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I venti della discordia: Il tempo dei mezzosangue Vol.2
I venti della discordia: Il tempo dei mezzosangue Vol.2
I venti della discordia: Il tempo dei mezzosangue Vol.2
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I venti della discordia: Il tempo dei mezzosangue Vol.2

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About this ebook

Trovate tutte le mie opere, le curiosità, i contatti e altro su di me sul mio sito ROBHIMMEL.COM
Questo è il secondo volume della trilogia High Fantasy Il tempo dei mezzosangue

L’unità non è che una fragile tregua dall’egoismo

L’ascesa dell’impero Danador procede rapidamente. Le altre nazioni vengono sottomesse, una dopo l’altra, dalla schiacciante forza militare degli invasori, che giungono fino ad Aghoria e la mettono sotto assedio.
Nel frattempo i principi di Kernak, vittime di un’imboscata, vengono fatti prigionieri dall’imperatore Kedrax. La loro unica speranza è riposta nei compagni: toccherà a Jandar, Alak ed Ethan liberarli per riportarli nella capitale. Un’impresa tutt’altro che agevole: ognuno di loro, infatti, è mosso da obiettivi e interessi personali così forti, da rischiare di far saltare la missione di salvataggio.
Intanto Lenara, maga e consigliera imperiale, comincia a dubitare di Kedrax e a indagare su di lui. Una decisione che la porterà a percorrere un sentiero pericoloso e parallelo al suo incarico: condurre i Mietimorte nel deserto alla ricerca di un’antica piramide. Guidarli, però, sarà tutt’altro che semplice: in ciascuno di loro alberga infatti il seme della discordia…
LanguageItaliano
PublisherAetermundi
Release dateJun 28, 2019
ISBN9788834147092
I venti della discordia: Il tempo dei mezzosangue Vol.2

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    I venti della discordia - Rob Himmel

    IL TEMPO DEI MEZZOSANGUE

    Libro secondo: I VENTI DELLA DISCORDIA

    A Celeste.

    Di nome e di fatto.

    Note dell'autore: essendo una trilogia ambientata in un mondo vasto e articolato, ho creato tre glossari alla fine del romanzo. Spero possano esservi d’aiuto per identificare nomi, dei, luoghi e termini che magari potrebbero risultare ostici da memorizzare. Dopo questo volume arriverà il terzo e ultimo, e con esso le risposte riguardanti alcuni misteri, anche sugli intrecci narrativi, chiudendo il tutto.

    Il tempo dei mezzosangue 2: I venti della discordia

    Di Rob Himmel

    www.robhimmel.com

    Copertina: Antonello Venditti

    Editing: Stefano Mancini

    Copyright © DZ edizioni 2019

    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, conservata, o trasmessa, in ogni forma e attraverso ogni mezzo senza prima il consenso del detentore del copyright.

    Questo libro è un’opera di fantasia. La sua pubblicazione non lede i diritti di terzi. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

    immagine 1

    Prima Parte

    SANGUE E ACCIAO

    L’esistenza dei demoni è passata come un mito per secoli. In alcune parti del mondo pare sia uso comune evocare questo genere di creature, ma qui in Erebia sembra sia una favola per terrorizzare i bambini. Almeno finché non fu ritrovato il Demonomicon : un tomo che trasuda morte ed empietà già dal suo rivestimento, fatto con brandelli di pelle appartenenti a razze mortali. Ho cercato di studiarlo a lungo nel periodo in cui è stato in mio possesso e non sono mai riuscito a comprendere chi lo abbia scritto davvero. L’autore si definiva il «Primo Originale» ma niente di più.

    Ci sono molte informazioni su questo mondo, o realtà, chiamato «i Nove Abissi». Capire cosa possa essere vero e cosa no è davvero complesso, tuttavia mi sento in grado di affermare, con una certa fermezza, la veridicità riguardante l’esistenza dei demoni. Sono dell’idea che siano reali, anzi, oserei dire che alcuni di questi sono in mezzo a noi. Vorrei provare a evocarne uno, ma per adesso non mi sento pronto.

    Meral, Studioso del Demonomicon,

    Il mistero dei Nove Abissi,

    Capitolo 2: L’esistenza dei demoni.

    01. Tormento

    «Svegliati Balderk, svegliati!» disse Eliadar scuotendolo.

    «Cos’è successo?»

    «Credo tu stessi avendo un incubo.»

    Balderk annuì. «Uno dei tanti che mi tormentano.»

