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Altre recensioni 2011-2019
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Altre recensioni 2011-2019

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Le 150 recensioni di narrativa e saggistica qui raccolte sono state pubblicate su riviste e blog letterari tra il 2011 e il 2019.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 5, 2019
ISBN9788831623179
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    Altre recensioni 2011-2019 - Alida Airaghi

    AIRAGHI

    AAVV, ELOGIO DELLA LENTEZZA

    «Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro, e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l'anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo. Andare lenti è fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall'estate, andare col vento di una barca e zigzagare per andar dritti. Andare lenti è conoscere le mille differenze della propria forma di vita, i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze. Andare lenti sono le stazioni intermedie, i capistazione, i bagagli antichi e i gabinetti, la ghiaia e i piccoli giardini, i passaggi a livello con gente che aspetta, un vecchio carro con un giovane cavallo, una scarsità che non si vergogna, una fontana pubblica, una persiana con occhi nascosti all'ombra. Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti. Andare lenti vuol dire avere un grande armadio per tutti i sogni, con grandi racconti per piccoli viaggiatori, teatri plaudenti per attori mediocri, vuol dire una corriera stroncata da una salita, il desiderio attraverso gli sguardi, poche parole capaci di vivere nel deserto, la scomparsa della folla variopinta delle merci e il tornar grandi delle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori della scena principale e più vicini a tutti i segreti. Il pensiero lento offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce, quando la macchina inizierà a tremare sempre di più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica».

    Questo brano poeticissimo e sapiente, espressione di una saggezza antica − quando gesti, riflessioni e parole non subivano la pressione della fretta, l’ansia del profitto, il desiderio di superare limiti propri e altrui −, è tratto da un importante libro di Franco Cassano, professore di sociologia all'Università di Bari, saggista, editorialista e deputato del Partito Democratico: Il pensiero meridiano.

    Oggi che lo slow life sta diventando un monito e una parola d’ordine, quasi un imperativo di moda negli ambiti più disparati della nostra frenetica quotidianità (dallo slow food al sesso tantrico, dallo yoga al pilates, dalla medicina omeopatica al viaggio a piedi o in bicicletta), Franco Cassano ci ricorda che il recupero di una dimensione più rilassata dell’esistenza, meno competitiva e non orientata solamente verso l’innovazione, il successo e la velocità, deve diventare un obiettivo per tutti, pena l’autodistruzione individuale e collettiva. In un volume più recente, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, ci invita a non lasciarci condizionare e ipnotizzare da alcuni stereotipi imposti dai mass media: l’ossessione salutistica che ci costringe a jogging quotidiani stressanti; il tecnicismo che ci induce ad acquistare l’ultimo modello di auto, di computer, di cellulare; l’ansia di prestazione nel lavoro, nella sessualità, nello sport; l’allarmismo costante che ipotizza di continuo catastrofi ambientali, belliche, finanziarie.

    Stiamo diventando sempre più impazienti, pressati da impegni inderogabili e attratti da mete irraggiungibili: finiamo per «considerare inutili e noiose tutte le strade che conoscono la salita, le curve e la sosta, il mutare delle prospettive». E questo ci succede anche nei rapporti umani che stabiliamo con gli altri: intimità, gioco, elaborazione del desiderio, costruzione di un’amicizia, silenzio e solitudine vengono considerati momenti fallimentari, non proficui, superflui.

