riformisti progressisti costituivano un pericolo maggiore dei conservatori o dei corrotti. Se vi sono misteri ancora irrisolti – e se solo alcuni esecutori materiali sono stati identificati – giustizia non è stata ancora fatta per nessuno. Non ho scritto questo libro per fare rivelazioni clamorose o per svelare – come ci si potrebbe aspettare – quali iniziative siano state prese dalla famiglia di Aldo in quei drammatici cinquantacinque giorni.

    Ciò non perché voglia tacere su elementi che pure potrebbero aiutare la ricostruzione dell’intera vicenda (sarei ipocrita se esigessi chiarezza dagli altri e nascondessi elementi utili che potrebbero completare un quadro ancora nebuloso), ma perché mia cognata – per motivi che tutt’ora ignoro – ha ritenuto opportuno di tenere all’oscuro me e gli altri miei fratelli, sia durante il sequestro che dopo il suo tragico epilogo, di quanto avesse in quei giorni appreso e di quanto, con l’aiuto dei suoi consiglieri, avesse fatto. Abbiamo, io e i miei fratelli, seguito tutta la vicenda, con profonda angoscia, solo attraverso i giornali, la radio, la televisione, nella speranza – purtroppo vana – che ci venisse restituito un fratello a cui eravamo molto legati.

    Sono spinto a scrivere questo libro anche da un altro motivo. Sulla base di una lettura incompleta, o troppo di parte, dei documenti scritti da mio fratello durante il periodo del suo sequestro si è diffusa nell’opinione pubblica una immagine che a me sembra fortemente deformata della sua personalità. Ho cercato così, attraverso una analisi dell’insieme degli scritti ritrovati – letti nella loro globalità e non settorializzati e valutando le volute incongruenze logiche che in essi si rinvengono –, di individuare ciò che mi pare esprima il vero pensiero di mio fratello e ciò che invece appare legato ai particolari condizionamenti a cui era sottoposto nonché di identificare il suo vero stato d’animo in quel terribile frangente.

    È certamente lecito sottoporre a giudizio storico, anche fortemente critico, l’attività politica di Aldo Moro. Mi sembra meno giustificato che – sulla base di letture parziali di questi particolarissimi scritti – si siano espressi, come vedremo, giudizi pesantissimi sull’uomo Moro. Mi sembra che una lettura scevra da preconcetti, e fedele ai testi, ci restituisca un’immagine ben diversa da quella da alcuni costruita.

    A.C.M

    Roma, marzo 1998

    Parte prima

    Una rilettura dei fatti

    Alla memoria di tanti che hanno avuta

    stroncata la vita dalla barbarie terrorista; ai tanti parenti

    delle vittime che attendono ancora

    piena giustizia; perché la comunità

    non dimentichi tante sofferenze;

    perché si continui a cercare la

    verità reale e non quella di comodo.

    «La verità vi farà liberi»

    (Giovanni, 8, 32)

    I.

    UNA MORTE ANNUNCIATA?

    La strage di via Fani, il rapimento di Moro e la sua successiva uccisione trovano del tutto impreparati sia i Servizi segreti italiani sia le forze di polizia: fino al giorno in cui l’evento si verifica sembra che, a livello istituzionale, non sussista il benché minimo sospetto che fosse in preparazione una azione tanto eclatante e così rilevante per la vita politica italiana.

    Eppure qualche segnale che qualcosa di grave era in preparazione si era avuto; eppure – data l’ostilità diffusa, specie tra le forze eversive, nei confronti del mutamento politico che in quei giorni si stava compiendo, attraverso la costituzione di un governo appoggiato anche dai comunisti – non doveva essere ritenuto del tutto improbabile che Moro, stratega di questo nuovo corso della politica italiana, potesse essere un obiettivo del terrorismo politico. Cercheremo di vedere questa serie di segnali che non sono stati presi in alcuna seria considerazione.

    1. Le Brigate rosse all’attacco della Dc

    Le Brigate rosse, in particolare, annunciano fin dal 1977 di voler passare dall’attacco generico allo Stato a un attacco specifico al partito della Democrazia cristiana.