    Il bardo accennò un sorriso amichevole. «Che cosa sogni?»

    «In verità non saprei dirlo. È tutto così confuso. Riesco solo a vedere il sangue, le fiamme… e sento le urla, tante urla. Delle volte vedo le mie mani strappare le braccia di povera gente. È orribile…»

    «Lo immagino…» Il mezzelfo si guardò attorno, studiando gli altri che stavano dormendo attorno al fuoco. Fatta eccezione per la pantera, che lo guardava con aria inquietante. «Pensi possano essere collegati alle colpe che ti hanno imputato?»

    Balderk posò gli occhi sul fuoco con sguardo perso. «Il Demone del Massacro di Orteran… così mi chiamano. Ma io non ricordo nemmeno cosa sia accaduto in quel villaggio.»

    «Pensi che ti abbiano incastrato?»

    «Non ne ho idea… ma perché avrebbero dovuto?»

    Eliadar arricciò le labbra. «Hai dei nemici? Qualcuno a cui hai pestato i piedi?»

    «Non che io sappia.»

    «Che cosa facevi per vivere prima di essere catturato?»

    «Quando ero giovane sono stato arruolato contro la mia volontà nella guardia di confine dell’Asshbar. Non mi piaceva quella vita e spesso ero costretto a ricorrere alle armi. Così ho disertato inscenando la mia morte. Sono arrivato fino a Danador, dove ho cominciato come bracciante. Per un periodo ho fatto da aiutante a un fabbro, poi sono stato ingaggiato come scorta per mercanti. Ho lavorato anche come guardia del corpo e come vigilante sugli averi altrui.»

    L’inym annuì meditabondo. «Cos’è l’ultima cosa che ricordi di Orteran? E come ci sei arrivato?»

    Balderk passò la mano tra gli irti capelli neri. «Sono andato nella locanda per riposare e chiedere informazioni, ma alcune persone del luogo, piuttosto alticce, hanno iniziato a insultarmi per il colore della pelle. Dicevano che non ero né bianco né nero, quindi solo un incrocio, un bastardo.»

    «Li hai aggrediti?»

    Fece una smorfia offesa. «No! Cosa ti salta in mente?»

    Eliadar alzò i palmi in segno di scusa. «La tua mole incute un certo timore. Facilmente si può credere che ne fai uso per farti rispettare.»

    «Non è da me. Certo, la sfrutto per i miei incarichi. Ci pensano due volte prima di affrontarmi. Ma non mi piace attaccare briga, penso siano energie sprecate per nulla. Non ne vale la pena.»

    «Quindi cos’è successo?»

    Balderk fece spallucce. «Penso che si offesero perché li avevo ignorati. Con la coda dell’occhio vidi un bastone di legno arrivarmi alla testa. Sentii un’esplosione di dolore e svenni. Al mio risveglio ero a Darjia, in cella.»

    «Brutta storia, insomma.»

    «Sai» prese a dire Balderk guardando la pantera, che faceva altrettanto, «quell’animale mi inquieta. Non so perché, ma è come se non mi staccasse gli occhi di dosso.»

    Eliadar soppesò quella frase. Già… una pantera piuttosto insolita, pare .

    «Magari è attrazione» ironizzò.

    «Riposati un po’, ti darò il cambio. Tanto non penso di dormire più.»

    Il bardo l’osservò mentre si alzava dal giaciglio. Balderk era un ammasso di muscoli dalla pelle ambrata, con barba e capelli sfatti quanto i suoi abiti. Le orecchie leggermente a punta stonavano con la sua mole, ma denotavano un retaggio non soltanto umano. Fu però il tatuaggio che aveva sul profilo sinistro, somigliante a una «J», a suscitare il suo interesse.

    Il mezzelfo si infilò nel giaciglio e prima di coricarsi disse: «Balderk, ti va di togliermi un’ultima curiosità?» Lui aggrottò la fronte e annuì. «Cosa significa il tatuaggio che hai sul volto?»

    «Non lo so» disse con semplicità. «Credo di averlo fin da quando sono nato, o almeno da quando ne ho memoria.»

    Eliadar fece un sorriso accondiscendente prima di rannicchiarsi sotto la coperta. Tuttavia aveva troppi pensieri nella mente. Il dubbio lo stava ancora tormentando. Vide Jandar dormire davanti a sé, sembrava sereno. Che invidia.