    «Abbiamo scelto Cartesio invece di Montaigne, la via del controllo razionale e tecnologico del mondo invece di quella della saggezza, di quel sapere che non si è mai proposto di esorcizzare il limite, ma ha continuamente dialogato con esso». Forse, secondo Cassano, è ora di rivalutare la vita flemmatica della provincia, la passeggiata senza scopo, «la nobiltà del cazzeggiare» perdendo tempo, i momenti di vuoto, di noia e di inoperosità in cui recuperare fantasie trascurate e nostalgie rimosse, il cappuccino gustato seduti in piazza piuttosto dell’espresso trangugiato in piedi al bar. Coltivando «un’arte più sottile, quella di provare a uscire di lato dalle giornate, a sospenderne la pressione per rimettere in ordine le proporzioni, ciò che viene prima e ciò che, anche se crede di essere importante, deve imparare a fare la fila e attendere il suo turno. Bisognerebbe disporre di molte parentesi da collocare ogni tanto, come dei paraventi, nelle nostre giornate, per imparare a ritrovarci da soli o con chi ci piace...».

    Queste argomentazioni vengono riprese da un punto di vista più razionalmente stringente anche da Lamberto Maffei (neurobiologo, direttore dell'Istituto di Neuroscienze del CNR dal 1980 al 2008, dal 2009 al 2015 presidente dell'Accademia Nazionale dei Lincei), che in Elogio della lentezza spiega che al nostro cervello necessitano processi mentali lenti per produrre pensieri e riflessioni elaborate. Se infatti reagiamo velocemente, istintivamente e automaticamente agli stimoli ambientali, in modo da metterci al riparo da eventuali pericoli e garantirci la sopravvivenza, quando siamo alle prese con un lavoro artistico o scientifico dobbiamo forzatamente procedere con più cautela, poiché entrano in gioco valutazioni più complesse, memorie, dubbi, interrogativi. Ed è un bene sia così, perché se la velocità speculativa diventasse il solo parametro di valutazione intellettuale «il successo evolutivo degli uomini rapidi porterebbe con sé la scomparsa di tutte le azioni considerate inutili, come la contemplazione, la poesia, la conversazione per il piacere di parlare, e la comparsa di una nuova arte, quella della rapidità, dove la poesia è un tweet e la pittura una pennellata». Quindi, ben vengano i processi mentali lunghi del ragionamento, dell’argomentazione e della sperimentazione rispetto all’irrazionale compulsivismo dell’azione non meditata, che ci spinge a obbedire in maniera meccanicistica a stimoli esterni molto spesso indotti dalla tecnologia mercificata e dalle esigenze del profitto economico. Maffei invita pertanto a un recupero dell’umanesimo e dei valori culturali basati sia sull’arte sia su una scienza libera, nobilmente gratuita, non asservita al capitale, ma al potenziamento della conoscenza universale.

    Peter Handke − che nella sua raccolta di saggi Lentamente nell’ombra ha ripreso il verso virgiliano (Buc. I, 4) lentus in umbra −, accosta al concetto di lentezza quello della durata, come riflessione sul tempo sospeso, in attesa, in grado di insegnarci la bellezza di uno sguardo calmo, contemplativo, non arrogante, non ingordo. Rileggiamo alcuni versi da Canto alla durata.