    In un opuscolo stampato nel novembre 1977¹ si parte dall’affermazione che i paesi imperialistici, «sotto la direzione del governo ombra mondiale, cioè la Trilateral (Usa, Giappone, Europa) stanno ristrutturando i vari organismi internazionali come la Nato, il Fmi, la Cee ecc. per farli diventare reali momenti di dominio internazionale sui singoli paesi; stanno costruendo nuovi organismi del genere contro il terrorismo, per pianificare su scala continentale l’attacco alle avanguardie di classe e alle organizzazioni combattenti: ma soprattutto stanno trasformando i vari Stati nazionali in Stati imperialisti delle multinazionali». Si prosegue rilevando: «Lo Stato imperialista delle multinazionali è per essi lo strumento migliore per la restaurazione nei vari paesi della catena imperialistica del controllo politico, economico e militare delle forze produttive e sociali. È lo strumento migliore per restaurare nuovi livelli di sfruttamento sulla classe operaia e, più in generale, per poter meglio svolgere il ruolo di oppressione dei popoli di tutto il mondo».

    Guardando quindi al nostro paese l’opuscolo afferma che «la forza politica alla quale grandi gruppi multinazionali hanno fatto assumere la responsabilità di attuare questo complesso e ambizioso progetto controrivoluzionario è la Democrazia cristiana». Da ciò scaturisce l’impegno del movimento rivoluzionario: poiché la Dc è «l’asse portante del progetto di costruzione dello Stato imperialista delle multinazionali e come tale deve essere individuata dalla classe operaia e da tutto il movimento rivoluzionario», il compito che a quest’ultimo spetta è quello «di individuare e colpire gli uomini e le strutture che articolano il potere democristiano a tutti i livelli».

    «Certo – aggiungono i brigatisti – a partire dagli organismi centrali e dalle strutture fondamentali, ma estendendo l’attacco ad ogni ingranaggio, ad ogni rotella della macchina democristiana.» Per le Brigate rosse «la parola d’ordine da praticare deve essere chiara; attaccare, colpire, liquidare, disperdere definitivamente la Democrazia cristiana, asse portante della ristrutturazione dello Stato e della controrivoluzione imperialista. Questo deve avvenire quindi nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, ovunque insomma si annidi un agente democristiano della controrivoluzione... Ciascuno di essi ha le sue responsabilità e ciascuno verrà giudicato per esse secondo i criteri dell’unica giustizia che riconosciamo, quella proletaria».

    Ed è sintomatico che nello stesso opuscolo, dopo aver spiegato perché bisognava colpire le «appendici periferiche», si afferma espressamente: «Abbiamo detto anche gli uomini e le strutture periferiche della Dc ma non certo solo queste. È l’insieme della Dc che bisogna distruggere».

    Anche una forte ostilità al nuovo governo che si andava preparando emerge dallo stesso opuscolo: si dice infatti che il disegno della Dc di porsi al servizio totale della borghesia imperialista «non potrebbe aver vita lunga se la Dc non facesse procedere di pari passo alla repressione dello scontro di classe una vasta operazione di mistificazione politica per la strumentalizzazione di ampi strati sociali a sostegno del progetto imperialista. Lo strumento migliore per muoversi in tale direzione è oggi rappresentato dal famigerato accordo a sei tra i partiti politici. Questo accordo rappresenta oggi la migliore garanzia per la costruzione dello Stato di polizia; rappresenta il punto più alto nella creazione del consenso al progetto di ristrutturazione imperialista dello Stato».

    Alla fine dell’anno 1977 erano state rinvenute anche alcune copie della Risoluzione numero 4 della direzione strategica delle Brigate rosse, redatta nel novembre 1977, in cui, dopo aver esaltato l’omicidio del giornalista Casalegno e gli attentati compiuti contro alcuni esponenti della Dc, si lanciava ai militanti la direttiva di individuare e colpire gli organi del potere democristiano «a partire dagli organi centrali»². Poiché Moro era presidente del partito e nel contempo perno della complessa operazione politica che si stava sviluppando, e che era così decisamente avversata dalle Brigate rosse, qualche ulteriore precauzione nei confronti di Moro sarebbe stata logica e doverosa. Invece – come riconosce la Commissione parlamentare di inchiesta – «scarsi e sommari sono risultati i servizi di vigilanza e di prevenzione nella zona in cui abitava l’onorevole Moro e nella quale i terroristi hanno potuto pianificare il sequestro e la strage dopo ripetuti controlli e osservazioni delle

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