    Da quanto tempo non si faceva una bella dormita? Gli incarichi che riceveva non erano di per sé semplici, ma questa volta appariva più arduo del solito. Non tanto per la possibilità di uccidere il bersaglio. Lo aveva proprio là, e poteva mettere fine alla sua vita in qualunque momento.

    Il problema risiedeva nell’incongruenza tra la predizione di un oracolo e la visione dei cinque veggenti, il Pentagramma. Aveva sempre avuto delle difficoltà morali a compiere quello che gli veniva ordinato, poiché si assassinava sulla base di visioni che non si erano ancora avverate. Mettere in discussione l’operato dei veggenti non era una mossa intelligente però, non per una Nota del Fato come lui. Tanto più perché era l’unico inym tra i sette.

    Era consapevole del fatto che se non avesse svolto il suo compito, presto sarebbe arrivata un’altra Nota del Fato e l’avrebbe fatto senza esitazioni. Mettendolo così in ridicolo e sminuendolo davanti agli elfi.

    Prima di spegnere una vita avrebbe voluto più tempo, però. Quello necessario a valutare bene se davvero questa persona fosse il pericolo che il Pentagramma aveva scorto nel futuro. Tutto qui, soltanto un po’ più di tempo.

    ***

    Nonostante fosse estate, Jandar percepì una ventata di freddo autunnale. Qualche anno prima gli avrebbe dato fastidio, ma dopo il tempo trascorso a Ghiarkur la trovò piacevole.

    Stiracchiò le braccia, e con occhi assonnati si guardò attorno: del fuoco erano rimasti soltanto cenere e un pennacchio di fumo. Ethan pareva stesse ancora dormendo, così come Alak, Eliadar e la pantera. Balderk faceva la guardia con lo sguardo perso nel vuoto.

    Il cielo presentava le prime screziature del giorno e presto si sarebbero dovuti mettere in cammino. Si alzò in tutta calma, sospinto dall’impellenza di urinare e dallo stomaco che brontolava.

    Si allontanò facendo un cenno a Balderk, che annuì. Quando tornò al campo, tutto era come lo aveva lasciato. Grato per quella quiete, trasse dalla sacca un tozzo di pane duro e lo addentò guardando l’orizzonte.

    Ormai erano giorni che viaggiavano in direzione di Suldia, dove speravano di trovare e liberare i principi. Da quando avevano lasciato il Bosco Vivo erano riusciti a passare inosservati, nonostante alcune pattuglie dell’impero fossero sulle loro tracce.

    Tutto merito dell’idea di Eliadar che, con il suo carro pieno di abiti e cianfrusaglie, depistava i soldati ubriacandoli di chiacchiere e raggiri. Il bardo ci sapeva fare con la lingua: era stato capace di far credere che il gruppo fosse una piccola parte di una compagnia itinerante. L’unico che avevano dovuto nascondere era stato Balderk, perché riconoscibile a causa della mole e del tatuaggio sul volto.

    Per Jandar l’importante era procedere senza perdite di tempo e uccisioni evitabili. Ciononostante Alak aveva continuato a insistere che avrebbero dovuto avanzare senza indugi verso Suldia, a costo di eliminare chiunque gli si fosse parato davanti. Questo aveva portato il gruppo a una discussione accesa, dove Alak si era dovuto piegare alla maggioranza.

    «Jandar» lo chiamò Balderk. «Dobbiamo andare.»

    Lo stregone si riebbe dai suoi pensieri, e girandosi vide che il campo era stato quasi del tutto sgomberato. Gli altri si erano alzati e avevano racimolato quelle poche cose che avevano, tutte prestate dal bardo.

    In fretta e furia rinfilò il tozzo di pane nella sacca e raccolse la coperta da terra. Pochi minuti dopo si rimisero in viaggio.

    La voglia di chiacchierare era poca e si percepiva la tensione tra Alak ed Ethan, in perenne disaccordo. Balderk a stento spiccicava qualche parola. Tanto meno mentre correvano lungo la strada per Suldia. Così Jandar cercò la compagnia del bardo.

    Il mezzelfo era seduto a cassetta sulla carrozza. Fischiettava un motivetto allegro mentre conduceva i cavalli.

    Lo stregone gli si affiancò. «Quanto pensi sia distante Suldia?»

    «Un paio di giorni massimo, mantenendo questo passo.»

    «Dovremmo salire tutti nella carrozza e spronare i cavalli al galoppo» incalzò Alak.

    Ethan lo trafisse con lo sguardo.