    «mi venne così di descrivere / la sensazione della durata / come il momento in cui ci si mette in ascolto, / il momento in cui ci si raccoglie in se stessi, / in cui ci si sente avvolgere, / il momento in cui ci si sente raggiungere / da cosa? Da un sole in più, / da un vento fresco, / da un delicato accordo senza suono / in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. [...] // Ecco, la durata è la sensazione di vivere. [...] // Credo di capire / che essa diventa possibile solo / quando riesco / a restare fedele a ciò che riguarda me stesso, / quando riesco a essere cauto, / attento, lento, / sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita. [...] // E io, / affinché da me nascano i momenti della durata / e diano un'espressione al mio volto rigido / e mettano nel mio petto vuoto un cuore, / devo assolutamente esercitare un anno dopo l'altro / il mio amore. / Restando fedele / a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante, / impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni, / sentirò poi forse / del tutto inatteso / il brivido della durata / e ogni volta per gesti di poco conto / nel chiudere con cautela la porta, / nello sbucciare con cura una mela, / nel varcare con attenzione la soglia, / nel chinarmi a raccogliere un filo. [...] // Singolare è il sentimento della durata / anche alla vista di certe piccole cose / quanto meno appariscenti, tanto più toccanti: / un cucchiaio / che mi ha accompagnato in tutti i traslochi / un asciugamano / appeso nelle stanze da bagno più diverse, / la teiera e la sedia di vimini / per anni lasciata in cantina / o accantonata da qualche parte / e ora finalmente di nuovo al suo posto, / un altro, in verità, diverso da quello originario / e tuttavia al suo posto. [...] // Anche a casa mi si fa accanto molte volte / quando cammino su e giù per il giardino / nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale, / [...] oppure quando mi siedo nella mia stanza / al cosiddetto tavolo da lavoro ‒ / non per attendere alla mia occupazione, al testo, / ma per fare tutti quei soliti gesti secondari: / spostare indietro la sedia, / dare uno sguardo nel cassetto [...] / sbirciare dalla finestra in giardino / dove i gatti lasciano le loro tracce / nella neve profonda e tra l'erba alta, / mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento / il fischio e il trabalzare / dei treni che percorrono la pianura. [...] // O durata, mia quiete! / O durata, mia sosta! [...]».

    Anche Milan Kundera, nel suo romanzo La lentezza si esprime celebrando il piacere della perdita di tempo, della rilassatezza, della sospensione di ogni vacuo attivismo.

    «Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri tra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia; è felice. Nel nostro mondo, l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca. Guardo nello specchietto retrovisore: sempre la stessa macchina che non riesce a superarmi a causa del traffico in senso inverso. Accanto al guidatore è seduta una donna; perché l’uomo non le racconta qualcosa di divertente? Perché non le appoggia la mano sul ginocchio? Macché: l’uomo maledice l’automobilista davanti a lui perché va troppo piano, e neppure la donna pensa a toccarlo con la mano, mentalmente sta guidando anche lei, e anche lei mi maledice».

    Sia lode alla lentezza, dunque, valore sminuito quando non disprezzato dalle ideologie contemporanee del progresso forzato, della produttività esasperata, della ipervelocità dominatrice. Sia lode alla lentezza che ci fa approdare a una dilatazione consapevole dell’istante, a un’estensione orizzontale dell’adesso, inducendoci − come aveva intuito già Sant’Agostino − a raggiungere anche un’estensione dell’anima.

    «Il Pickwick», 26 gennaio 2018

    AAVV, MACELLAI

    Giuseppe Calogiuri (Lecce 1978), avvocato, giornalista e musicista, accomunato spesso ad altri giallisti pugliesi (Gianrico Carofiglio, Donato Carrisi e Omar Di Monopoli), in un breve racconto ha evidenziato come la figura del macellaio venga tradizionalmente rappresentata nell’immaginario popolare, e spesso anche nella letteratura, come quella di un uomo truce, amante del macabro, capace di azioni efferate: in grado di sezionare carcasse di animali senza provare emozioni, e addirittura esibendo una sorta di gusto sadico nel maneggiare coltelli, far sgocciolare sangue, appendere a ganci arrugginiti agnellini e vitelli, squartare ventri e disarticolare ossa. Il suo protagonista, Roberto Deruta detto Tino, discendente da una generazione di beccai, gode in paese della meritata fama di gustosofo, gastronomo esperto di alta cucina, generoso dispensatore di consigli culinari ai vari clienti. I quali tuttavia lo osservano con sospetto e diffidenza, alimentando i pettegolezzi più crudeli e fantasiosi da quando sua moglie Fedora è sparita senza lasciare traccia di sé, e cercano indizi del macabro uxoricidio nel negozio, nella cella frigorifera, nei pezzi di scottona in bella mostra sul banco di vendita, timorosi di essersi incautamente e cannibalmente cibati di una vittima incolpevole.

