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Fausto e Costante: Le parole di chi li ha amati, vissuti e raccontati
Fausto e Costante: Le parole di chi li ha amati, vissuti e raccontati
Fausto e Costante: Le parole di chi li ha amati, vissuti e raccontati
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Fausto e Costante: Le parole di chi li ha amati, vissuti e raccontati

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Quale eredità hanno lasciato Coppi e Girardengo al ciclismo e allo sport italiano? Le vicende sportive dei ciclisti sono quasi sempre legate a storie umane particolari. È questa la caratteristica che rende unico il ciclismo? Esiste oggi un ciclista contemporaneo che ricorda in qualche modo Girardengo e Coppi? A queste e a molte altre domande del giornalista Luca Lovelli rispondono 25 persone che hanno amato, vissuto e raccontato i due Campionissimi del ciclismo per eccellenza.
Le interviste: Carlo Girardengo, Costantino Girardengo, Costanza Girardengo, Michela Moretti, Fausto Coppi, Marina Coppi, Davide Cassani, Gian Carlo Ceruti, Giovanni Meazzo, Francesco Moser, Agostino Omini, Marino Bartoletti, Pier Bergonzi, Giovanni Bruno, Beppe Conti, Alessandra De Stefano, Emanuele Dotto, Claudio Gregori, Riccardo Magrini, Gianni Mura, Marco Pastonesi, Luca Ubaldeschi, Giorgio Viberti, Paolo Viberti.
Dalla quarta di copertina: Le famiglie, gli sportivi e i giornalisti che hanno vissuto i due Campionissimi si raccontano per celebrarli: passato e presente si incontrano a cent’anni dalla nascita dell’Airone e dal primo Giro vinto dall’Omino di Novi.
LanguageItaliano
Release dateJun 25, 2019
ISBN9788834145418
Fausto e Costante: Le parole di chi li ha amati, vissuti e raccontati

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    Fausto e Costante - Luca Lovelli

    famiglie

    Carlo

    Girardengo

    Carlo Girardengo è figlio di Stefano, a sua volta settimo di sette fratelli. Il quinto era Costante, suo zio.

    ***

    Quali erano le vittorie alle quali suo zio era più affezionato?

    Una volta siamo andati insieme a Sanremo e mi ha fatto vedere il percorso della classica del 1928, quella che lui vinse per l’ultima volta a trentacinque anni, battendo in volata Binda, che aveva nove anni in meno. Quella era la corsa che ricordava con più piacere. Binda era sempre davanti a lui e Costante, che era molto astuto, faceva finta di non riuscire a raggiungerlo. Arrivati ad Arma di Taggia, in prossimità di un passaggio a livello, Binda dovette fermarsi e mio zio lo raggiunse. Da lì fecero il resto della corsa vicini e poi, a Sanremo, ci fu l’arrivo in volata che poi premiò mio zio.

    Un’altra corsa alla quale era molto affezionato era la Roma – Trento – Trieste del 1919. Lui vinse tutte e tre le tappe, ognuna delle quali da oltre 300 chilometri, con partenza all’alba e arrivo all’imbrunire. Le gare in cui lui guadagnava di più erano sicuramente quelle in pista. Allora c’erano le Sei giorni e lui girava moltissimo. Una volta tornò da Londra con un sacchetto pieno di sterline d’oro…

    Che personaggio era Costante Girardengo al di fuori del ciclismo e quali aspetti lo rendevano unico per questo sport?

    Lui andava d’accordo con tutti, non l’ho mai visto darsi delle arie, nonostante la sua notorietà. Quando ero ragazzino lo vedevo poco, perché lui era sempre in giro a gareggiare. Mi fece però da testimone al matrimonio, nel 1963. Era il classico uomo di una volta. La mia prima bicicletta me la regalò lui, direttamente dalla sua fabbrica di Alessandria. Aveva una grande cura personale nel mangiare e nel bere. Si concesse solo il vizio del fumo, ma solo dopo aver concluso la carriera da ciclista. Anche d’inverno si allenava sempre, andando spesso in Liguria, dove il clima era migliore.

    Fu il pioniere di un certo tipo di alimentazione e il corridore che inventò di fatto il gioco di squadra. Negrini, originario di Molare, era uno dei suoi gregari più fidati. Costante li dirigeva tutti e loro eseguivano. Una cosa di cui si parla poco è il fatto che lui, nel 1938, fosse Commissario tecnico della Nazionale quando Bartali vinse al Tour de France. In quell’anno i corridori italiani erano peraltro in ritiro qui vicino, a Voltaggio.

    Qual era il rapporto tra suo zio e i novesi?