    Il bardo scosse la testa. «Ne abbiamo già parlato. Ci sarebbe troppo peso con voi sopra e i cavalli non durerebbero che qualche ora. Rischieremmo di spaccare le ruote e restare fermi su una delle vie principali dell’impero, alla mercé di chiunque.»

    Alak arricciò le labbra. «Delle volte ho l’impressione che tu voglia rallentarci.»

    «Smettila di dire idiozie e corri» lo rimproverò Ethan.

    Eliadar sorrise. «Teoria interessante, mastro monaco. Oltre alla fretta che continui a marcare, ci sono altre necessità che vanno considerate. Ad esempio le mie scorte di cibo. Dividendole con voi tutti, come ho fatto con qualunque altra cosa in mio possesso, sono pressoché terminate. Magari potresti vagliare una soluzione a questo problema. Se le cose stanno come dite, la città sarà sorvegliata e difficilmente degli uomini stanchi e affamati potranno liberare i principi.»

    «Qualcuno di voi sa cacciare?» domandò Alak con sarcasmo evidente.

    «Io» rispose Jandar.

    Si fermarono tutti e lo guardarono. Persino Eliadar tirò le redini e arrestò i cavalli.

    «Mi ha insegnato qualcosa un buon ramingo» aggiunse.

    «Mi chiedo quante altre cose ci tieni nascoste» punzecchiò Alak. «Allora provvederai tu alla cena di questa sera. Il problema del cibo è risolto.»

    Eliadar inarcò le labbra annuendo, poi spronò i cavalli. Tutti gli altri gli andarono dietro. Avanzarono per ore, fermandosi di tanto in tanto per una pausa, dopodiché si accamparono sul far della sera.

    «Giornata fortunata» disse Balderk.

    Jandar aggrottò le sopracciglia. «Perché?»

    «Non abbiamo incontrato soldati e abbiamo evitato occhi sospetti.»

    Lo stregone si guardò attorno. «Dov’è Eliadar?»

    «È andato in un villaggio che ha notato durante il tragitto» rispose Ethan mentre preparava il fuoco. «Ha detto che avrebbe cercato di recuperare un po’ di scorte.»

    Alak incrociò le braccia sul petto. « Zaffiro , non so se hai notato, ma manca soltanto il cibo, qui.»

    «Sì, ora vado…»

    Come faccio senza un arco?

    Guardò la pantera che stava sdraiata vicino a Balderk e le disse: «Vuoi venire con me a caccia?»

    Il felino alzò la testa drizzando le orecchie.

    «Dai, andiamo» incitò Jandar facendole segno con la mano.

    La pantera si alzò con eleganza e sorpassò lo stregone.

    «Fortuna che ci sei tu» le disse Jandar qualche metro più in là, e lei si limitò a contraccambiare lo sguardo. «Enialis mi ha insegnato tante cose, ma non come si caccia quando il sole è tramontato. Come le seguo le tracce? Alak mi dà il tormento da quando ha saputo che sono uno stregone, e pensa che sia tutto semplice. Io sono stufo anche solo all’idea di dovergli spiegare che non è come crede lui. Adesso mi sono cacciato in un bel guaio, però. Non ho nemmeno arco e frecce. Mi aiuterai tu, eh pantera?»

    Il felino annusò l’aria, poi scomparve nel buio senza emettere alcun suono.

    «Oh, benissimo! E adesso cosa faccio?»

    Jandar continuò a camminare cercando di affinare l’udito, in cerca di qualche suono rivelatore. Era indeciso se usare o meno la stregoneria per creare una fonte di luce. Avrebbe aiutato per vedere dove metteva i piedi, dato che la luna era coperta dalle nuvole, ma avrebbe fatto scappare qualsiasi animale.

    Cominciò a riflettere su come potesse sfruttare i suoi poteri per trovare del cibo, ma sapeva che non era il massimo per la caccia. Era un’arte che richiedeva ben altre abilità e sistemi. Sperò che la pantera facesse il lavoro al posto suo, magari si sarebbe risparmiato le noie provocate da Alak.

    Tuttavia sapeva che Ethan era contrario a mangiare la carne di qualunque animale. Una scelta che Jandar stimava ma che non riusciva suo malgrado ad attuare in prima persona. Allora decise di trovare del cibo per lui, qualche frutto magari, delle bacche selvatiche.