    In un romanzo di Alina Reyes (Bruges 1956), considerato un caposaldo della letteratura erotica di consumo, un macellaio sessuomane avvia una morbosa relazione con una giovane studentessa, in una disinibita esaltazione della corporeità: «E il macellaio che mi parlava di sesso per tutto il giorno era fatto della stessa carne… aveva i suoi pezzi di prima e di seconda scelta, esigenti, avidi di bruciare la loro vita, di trasformarsi in polpa», «Chi ha detto che la carne è triste? La carne non è triste, è sinistra. Sta alla sinistra della nostra anima, ci cattura quando meno ce lo aspettiamo, ci trasporta su mari densi, ci affonda e ci salva; la carne è la nostra guida, la nostra luce nera e spessa, il pozzo d'attrazione in cui la nostra vita scivola a spirale, risucchiata fino alla vertigine...».

    Di tutt’altro genere è il macellaio descritto da Anna Momigliano (Milano 1980) nella biografia del presidente siriano Bashar al Assad, figura tormentata che non ha saputo sfuggire al proprio destino di figlio di un patriarca-tiranno. In un volume pubblicato nel 2013, la giornalista ha ricostruito parzialmente e in un’ottica eurocentrica, la vicenda umana e storica di Bashar, dagli studi universitari di oftalmologia a Londra all’elezione presidenziale avvenuta a soli 34 anni; dalle prime e timide aperture democratiche con la primavera di Damasco del 2001 a capo di un regime totalitario. Illustrando l’ambivalenza politica di Assad nella sua relazione altalenante con l'Occidente (con cui nei primi anni di guerra ha cercato discusse alleanze e che in seguito ha accusato di ingerenze delittuose, tradimenti e stragi di civili inermi), l’autrice ha descritto e commentato i rapporti del governo siriano con il potere economico più corrotto, le faide di palazzo, l’eliminazione degli avversari, il siluramento di generali, la cancellazione di elementari diritti umani della popolazione, il sostegno al partito libanese dello Ḥezbollāh, la protezione dei palestinesi di Ḥamās, l'inflessibile ostilità mostrata verso Israele. Riguardo alle carneficine perpetrate dal suo esercito, così Assad si giustificava candidamente nel 2012: «Quando un chirurgo si trova in sala operatoria, tagliando, amputando e ripulendo, e la ferita sanguina, gli si dice che le sue mani sono sporche di sangue oppure lo si ringrazia per avere salvato il paziente?»

    I macellatori di cui scrive in versi Ivano Ferrari (Mantova 1948) profanano spietatamente la sacralità della vita, animale e umana, all’interno di un mattatoio, «la grande sala dove si esibisce la morte», in cui lo stesso autore ha prestato un umile e umiliante servizio negli anni ’80. Meno di cento brevi poesie compongono il libro, esponendo agli occhi del lettore un universo degradato di sofferenza, sopraffazione, crudele indifferenza, in cui lo squartamento della carne si mescola a sangue, letame, sperma, bava di mucche, tori, vitelli, cavalli, maiali; nel liquame scorrazzano topi, annegano vermi e larve, ronzano mosche. I gesti automatici e impietosi degli addetti alla macellazione (facchini e veterinari, operai e ufficiali sanitari), e dello stesso poeta che si ritrae con perfida sincerità in azioni addirittura brutali e oscene, assumono l’intollerabile e talvolta beffarda concretezza di un imperdonabile massacro: «Sventrate intere famiglie / oggi / lunedì di intensa macellazione. / Una vacca ha partorito un vitello / negli occhi la paura di nascere / il foro in mezzo il nostro contributo / a tranquillizzarlo», «Dalla vasca d’acqua bollente / emerge un enorme maiale / bianco come uno spettro / che oscilla impudico fino a quando / dal finestrone il sole / accende quintali di luce», «Lo stanzino in fondo allo spogliatoio / è detto delle seghe / affisse a tre pareti foto di donne / dalla vagina glabra / nell’altra il manifesto di una vacca / che svela con differenti colori / i suoi tagli prelibati». Qui potremmo citare il grande quadro dipinto da Annibale Carracci nel 1585, ed esposto ad Oxford nella Christ Church Gallery, Bottega del macellaio, in cui alcuni lavoranti si applicano a operazioni diverse. In basso, un giovane sta per sezionare un capretto, un altro appende mezzo bue a un gancio, un terzo sistema la carne sul bancone, un quarto con un grembiule bianco sorregge la bilancia, mentre carcasse penzolano dall’alto e ritagli di carne danno mostra di sé sul piano inclinato, in un contrasto coloristico di rossi, bianchi, neri. Carracci, che spesso amava riprodurre figure umili di popolani (cfr. Il mangiafagioli) si era ispirato al lavoro di uno zio, il cui negozio gli aveva offerto materiali di studio, e in misura maggiore alla pittura fiamminga di genere, che presentava scene di cucina o di bottega. Inoltre aveva svolto un breve apprendistato presso Bartolomeo Passerotti, il quale, dipingendo frequentemente interni domestici o di lavoro, ritrasse negli stessi anni una Macelleria in cui due omacci ostentano pose grottesche e triviali, con un intento derisorio del tutto assente in Carracci, più interessato invece a rendere con realismo e verosimiglianza documentaristica le attività lavorative svolte.