    Lui frequentava spesso il Caffè Reale, che era davanti alla chiesa di S. Nicolò. Quando era a Novi ci andava sempre e passava tanto tempo con i suoi amici. Coppi qui in città frequentava spesso la birreria di viale Saffi, quando si trovava dall’altro lato della strada. Il rapporto di mio zio con i novesi era sicuramente buono.

    Qual è la sua opinione riguardo la canzone di De Gregori e la fiction Rai di cui si è molto discusso?

    Per me la canzone di De Gregori è stata importante. È uscita nel 1992, ma si è diffusa l’anno dopo, a cent’anni esatti dalla nascita di mio zio. I giovani all’epoca non conoscevano il nome di Girardengo e l’hanno scoperto grazie a quel brano. Ci sono state tante discussioni attorno al testo, ma consideriamo che all’epoca di mio zio non c’era la tv e la radio non era così diffusa. È stata un modo per far conoscere il personaggio al grande pubblico.

    La fiction, invece, è totalmente infondata. Costante e Sante Pollastri avevano sei anni di differenza: è quindi impossibile che fossero amici come raccontato nel telefilm. Si incontrarono solamente nel 1924 al Velodromo d’inverno di Parigi, in occasione di una Sei giorni. Un incontro avvenuto perché Biagio Cavanna aveva portato il bandito nell’area riservata agli atleti.

    C’è un episodio simpatico che riguarda me e Cavanna. Nel 1952 correvo anch’io, benché senza successo. Lui un giorno mi toccò collo, torace e gambe e poi, in dialetto novese, sentenziò: «È meglio che cambi mestiere». In effetti ero davvero molto magro, non avevo il fisico da ciclista.

    Costante Girardengo non si interessava di politica, ma ci sono pareri discordanti sul fatto che lui avesse o meno avuto un incarico politico a Novi, anche se per un breve periodo. È vero?

    Lui di politica non si era mai interessato molto. L’incarico che ebbe deve essere durato poco, ma a quell’età ero piccolo e non ricordo bene. Onestamente credo sia possibile, però non ne ho la certezza.

    C’è un aneddoto particolare che ricorda di suo zio?

    Nel 1913 faceva il militare a Verona. Un giorno scappò per partecipare al Campionato italiano, da lui poi vinto, che si sarebbe svolto ad Alessandria. Una volta rientrato in caserma con la maglia tricolore, pensava di essere accolto con tutti gli onori del caso. Fu invece punito severamente. Volevano addirittura denunciarlo per diserzione. Quando iniziò la guerra era in caserma, ma poi lo mandarono a casa per la congiuntivite e non andò al fronte. Ci andò invece uno dei suoi fratelli, che non fece più ritorno. Costante perse quattro anni di carriera a causa del conflitto, sicuramente avrebbe vinto molto di più.

    Com’erano i rapporti tra suo zio e Coppi?

    Sicuramente buoni, perché c’era grande stima reciproca. Nel 1939, in occasione del Giro del Piemonte, mio zio osservò Coppi in gara perché voleva prenderlo in squadra. A metà corsa Fausto era in fondo al gruppo, tra gli ultimi, e così mio zio smise di vederla. Alla fine, però Coppi arrivò terzo. Terminato il Giro, Pavesi lo ingaggiò nella Legnano. Si sapeva che come corridore fosse promettente, ma all’inizio di quella corsa non l’aveva dimostrato.

    Mio zio diede anche tanti consigli a Fausto. Coppi era timido e Cavanna lo trattava piuttosto duramente. La rivalità con Binda c’era, ma solo sportiva. Tra loro erano amici.

    Costantino

    Girardengo

    Costantino è figlio di Ettore Girardengo, primogenito di Costante e fratello di Luciano. Ora in pensione, ha esercitato l’attività di psichiatra a Tortona.

    ***

    Il 2019 non è un anno come gli altri per lei e la sua famiglia.

    Per quello che mi riguarda, è una condizione abbastanza normale. I ricordi che ho di mio nonno sono essenzialmente privati. Del Costante ciclista sanno molto di più altre persone rispetto a me. La mia famiglia, parlando anche per mia sorella, ed io siamo riconoscenti a Novi per il Museo dei Campionissimi e per le iniziative che la città ha sempre portato avanti, mantenendo vivo un ricordo che diversamente si sarebbe perso.

    Uno degli elementi che ha rinnovato il ricordo del nonno è stata la canzone di De Gregori, nonostante le imprecisioni. Ma si tratta di una storia e come tale va presa. Non va considerata una descrizione storica, ma va presa come una favola carina. Il nonno ha anche avuto la fortuna di avere nel tempo grandi giornalisti e scrittori che ne hanno rinnovato la fama. Se Achille non avesse avuto Enea, magari nessuno lo avrebbe conosciuto. I grandissimi, soprattutto in epoca pre-televisiva, hanno avuto grandi che li hanno raccontati. Soprattutto in un’epoca in cui la gente le corse se le immaginava e non le vedeva. Il ricordo di mio nonno passa attraverso queste descrizioni.