    Una singola parola in ansindium e lo zaffiro appeso al collo si illuminò con un tenue bagliore bianco. Una fonte di luce, né troppo forte da essere vista da lontano né troppo debole da non poter illuminare nelle brevi vicinanze.

    Prese a setacciare qualunque arbusto, o altra pianta, ma dovette gironzolare per diverso tempo prima di trovare delle ortiche, della bardana e un mazzetto di cicoria. Ci volle un altro po’ per delle more. In fin dei conti non era andata poi così male, date le scarse aspettative. Inoltre Ethan sarebbe stato più che contento, perché avrebbe evitato l’ennesima discussione con Alak.

    Soddisfatto, sistemò tutto con cura nella sacca che si era portato dietro. Si guardò attorno alla ricerca della pantera. Nulla.

    «Chissà dov’è finita…» Ma se tornasse con della selvaggina sarebbe ottimo .

    Decise di incamminarsi verso il campo, continuando a cercare del cibo. Mentre esaminava altre piante, udì una cantilena leggiadra. Pareva il suono di un flauto che emetteva una musica dolce e delicata.

    Bastarono pochi secondi e Jandar iniziò a sentire la testa ottenebrata. Le palpebre si fecero pesanti e sbadigliò. Nell’oscurità della notte si sentì un ruggito e l’incanto venne spezzato.

    Jandar intensificò la luce sul petto e la diresse verso il suono. Riuscì solo a intravedere due sagome nere che parevano danzare, ma i versi feroci del felino indicavano ben altro.

    02. L’armata del Drago

    Da quell’altezza, la vista del proprio esercito era spettacolare e lo riempì d’orgoglio. L’intera Armata del Drago avanzava sotto di sé con schiere ordinate, composte da quasi centomila soldati. Da sotto l’elmo nero, Torio sorrise soddisfatto mentre volava in sella al suo kark .

    Aveva conquistato Marad in meno di un giorno, riportando pochissime perdite. Alle sue spalle, dalla città kerniana, banchi di fumo stavano ancora salendo al cielo. Lui aveva ordinato ai suoi uomini di mettere metà Marad a ferro e fuoco, risparmiando l’altra metà per scoraggiare e sottomettere i suoi abitanti, poi aveva gettato giù dal castello il sovrintendente Lonkor. Aveva funzionato: erano diventati un branco di agnellini.

    Tutta la soddisfazione però traballò nello scorgere il prossimo obiettivo: Aghoria. La capitale di Kernak si mostrava con fiera solidità: alte mura di cinta levigate dalla magia come un unico blocco, un tutt’uno con le torri. Oltre la barriera di pietra spiccava il castello ottagonale dalle dimensioni inverosimili, che troneggiava sulla cima della collina: Darnesar.

    Torio sapeva che quella città vantava secoli di incrollabilità. Era proprio per questa ragione che si sentiva eccitato all’idea di conquistarla. Fama, gloria e potere lo attendevano in quella impresa ma, soprattutto, una battaglia selvaggia contro guerrieri formidabili come le Piume di Seraf.

    Attraverso il legame empatico, ordinò al kark di scendere e questo planò fino a terra, dinanzi alle truppe, che si fermarono nel vedere il generale. I corni suonarono e l’Armata del Drago si accinse ad allestire l’accampamento.

    Il cavaliere nero smontò dalla cavalcatura e un giovane gli corse subito incontro. Poco dietro di lui, avanzò un soldato dal portamento rigido.

    «Ordini, mio signore?» chiese l’attendente poggiando il ginocchio sul terreno e chinando il capo.

    «Fa’ preparare la mia tenda e la stalla per il kark » rispose Torio, guardando il capitano Prondol che si stava avvicinando.

    Il giovane annuì e, dopo essersi rialzato senza sollevare la testa, corse via.

    Prondol si strofinò le dita sudate con evidente agitazione. «Generale.»

    «Ci accamperemo qui. Fa’ subito montare le macchine e le torri d’assedio. Voglio attaccare Aghoria il prima possibile.»

    «Darò subito le disposizioni, generale. Allestiremo l’accampamento e sfrutteremo ogni uomo preso a Marad per velocizzare il tutto. Altro?»

    Torio si tolse l’elmo, raffigurante la testa di un drago, mostrando gli occhi ridotti a due fessure. Passò la mano con il guanto d’arme sopra la testa glabra, lisciandosela.

    «No. Va’, e falli lavorare giorno e notte.»

    Prondol annuì rapido e andò via.