    Infine, agghiacciante beccaio-carnefice è quello che Sándor Márai (Košice 1900) descrisse nel racconto che segnò il suo esordio come narratore nel 1924, e che ora Adelphi ripropone nella traduzione di Laura Sgarioto. Il protagonista Otto Schwarz era nato a fine ’800 in una cittadina poco distante da Berlino, figlio di un rude sellaio protestante e di una donnina timorosa e mesta. Concepito nella notte in cui i suoi genitori avevano assistito terrorizzati a un tragico incidente in un circo, nato di dieci mesi, di sei chili e già con i denti, aveva nella violenza del parto ucciso la madre, ipotecando in questo modo il suo futuro destino di massacratore. La vocazione sadica alla macellazione gli era sorta già nella prima infanzia, assistendo all’uccisione di una mucca, poi replicata come un rito nei suoi giochi perversi di bambino: «L’istante in cui vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a terra, senza emettere alcun suono e senza dibattersi, si impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia trionfale… Stava vicino alla carcassa e osservò con occhi ardenti come le si avventavano sul collo con seghe e coltelli: il sangue sgorgò in un fiotto abbondante, le interiora schizzarono fuori dalle costole, e di lì a poco la testa del bovino, tranciata rozzamente via dal corpo, giacque accanto al tronco».

    Divenuto adulto, Otto riesce a esaudire il suo sogno, e viene assunto nel mattatoio centrale di Berlino. Le due pagine che Márai dedica alla prima visita del giovane in questo edificio, sono di un’esemplare concisione e pacatezza nel loro astenersi da qualsiasi considerazione moraleggiante, consapevoli che la pura descrizione dell’ambiente non necessita di alcun artificioso commento letterario.