    Lui era una persona normale. Il rapporto con Novi non è mai stato facilissimo, seguendo il principio nessuno è profeta in patria. Però viveva molto la città. Gli piaceva andare a giocare a carte nel bar che un tempo si trovava al posto del Cinema Italia. Ci teneva a essere riconosciuto, ma non in modo ossessivo. Era una persona molto centrata sul presente e su quello che stava facendo. Il passato era importante, ma serviva comunque per il presente. Non era un grandissimo narratore, ma quelle che raccontava erano belle storie. Per noi bambini erano come favole ambientate in un mondo sconosciuto.

    La fiction su suo nonno è stata criticata da più parti, familiari compresi…

    Per ragioni storiche è chiaro che una storia così non sia veritiera. Consideriamo comunque le distorsioni per ragioni di spettacolo. Depurata la storia degli elementi di fantasia, a mio avviso non bisogna essere troppo critici. Basterebbe pensare alla differenza d’età tra mio nonno e Pollastri, che aveva dodici anni quando mio nonno vinse il primo Campionato italiano. Immaginare una qualsiasi relazione tra un ragazzino e mio nonno già Campione d’Italia è impensabile.

    Poi, per ragioni diverse, hanno avuto un certo nome l’uno e l’altro, ma nessun legame di amicizia. Se, però, non ci fossero state queste storie, il nome di mio nonno sarebbe rimasto nel dimenticatoio. Pensiamo a Binda, che è stato uno dei più grandi di sempre e che veniva pagato per non correre, tanto era forte: non c’è chi lo ha raccontato o chi ne ha costruito un’immagine più o meno fantastica. È rimasto solo per i grandi appassionati. Coppi stesso ha sempre fatto notizia, non solo perché era un corridore eccezionale, ma anche per la sua storia d’amore ingarbugliata e per la sua morte arrivata in circostanze insolite. Si è costruito il mito attorno a Coppi. C’è il corridore, c’è il mito e poi ci siamo noi che abbiamo vissuto il grande Girardengo come un nonno. Sono tre livelli separati.

    I ricordi della dimensione privata con suo nonno?

    Con mio nonno i miei ricordi sono legati alla cascina in cui abitava. Va spesa sicuramente una parola anche per mia nonna. Lei era il suo grande appoggio e questo va considerato. Il nonno era il personaggio pubblico, ma tutto il resto era gestito da lei. Era quella che governava la parte quando lui era lontano, lo accompagnava nella preparazione quando erano giovani, lo accudiva quando erano invece anziani. È banale da dire, ma è proprio vero che dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna, e mia nonna la era. Li ricordo quindi insieme in questo senso. Lei era un fondamentale elemento di equilibrio per lui.

    Durante la stagione ciclistica, da marzo in poi, era la persona che teneva insieme tutto. Una donna non al centro dell’attenzione, ma di cruciale importanza. Mio nonno se doveva dire quattro parole ne diceva tre. Non era uno da grandi chiacchiere. Anche se ero molto piccolo, mi ricordo di quando passavano di lì i grandi ciclisti, soprattutto Anquetil e Binda, che erano molto gentili con lui. Una volta i nonni mi portarono a vedere una Sei giorni. Mi trovavo nel parterre, si erano avvicinati Belloni e Binda e mi era rimasto particolarmente impresso il baciamano di Belloni alla nonna. Era un gran signore, con un enorme cappello all’americana. Poi, mio nonno non aveva un carattere facile. Considera che lui e Binda una volta vinsero una Sei giorni senza rivolgersi la parola, perché lui era in grado di non parlare per settimane se era arrabbiato con qualcuno. Per vincere una corsa del genere senza proferire parola dovevi essere davvero il più forte.

    Il ciclismo, nei miei ricordi, entrava quando arrivava l’amico corridore o perché ero nel parterre a vedere la sua gara. Lui nel tempo non perse mai un certo modo di essere una persona normale, dall’andare a caccia al giocare a carte con gli amici. Parlando però della parte sportiva, mio nonno era grande perché inventò il ciclismo moderno: il gioco di squadra in corsa, la preparazione invernale per la stagione e un certo tipo di alimentazione. Grazie a mio nonno si passò dalla parte più eroica a quella parte di ciclismo più scientifica e studiata.

    Anche con lei quindi non parlava molto delle sue imprese sportive…

    «Ho fatto la corsa, l’ho vinta

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