    Con occhi leggermente a mandorla, per via del suo sangue misto, per metà shikiano, il generale osservò l’armata: tutti si stavano dando da fare come se temessero una punizione. Soddisfatto, rindossò l’elmo e montò sul kark .

    La bestia si lamentò e, attraverso il legame empatico, l’uomo percepì la sua stanchezza, tuttavia si impose sulla sua volontà e la costrinse a obbedire.

    Torio sentiva la necessità di guardare con i propri occhi cosa stesse accadendo alla capitale di Kernak. Poteva vedere il fronte occidentale in una tranquillità inquietante, ma sapeva che i kerniani stavano combattendo contro l’Orda sul fronte orientale, un problema che prima o poi lui avrebbe dovuto affrontare. Non poteva di certo espugnare Aghoria per poi trovarsi in guerra con gli orchi o, peggio ancora, lasciare che loro conquistassero la città prima di lui.

    Così salì verso il cielo e sovrastò la capitale che, da quella prospettiva, sembrava una gigantesca ruota con cerchi concentrici, attraversata da raggi regolari e precisi che dividevano le serie di edifici contigui. Al centro troneggiava Darnesar con imperiosa solidità. Lungo la cinta muraria orientale c’erano migliaia di pelleverde intenti ad assaltare la capitale, arrampicandosi su lunghissime scale. Alla base si vedeva un’infinità di cadaveri, disseminati un po’ ovunque, eguagliati solo dalla massa di orchi in fermento. Gli svariati tentativi dell’Orda dovevano essersi rivelati dei continui fallimenti, tuttavia pareva continuassero imperterriti nel loro intento. Nel mentre, i kerniani buttavano giù colate d’olio bollente a cui davano fuoco.

    Torio sogghignò divertito alla vista di quello scempio. Il clangore della battaglia, le urla di dolore e l’odore del sangue lo eccitavano. Fosse stato per lui si sarebbe lanciato nella mischia in quel momento, ma aveva dei doveri a cui prestare attenzione.

    Il kark scese di quota quando il Domatore glielo impose. L’intero cammino di ronda era ricolmo di kerniani pronti a respingere gli invasori, seppur paressero esausti. C’erano anche i Fedeli del Cavaliere di Platino: sacerdoti che infervoravano i cuori dei soldati e sostenevano i feriti.

    Torio passò in rassegna quell’accozzaglia verdastra senza cervello. Tra la massa uniforme spiccavano elementi più alti e nerboruti, con la pelle violacea, che istigavano gli orchi senza alcuna pietà, senza dargli tregua. Dovevano essere i mezzosangue di cui gli avevano parlato, gli ogre. Alcuni di questi cavalcavano gli hexa , delle bestie mostruose simili a lucertole giganti, con la pelle color sabbia ma irta di scaglie appuntite come daghe. Le prorompenti mascelle vantavano una presa micidiale, disseminate di zanne impregnate da saliva paralizzante.

    Tra gli ogre che montavano gli hexa , alcuni si lanciavano all’attacco arrampicandosi sulle mura della città. Pronti a fermarli c’erano le baliste poste sulle torri e degli incantatori da battaglia.

    Il Domatore si chiese da quando Kernak li avesse. Di norma era un regno che non ammetteva la magia per uso bellico. Così, intento a scoprire di più, scese ancora e ne riuscì a contare sei. Ciascuno di loro indossava bracciali e schinieri d’acciaio, una stretta veste rossa con sopra un drago bianco che la percorreva per intero. Li riconobbe: maghi di Faldor. Imprecò tra sé, chiedendosi perché erano là.

    In quel momento alcuni arcieri lo notarono e presero a bersagliarlo con le frecce, mentre altri allarmarono alcuni dei maghi.

    Per la fame di Jerkall! Imprecò, facendo virare il kark per non farsi colpire. Un dardo magico, grande quanto una zucca, gli saettò accanto mancandolo di poco.

    Il generale dell’Armata del Drago spronò la cavalcatura. Mentre l’aria gli fendeva l’armatura nera, decorata con ghigni maligni e volti distorti dal dolore, e la cavalcatura batteva le ali con violenza, lui rifletté su come sfruttare l’Orda a proprio vantaggio.

    I vessilli del Drago sventolavano già lungo l’accampamento, dove un formicaio di gente stava issando tende e tendoni. L’allestimento procedeva rapido e Torio ne fu lieto, così discese senza ulteriori indugi. Lasciò il kark ai sottoposti che se ne occupavano e seguì l’attendente personale fino al suo padiglione, che era stato montato per primo.