    «In angusti box, da cui provenivano i muggiti terrorizzati delle bestie, sordi schianti e imprecazioni, e il sangue fluiva in rigagnoli densi e neri attraverso scanalature praticate nel pavimento, stavano giovanotti dal volto imbrattato di sangue fino all’attaccatura dei capelli, con lunghi stivali che arrivavano all’inguine come quelli dei pescatori, grembiuli sudici e insanguinati e le maniche rimboccate, alcuni dei quali segavano in due lungo la colonna vertebrale gigantesche carcasse appese al soffitto, mentre altri recidevano con coltelli ricurvi la gola di ovini collocati su cavalletti di legno senza badare al copioso fiotto di sangue che schizzava loro in faccia, o strappavano le pelli dalle carni fumanti nello stesso modo in cui si sbuccia un frutto. Davanti all’ingresso dei box i garzoni lavavano le interiora, e il tanfo asfissiante del sangue, della carne fumigante, delle budella putrescenti e degli escrementi colpiva chi entrava, a meno che non vi fosse avvezzo, come qualcosa di tangibile. Si udiva fragore di ossa spezzate, e ovunque si volgesse lo sguardo si vedevano balenare le scuri e gli animali crollare al suolo con le zampe puntate dritte verso l’alto; di tanto in tanto qualche muggito turbava il ritmo monotono del lavoro. La scena meccanica e ufficiale dell’uccisione era in stridente contrasto con la frotta spaurita di coloro che stavano là a guardare, per lo più vecchi e vecchie che si aggiravano davanti ai box con in mano scodelle e pentole: i derelitti e gli emarginati della metropoli che con l’umile e patetico scintillio della fame negli occhi cercavano di carpire uno sguardo compassionevole dei garzoni macellai, sgomitavano con foga bestiale per afferrare le interiora e gli scarti di carne che cadevano qua e là. Vi erano anche vecchie vestite di stracci che si appostavano nel cortiletto che dai recinti conduceva ai box, e attraverso il quale venivano sospinti i bovini destinati alla macellazione, per poter acciuffare una vacca macilenta che, mentre la bestia percorreva il suo ultimo tragitto, mungevano in tutta fretta con il tacito assenso dei bovari. Si spintonavano strillando per poche gocce di latte, e nei loro gesti c’era qualcosa della furia dei rapaci necrofagi».

    Otto non tradisce nessuna emozione di fronte al dolore degli animali e degli uomini, e mantiene la stessa imperturbabile indifferenza in tutti i suoi rapporti con il mondo circostante: con le donne che frequenta, con le rare amicizie, con gli avvenimenti storici che stanno conducendo il suo paese nel baratro della prima guerra mondiale; dimostra un’unica sensibilità nei confronti della figura del Kaiser, che ai suoi occhi incarna l’ideale di autorevole e superiore dominio su tutto l’universo animato. Non appena riesce ad aprire un negozio in proprio, viene richiamato alle armi, e inviato sul fronte serbo.

    La maestria narrativa di Sándor Márai si esprime nella geniale invenzione di posticipare gli avvenimenti che condussero il protagonista alla perdizione, annunciandone invece in anticipo la soluzione finale e fatale, in modo che il lettore scopra da solo e lentamente l’abiezione assoluta del personaggio. Sia che tratti con bestie o con esseri umani, Otto Schwarz incarna il prototipo della violenza bruta, illogica e irresponsabile, compiuta con una gratuità quasi fanciullesca, seguendo il richiamo tribale del sangue. In guerra, mentre striscia nel fango delle trincee, scopre il riscatto dallo stato di avvilimento animalesco in cui è ridotto, solo durante gli attacchi corpo a corpo con il nemico.

    «‘Io sono un macellaio’», pensò, emozionato per l’improvvisa illuminazione «‘anche questo accanto a me è un macellaio, siamo tutti macellai, e bisogna aprire la pancia alle bestie con il coltello’. Macellaio-coltello-pancia. In quell’attimo la sua vita acquistò un senso. Aprire la pancia alle bestie, pensò entusiasta, bisogna aprire la pancia a tutti quanti per… e qui si interruppe un istante… per la patria. Poco dopo si corresse: per la patria e per l’imperatore».

    Sarà proprio l’idolatrato imperatore a decorarlo per i suoi atti di eroismo, promuovendolo di grado («Hai fatto bene il tuo dovere, figliolo»); lo stato di esaltazione che gli deriva da tale riconoscimento ufficiale, lo spinge a guidare spietati assalti in rappresaglie e spedizioni punitive contro innocui abitanti di villaggi sperduti nelle retrovie.

