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L'uomo dallo sguardo ottenebrato dal nuovo che non verrà
L'uomo dallo sguardo ottenebrato dal nuovo che non verrà
L'uomo dallo sguardo ottenebrato dal nuovo che non verrà
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L'uomo dallo sguardo ottenebrato dal nuovo che non verrà

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About this ebook

L'io narrante con una struttura a cattedrale dipana i momenti salienti dei suoi primi 40 anni. Lirico e moderno, di certo non è stato uno stinco di santo. Immaginifico e surreale nelle descrizioni con la progressiva metamorfosi in mezzo lupo, che metaforicamente cerca la via d'uscita dal labirinto. Reale nelle emozioni l'uomo nuovo ricerca la libertà, ma tutto è ciclico e gli rimarrà il suo sguardo ottenebrato in un continuo refrain.
LanguageItaliano
Release dateJun 19, 2019
ISBN9788869632099
L'uomo dallo sguardo ottenebrato dal nuovo che non verrà

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    L'uomo dallo sguardo ottenebrato dal nuovo che non verrà - Ottaviano Naldi

    Ottaviano Naldi

    L’UOMO DALLO SGUARDO OTTENEBRATO

    DAL NUOVO CHE NON VERRÀ

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2019 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    elisonpublishing@hotmail.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    ISBN 9788869632099

    Le mie parole

    Le mie parole sono mute e non si lasciano trascinare dal vento. Le mie parole sono rivestite di gomma e urtano il torace della gente. Le mie parole usa e getta, giacciono a terra sotto le suola. Le mie parole sono come le buche dell’asfalto nei vostri pensieri e sono morte senza lasciare niente.

    La mia è una rabbia silenziosa che mi marcisce dentro, e non potete sentirla se baciate le mie labbra. Basta avvicinare l’orecchio al torace per sentirla mugghiare.

    Ricordo ancora quando sono morto, seduto in quella piazza e riflettevo quanto non avesse senso amare, se poi si doveva morire in solitudine, imbottendosi d’alcol e di terra, con un filo colloso di saliva e la testa piegata di lato, come un cristo sofferente e impietoso che riscuote le risa della gente.

    Getto il mio cuore e voi, presto, vi stancherete di raccoglierlo, perché sarà sempre più pesante e lo lascerete in una delle buche delle mie parole. 

    Le mie parole, che non sono servite a niente.

    Vi lascio nell’argenteo silenzio squarciato dall’ululato dell’uomo che non ha pace, l’uomolupo che insegue lo sbrilluccichio delle stelle, il poeta che ricuce col filo d’emozioni le vostre sbiadite anime a brandelli, l’ultimo significante avamposto sul delirio inquietante della vostra vita, che come le mie parole, sono morte e non lasceranno niente.

    Piergiorgio Leaci 

    L’urlo di un lupo uomo

    squarcia il silenzio argenteo

    della madre luna

    in un labirinto

    ad ogni svolto

    d’incantevole verde

    il deforme e piante carnivore

    A divorare i sogni.

    L’uscita in uno sputo di cielo

    dove liberare il vagito novello

    direzione una macchia di sole

    che sventola come una bandiera

    annodata al tuo collo sottile

    nel sudore della città

    I

    Dall’oblò di una tenda, l’onda più alta del sogno mi rivomita in brandelli di terra, in un oceano di rimembranze sbiadite. Ricordi che si rincorrono nella risacca, in un andirivieni di lacrime e risa, disegnando fra i granelli di sabbia sulla battigia il labirinto; mentre il sole, con ogni raggio, rifiuta la via d’uscita, lasciando alla luna l’arduo selenico compito. Il lupo agogna alzare il suo sguardo alla madre luna. Liberare il lupo che si contorce fra le mie viscere, digrigna i denti, azzanna le carni, addenta il cuore e con gli artigli, lentamente, si crea un varco per poter finalmente ululare alla luna.

    Tabacco impastato da saliva prodigiosa nel calumet, entrare dentro se stessi, dove gli insetti sciamano intorno al viso dell’anima.