    Vi entrò e si fece aiutare a spogliarsi dell’armatura. Si guardò con fierezza il corpo segnato da innumerevoli cicatrici, per la maggior parte procurate durante l’addestramento e la sottomissione dei kark .

    Vagò con il pensiero verso la battaglia che lo attendeva, e sul viso comparve un sorriso sghembo, privo di senno.

    Gioì.

    ***

    Due giorni dopo, quando la volta celeste presentò i primi segni di schiarimento annunciando l’alba imminente, il Domatore si diresse nella stalla eretta nell’accampamento. In una zona separata dai cavalli c’era il kark accoccolato a terra.

    La creatura era ricoperta da scaglie color verde petrolio, torbide tanto quanto una palude. Aveva due zampe posteriori con massicci muscoli e due ampie ali da pipistrello con un paio di artigli al centro, poi una coda lunga quanto il collo, ma con quattro spuntoni all’estremità, simili a una mazza ferrata. La testa era sottile, con la mascella lunga e irta di denti aguzzi.

    A vederla in quella posizione sembrava innocua e indifesa come un cucciolo, ma non appena fu sollecitata dal legame empatico, drizzò il muso mostrando fulgidi occhi verde acido.

    «Alzati!» ingiunse Torio, colpendola con un calcio sul fianco.

    Il kark emise un ringhio sommesso per protesta, dopodiché si sollevò sulle zampe, aiutandosi con gli artigli a metà delle ali.

    L’uomo lo sellò e quando ebbe finito lo condusse fuori per poi montarvici sopra. Sbattendo le ali in maniera un po’ goffa, si elevarono da terra spiccando il volo. Il chiarore del giorno fece breccia nella coltre notturna, nonostante si anticipasse una giornata priva di sole perché nuvolosa. La leggera brezza mattutina infastidì il cavaliere nero, sebbene indossasse un’armatura concepita per resistere al vento e al freddo durante il volo. Non era una questione fisica, ma morale.

    Vide i trabucchi montati e posizionati alla giusta distanza dalle mura nemiche. Schiere di soldati erano disposte in maniera ordinata, in attesa del suo comando. Le torri d’assedio erano pronte per l’avanzata.

    Di norma avrebbe dovuto parlamentare con i nemici, per dettare delle condizioni di resa, ma non avrebbe perso altro tempo in chiacchiere. Torio era certo che re Bredon non avrebbe ceduto la città con le chiavi del suo regno. D’altronde perché avrebbe dovuto? Era al sicuro dietro quelle mura.

    Il Domatore sghignazzò eccitato. «Bene… che la battaglia abbia inizio.» Sollevò il braccio in aria e fece cenno alle sue truppe di avanzare.

    Come in risposta, il kark emise un verso agghiacciante.

    I tamburi di guerra batterono il ritmo e l’Armata del Drago esultò con un boato imponente prima di mettersi in moto.

    Si avvicinarono fino a vedere i vessilli di Aghoria: sventolavano con eleganza sulle vette di torri e mura, esibendo lo stendardo bianco incorniciato da un filo d’oro avvolto in ramificazioni di cardi in fiore, al cui interno troneggiava la quercia smeraldina.

    Quando l’Armata del Drago scorse le difese della città da vicino, venne privata di tutto l’entusiasmo e della sicurezza iniziali. Aghoria appariva solida, impeccabile e impenetrabile.

    Le armi da assedio cominciarono a bombardare la capitale e dall’interno si udirono corni d’allarme. I massi scagliati s’infrangevano contro la scura pietra levigata, ma senza riportare danni evidenti, facendo solo un gran baccano. Andarono avanti per ore ma le difese non cedettero.

    Cadrai, oh se cadrai, maledetta! Pensò Torio osservando la scena dall’alto.

    Fece un altro cenno e le prime fiumane di soldati avanzarono all’attacco. S’infransero sulla cinta muraria come onde contro gli scogli, caddero trafitti dalla pioggia di frecce, bruciarono sotto colate di olio bollente. Le torri d’assedio furono abbattute e rese inutili dalle baliste che, poste sui torrioni delle mura, le arpionavano e le facevano crollare usando dei contrappesi.

    La prima giornata fu un totale fallimento e l’Armata del Drago riportò un’umiliante sconfitta con ingenti perdite. Al tramonto raccolsero i feriti e tornarono all’attendamento.