    Tornato a Berlino, il sergente Otto Schwarz si ritrova svuotato e incapace di riprendere le abitudini di normale cittadino, e viene travolto da un rancore profondo verso la vita imbelle e improduttiva che è costretto a condurre. Le pratiche autodistruttive e i vizi a cui si abbandona lo portano inevitabilmente a sprofondare in un baratro di colpa, follia e morte.

    Forse Sándor Márai non si rese conto, scrivendo questo tragico racconto quasi un secolo fa, di aver offerto un fondamentale contributo a due importanti ideali etici: il pacifismo e il vegetarianismo.

    «Il Pickwick», 12 aprile 2019

    AAVV, UN ALTRO MONDO IN QUESTO MONDO – MORETTI&VITALI, BERGAMO 2014

    Con l'esplicito sottotitolo Mistica e Politica, questo volume curato da Wanda Tommasi offre ai lettori dodici qualificatissimi interventi sul significato storico e sociale della pratica mistica, così come si è venuta delineando dal medioevo ad oggi. In margine a un convegno tenutosi all'Università di Verona nel settembre del 2013, gli autori dei saggi (che poi sono nella quasi totalità autrici) hanno ritenuto opportuno e fecondo esaminare quanto rilievo possa avere ancora nella nostra contemporaneità l'aspirazione ad aprirsi, in questo mondo, a un percorso altro, in grado non solo di sottrarsi alle logiche utilitaristiche del potere, ma addirittura di riuscire a incrinarle facendo riferimento a un lato invisibile della realtà, «a un ordine senza nome né forma che noi non possiamo definire ma che tuttavia ci orienta» ‒ come suggerisce la prefatrice.

    Quali sono, quindi, le ragioni e le caratteristiche che determinano la funzione essenziale dell'esperienza mistica oggi? Secondo Giancarlo Gaeta, massimo studioso di Simone Weil, la mistica è «un accesso al soprannaturale limitato a pochissimi», che tuttavia ha un decisivo «effetto di crescita sulla vita comune... così come lo è il lievito nella massa della farina», perché «da sempre e sotto ogni cielo si è avuta certezza dell'esistenza di un ambito superiore, l'ambito del bene assoluto, in cui hanno cittadinanza parole come verità, giustizia, bellezza, amore». Wanda Tommasi raccomanda di fare un uso sapienziale di alcune formule dell'agire mistico che possono servirci da orientamento anche nella nostra quotidianità. A partire dall'umile regola che si era proposta Teresa d'Avila: «fare il poco che dipende da me», invito a una considerazione realistica «della propria forza e della propria miseria» nell'indirizzarsi verso un agire comunque trasformativo. Proposito ripreso secoli dopo da Simone Weil, Etty Hillesum, Cristina Campo, nel loro dare largo spazio all' infinitamente piccolo, al niente senza nome, ma «irrinunciabile», che rinvia al soprannaturale. Cinque teologhe (Morra, Vantini, Simonelli, Tomassone, Potente) indagano il misticismo soprattutto come fenomeno religioso legato alla cristianità. Forti di quando affermava Karl Rahner negli anni '60: «i credenti del terzo millennio o saranno mistici o non esisteranno per niente», analizzano la relazione tra mistica e possessione diabolica (Stella Morra) come rimosso della storia; l'intuizione atea di Julia Kristeva (Lucia Vantini), che individua psicanaliticamente la dimensione di eccesso e di ulteriorità non addomesticabile del misticismo; la preghiera come pratica trasformatrice e modalità di abitare il mondo (Cristina Simonelli); l' illuminante esempio di resistenza politica della pacifista tedesca Dorothee Sölle (Letizia Tomassone); e infine la necessità di accogliere in se stessi la gratuità del vuoto, il silenzio del nulla (Antonietta Potente).