    Nella mia tenda sulla spiaggia per colazione non c’è il pane caldo, appena sfornato inzuppato nel tè alla vaniglia, ma mare, more e spine. Rossa fantasia, due piedi insanguinati per camminare, due ruote per un volo d’azzurro. Adolescenza, l’assaggio della libertà, l’intravedere che la vera casa non ha quattro mura attorno da riempire, ma uno spazio aperto da abitare. Sfociare a delta nel liquido salato, pacatamente scrollarsi di dosso manciate di detriti melmosi, un ramo spezzato fra i denti, in una tasca avanzi spolpati, residui di carcasse di animali terrestri e nell’altra rifiuti di plastica, di un consumismo che non la smette di avanzare e le scaglie iniziano a spuntare sulla mia pelle. Nuotare oltre lo svenevole senso di sopravvivenza e cercare di capire, cominciando un lento processo di naufrago, che si dirige alla scoperta della solitaria isola dove è stato gettato; poi verrà il tempo per costruire una zattera con cui scoprire nuovi mondi e ritornare diversi da dove si è venuti. Accecato dall’assenza di stelle. Seduto intorno ad un falò, in una notte d’estate, dove giovani corpi di ragazze brillano di un’innocenza, che ancora per poco, farà impallidire la luna. Individualismi che si stanno plasmando lentamente, c’è chi sarà un naufrago, come me, e chi un manichino ed i peggiori sono sempre quelli che hanno la stoffa per fare i burattinai. Chi si sente già grande e chi lo è perché glielo hanno detto. Una chitarra suona e noi ad abbaiarle dietro, mentre il vino scende nelle gole fino a bruciare lo stomaco, sino a farci scordare le parole biascicate, rendendoci dimentichi di essere ancora piccoli; ma il fumo che sale fra le cellule del cervello ci apre la mente, facendoci provare sensazioni sconosciute e si avanza, se pur ancora a tentoni, nel labirinto. Si scopre il mare a mezzanotte, le nostre nudità inseguite da fosforescenti luci sottomarine e la vergogna non esiste quasi più. Intorno ad un fuoco che non incenerisce la scoperta dell’amore ma la bagna di linfa paradisiaca e umori corporali. Dimmi qual è la mia parte? Un amico me l’ha spiegata, ma ora sono impacciato più che mai. La prima volta. E poi un enorme sorriso che riempie la bocca. Accarezzarti i capelli, quanto è bello il tuo viso al lucore della fiamma sulla spiaggia e a quella mia, che accalora il cuore, così piccola ed io la percepisco talmente grande, tanto che potrebbe folgorarmi ad ogni tuo battito di ciglia. So già che non sarà per sempre, l’inizio della scuola ti porterà via da me, ritornerai nella tua città, che adesso mi pare così lontana; il primo vento di settembre ti farà volare via da me e dalla mia tenda e poi ci sarà una bocca qualsiasi a farci compagnia. Abbracciati in un sacco a pelo, i costumi da bagno messi ad asciugare, la sabbia appiccicata ai piedi, cercare ancora una bottiglia, la cui sagoma di vetro si riflette sull’arenile osseo. Anche il mare questa notte rabbrividisce con noi e la terra conosce due sapori in più, quelli dei nostri corpi uniti. Iniziare a vedere senza guardare, se pur ancora inconscio di avere un’infinità di alghe cristallizzate da staccarmi a graffi, di quelle che inesorabilmente ti crescono sull’epidermide; la disinfestazione è inutile e se non te le strappi di dosso con le unghie, prima o poi, finiranno con il soffocarti. L’alba a sorprenderci in un bacio. La grande palla, accesa di giallo ocra, si apre un varco sull’orizzonte, incendia il mare e con soavità comincia la sua ascesa al cielo. In uno strano rito pagano brindare ad un giorno nuovo, perché entrambi sappiamo che questo è un giorno indimenticabile, per sempre lo conserveremo in una caverna del cuore, dove renderemo omaggio con candele e ghirlande di fiori, fin oltre il dopo, fin oltre la fine, conservando questa foto come un santino. Nell’immagine tu, un pareo a fiori color porpora intorno ai fianchi, il seno nudo, piccole tettine di mela appena maturata, ed io che ho già colto il frutto, una posa da pirata, con un orecchino a cerchio d’oro, infilzato nel lobo sinistro. Noi, adesso noi. E quel viso un poco impiastricciato di capelli biondi e sonno e le mie dita copiose, macchiate della tua perduta verginità. Lo sguardo è quello di chi ha visto la luce con la convinzione di poter conservare sulla retina un bagliore eterno, senza potersi aspettare una successione di oscurità, che se pur non cercate, giungono per ognuno, sui binari dell’esistenza. Noi, adesso noi. Un amabile sorriso a fior di labbra, labbra carnose le tue. Un che di spavaldo negli angoli tirati della bocca, labbra sottili le mie. Il tuo collo come uno stelo bianco, esile sotto la coda di cavallo in disordine. Io, con un telo indiano stropicciato, color viola pungente raffigurante scene di caccia tribale, a coprirmi i genitali. Mattino fra il verde selvaggio di pini e pigne al suolo. Il tuo passo misurato dallo stretto tessuto, ad imitare una gonna. Seduti uno accanto all’altra a sbucciare arance, ti porgo il bicchiere, sollevi la mano, facendo scivolare il braccialetto portafortuna acquistato sulla spiaggia, dal polso al gomito e s’accavalla ad uno in argento, da cui ciondola una piastrina in stile militare, con inciso il tuo nome, lo sganci e me lo porgi. Un amore già caduto sul campo di battaglia? Per imprimere nella memoria questo istante di sole acerbo scelgo il sangue. Con un coltello mi faccio una piccola incisione su di un pettorale, e la cicatrice resterà per sempre, in una sottile lineetta orizzontale bianca sulla pelle scura. E poi a raccogliere le gocce di sangue in una scatolina intarsiata, porta hascisc con il coperchietto in alabastro. Una lacrima scende da un foro di spillo nel cuore. Una certa ansia ci sveste. Anch’io, come te, inizio a comprendere, che in me il seme della pazzia sta germogliando. Le rondini lasciano il loro nido, è tempo di migrare e lo è anche per te. Con la tua erre arrotondata, di accento più di Parigi che di Milano, quel ritornerò presto.

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    L’infanzia in campagna. Nati lo stesso giorno dello stesso anno, S. Valentino. A dieci anni i primi baci rubati in un pollaio o dietro l’ombra dei pioppi e poi la mia

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