    «Maledizione!» imprecò Torio quando gli ufficiali gli fecero rapporto.

    Si chiese come facessero i kerniani a respingerli mentre affrontavano in contemporanea l’Orda sull’altro versante. Era incredibile.

    Trascorsero altri giorni ma furono identici al primo, nulla cambiò. Le forze dell’impero si sfoltivano a ciascun assedio, imbrattando di sangue l’esterno della città.

    «Generale Torio» prese a dire il capitano Prondol, raggiungendolo al centro di comando, dove il Domatore coordinava l’armata, «la persona che avete richiesto all’Imperatore Kedrax è appena arrivata.»

    03. Torbide riflessioni

    Una goccia di sudore le solcò il viso fino alla punta del mento e precipitò sul pavimento. Lenara aveva le guance imporporate a causa dell’allenamento. Stava boccheggiando, con le mani poggiate sulle ginocchia. Le faceva male ogni parte del corpo, non solo per lo sforzo fisico a cui non era abituata, ma perché aveva dinanzi una maestra impietosa.

    «Ancora» sentì dire di nuovo, con il consueto tono tanto inflessibile quanto privo di qualsiasi emozione umana.

    Sospirò prima di ravviare una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio. Si morse il labbro inferiore mentre raccoglieva il pugnale dalla lama di quarzo nero. L’arma, forgiata ad Arkada da Xashidern, con una «X» incisa sulla guardia crociata e l’ametista incastonata alla fine dell’elsa, le era sempre piaciuta, anche se non era mai stata in grado di usarla come meritava.

    «Quel pugnale è come te» affermò atona la voce femminile che le distava solo qualche metro. «Pregiato, affilato, dall’aspetto affascinante e dal potere eccezionale…»

    Se solo non avesse saputo che quella frase proveniva dall’assassina Lamanera, avrebbe pensato che fosse un complimento.

    «… Ma inutile in mani inesperte come le tue. Non esprimerà nemmeno una decima parte del suo potenziale, finché tu non sarai capace di maneggiarlo come si deve.»

    La maga sollevò lo sguardo, osservandola negli occhi scuri e a mandorla. L’assassina aveva un’espressione che pareva assente, vuota. I capelli neri le cadevano sulla schiena, raccolti in una treccia lunga fino alla vita.

    Avrebbe voluto replicare alla shikiana, ma Lenara sapeva che aveva ragione. Proprio per quello le aveva chiesto di addestrarla, di insegnarle a maneggiare il pugnale di jezaton . Desiderava temprare il proprio corpo, diventare autosufficiente anche nel combattimento. Voleva sapersi difendere da sola, non solo con il fascino e la magia, ma anche in maniere a lei meno convenzionali, seppur comuni ai più.

    Lo aveva capito con l’assenza di Seth. Si era sentita protetta, al sicuro dopo tanti anni, quando il mezzogigante le aveva coperto le spalle, eppure, non appena lui era andato via e lei aveva iniziato a indagare su Kedrax e Mizar, si era resa conto di quanto fosse vulnerabile a una lama.

    «Cosa stai aspettando?» chiese l’assassina.

    «Dea, stai bene?» domandò Jackar, saltellando come un bimbo in festa.

    Lei scosse la testa come ad accantonare i propri pensieri e si lanciò all’attacco. Riuscì a tentare tre colpi prima di finire di nuovo sul pavimento, disarmata.

    «Sei sicura di voler diventare quel che non sei?» chiese Lamanera, senza lasciar trasparire dal tono se fosse una provocazione o una domanda seria. «Tutt’al più potresti fondere ciò che sei con l’uso del pugnale.»

    Lenara sbuffò, spazientita. «Non ti ho chiesto alcun parere. Il tuo dovere è addestrarmi al combattimento corpo a corpo, limitati a questo.»

    L’allenamento riprese e l’assassina non mancò di essere una maestra severa, tuttavia era ciò che Lenara adesso voleva. Non cercava pietà né accondiscendenza, ma desiderava migliorarsi, trasformando la fragile incantatrice in qualcosa di più forte o, almeno, tentava di trovare più sicurezza in se stessa.

    Si riempì di lividi e sbucciature, per la prima volta vide il proprio corpo segnato da tagli, e per sua volontà.

    Ruggì lanciandosi in un affondo disperato, per finire faccia a terra.

    «Dea, così ti farai male!» piagnucolò Jackar, inclinando la testa come un gufo.

    La maga

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