    La teorica del femminismo Luisa Muraro afferma che «la mistica è una lotta contro i dualismi che sono già stabiliti, oppure che si producono... dalla perdita di contatto con la propria interiorità». Erminia Macola, docente universitaria e psicoanalista a Padova, ritrova nelle estasi di Santa Teresa e nel suo abbandono totale a Dio una rivendicazione della fisicità come ricerca della verità. Gloria Zanardo rilegge «l'impersonale» di Simone Weil («l'intima estraneità», lo svuotamento spassionato) come un grimaldello capace di scardinare le interpretazioni tradizionali di politica e giustizia. Contemplazione e Kenosi sono poi alla base del rinnovamento etico e di pensiero introdotto nella scuola di poesia veneziana La settima stanza di Laura Guadagnin. Per concludere la breve analisi di questi testi, tirando un po' le fila delle loro intuizioni e proposte interpretative, citerò il saggio di Annarosa Buttarelli, più polemicamente critico dei precedenti. Buttarelli afferma: «sono convinta che la politica delle donne abbia bisogno di un respiro ulteriore che l'esperienza mistica e l'eterno extra-storico possono dare per immettere un cuneo nella fase costituente di oggi». Una mistica però più declinata al femminile che al maschile, se è vero che nella storia occidentale più donne che uomini hanno vissuto un'esperienza in prima persona di ciò a cui diamo nome Dio. Ma soprattutto perché, come sostiene la studiosa della Comunità di Diotima, «nella mistica maschile prevale nettamente l'idea che sia necessario perseguire l'annichilimento dell'Io, non per amore del mondo, ma per incoraggiare e coltivare la solitudine e la perfezione del gesto... il cammino di perfezione sembra essere percorso come 'cura sui'.... cura-di-sé piuttosto che lotta perché... prevalgano le relazioni». Mentre una politica delle donne che sappia «collocare in un altrove non umano e misterioso la fonte del potere» mettendo «in grado di governare senza incarnare alcunché, di restare creativi e sovrabbondanti di idee, di non avere conti sospesi con nessuno, nemmeno con dio» (e viene citato l'esempio luminoso di Cristina di Svezia) «apre alla generatività dell'amore».

    «Leggendaria» n.112, luglio 2015

    AAVV, VIOLENZA DIVINA ‒ EDB, BOLOGNA 2012

    L’educazione cattolica tradizionale ci ha abituato a un’immagine del cristianesimo irenica, rasserenante, confortante, soprattutto se paragonata a quella attribuita ad altre religioni, ritenute sanguinarie, vendicative, brutali. In realtà, nelle Sacre Scritture non sono rare le pagine in cui tracima violenza, sia da parte della divinità che da parte degli uomini, e il volume di tre titolati autori francesi (due teologi e uno psicanalista: Jean Daniel Causse-Élian Cuviller-André Wénin) scandaglia in profondità questo tema, attraverso un’esplorazione esegetica e antropologica che apre a stimolanti punti di riflessione, anche per i credenti più ortodossi.

    Il libro si articola in quattro capitoli: il primo è dedicato all’indagine della violenza nell’Antico Testamento, che viene esercitata all’interno delle famiglie e dei popoli, ma anche prescritta da Dio, attraverso sacrifici umani e uccisioni di vittime innocenti. Nel secondo saggio si affronta la violenza dei testi sacri dal punto di vista della psicanalisi, recuperando l’analisi freudiana (la pulsione arcaica a divorare, a incorporare l’altro, negandone l’alterità) e indagando gli aspetti problematici del silenzio e della gelosia divina.

    Nel terzo capitolo si esaminano i testi del Nuovo Testamento, in particolare l’Apocalisse, le lettere di Paolo e in Vangelo di Matteo: il cammino della lotta contro il male e lo scandalo della Passione, in cui Gesù accetta di subire la violenza degli uomini senza rispondere con la violenza. Nell’intervento finale ci si confronta con l’interpretazione nietzschiana tendente a demistificare il messaggio di pace e di amore divino, in realtà fondato sul risentimento

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