Gli occhi del campo: Storia di una piccola comunità rom
By Licio Lepore
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Non fa eccezione il campo rom ubicato in via Cimarosa, a Torre del Lago, Viareggio che la mattina del nove agosto 2016, in seguito a un provvedimento di sgombero voluto dall’amministrazione comunale, è stato smantellato; senza che tutti gli occupanti del campo abbiano trovato adeguata ospitalità in strutture alternative. A riflettori spenti, mentre le istituzioni auspicano sia il risanamento dell’intera area sia un’attenta vigilanza per evitare altre pericolose concentrazioni di rom, i volontari si impegnano per portare aiuto alle famiglie disperse sul territorio. Licio Lepore è uno di quei volontari.
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Gli occhi del campo - Licio Lepore
libro.
Introduzione
Era un martedì, il nove agosto del 2016, quando mi chiamarono dal campo: Vieni corri, qua c’è pieno di polizia, vogliono mandarci via tutti. Ci fanno stare fuori dai container, vieni, ma perché ci fanno questo?
Sapevamo che il campo rom di via Cimarosa a Torre del Lago, autorizzato e voluto dal Comune di Viareggio, doveva essere sgomberato ma fino all’ultimo abbiamo sperato si tenesse conto delle persone e che la politica, quella del Palazzo, avrebbe avuto cura di loro, avrebbe prima trovato un’alternativa. In realtà l’ordinanza voluta dal Sindaco di Viareggio che, del campo rom, solo poco tempo prima, scriveva andremo a poco a poco verso la sua chiusura. Senza grandi proclami e senza ruspe di sorta: una comunità civile deve saper includere e accogliere
, [1] ha trovato applicazione in una calda mattina d’estate, cogliendo tutti di sorpresa.
Le ruspe hanno distrutto tutto quello che era dentro al campo, tende, roulotte e container. Cinque di questi, in buono stato, potevano essere utilizzati per eventuali emergenze ma sono inesorabilmente caduti sotto la violenza dello sgombero.
Ai molti tentativi di creare ponti si è preferito innalzare muri. Distruggere è più facile che costruire. E così, contraddicendo ogni precedente dichiarazione, si è dato corso a uno sgombero costato alla città diverse decine di migliaia di euro, alcuni rom hanno perso la residenza con tutti i processi di emarginazione che questo comporta. La scolarizzazione dei bambini, fino a quel momento garantita dal solo volontariato, è stata bruscamente interrotta senza alcuna possibilità di continuità. I minori non sono stati assistiti, venendo meno a obblighi internazionali e la dispersione sul territorio è stata totale.
Nei giorni che hanno preceduto lo sgombero, le donne del campo si sono rivolte, con un accorato appello, alle donne presenti in Consiglio Comunale, tuttavia la loro richiesta è caduta nel vuoto. Le donne rom cercavano un conforto di fronte al rischio della divisione delle proprie famiglie e alla cacciata dal loro campo e ritenevano che le donne, assessore e consigliere, avrebbero potuto capirle, parlare con loro, consigliarle per il meglio. Scrivevano: Siete mamme, mogli, donne come noi. Voi, al nostro posto, sareste d’accordo a dividere le vostre famiglie? Noi non crediamo! Venite a parlare con noi, vi aspettiamo, abbiamo bisogno di voi
. [2]
Nei confronti della comunità rom ha prevalso una cultura del non rispetto, dell’ipocrisia e dell’indifferenza. Si è espressa una politica di emarginazione e discriminazione. La comunità rom è stata prima isolata in un luogo lontano, con continui problemi di erogazione dell’acqua, scarsa illuminazione, fuoriuscita di liquido fognario e poi è stata sgomberata senza nessuna garanzia per l’abitare, la scolarizzazione, la salute.
Perché tutto questo non cada nell’oblio, ho ritenuto giusto lasciare una memoria che dia dignità a persone che chiedevano soltanto di essere considerate parte della città in cui avevano scelto di abitare.
A seguire, allora, la storia romanzata di fatti realmente accaduti.
Licio Lepore
[1] www.viareggino.com/news, 05.04.2016.
[2] Il Tirreno, 21.06.2016.
Arrivai al campo la mattina presto, dopo la telefonata allarmata di Mariana che non lasciava dubbi su cosa stesse accadendo: era in atto lo sgombero definitivo del campo rom.
Un cordone di poliziotti impediva l’ingresso a chiunque. Chiesi con insistenza di poter passare per assistere i bambini che guardavano spaventati ma fu inutile. Insieme a me c’era un gruppo di donne rom, con il viso tirato e gli occhi che scrutavano per vedere chi di loro arrivava portando quello che era possibile mettere in salvo.
Mi si affiancò quasi all’improvviso Maria Ida che cercò di calmare le donne con il suo solito modo di fare rassicurante e nello stesso tempo deciso. Ci eravamo trovati molte volte in situazioni conflittuali, in quell’occasione sapevamo bene che stavamo condividendo una pagina dolorosa per la comunità rom con la quale avevamo rapporti da circa dieci anni, da quando…
1
Cominciò così
Ciascun volto è il simbolo della vita. E tutta la vita merita rispetto. È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per se stessi.
Tahar Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia
Tutto è cominciato quella volta quando occuparono un vecchio edificio in disuso. Erano più di cento tra uomini, donne e bambini. Uscirono dal buio del bosco e si resero visibili a una comunità che fin dall’inizio manifestò timore e ostilità. Gli stranieri, fino a quel momento, erano gli extracomunitari, i marocchini, i senegalesi, in passato i napoletani, i siciliani. Eravamo abituati a sentir polemizzare per la presenza di quelli che chiamavano i vù cumprà. Davano noia, ci invadevano, rubavano lavoro e casa. Il colore della pelle non è secondario, è un elemento che incide profondamente nel nostro immaginario. Noi siamo i bianchi, tutti gli altri no. Oddio, a ben vedere anche rumeni, albanesi, serbi e via dicendo sono bianchi, sì però è un altro tipo di bianco, un po’ slavato e poi sono dei poveracci. Insomma il discorso è anche un po’ di classe. E comunque, mettila come ti pare, c’era sempre un diverso fra noi ma erano diversi che eravamo abituati a vedere. Che ci facevano ora questi zingari qui in città? Ci mancavano anche loro! E poi si sa, gli zingari sono ladri, vagabondi, puzzano e rubano i bambini.
Ecco appunto, in quella baraonda i bambini facevano la loro parte, tra controlli di polizia, proteste di chi li voleva espellere immediatamente e chi invece ha cercato fin dall’inizio un dialogo, un rapporto. Ma loro, i bimbi, giocavano, ti venivano incontro aspettando una caramella e un giocattolo, che era anche meglio, insomma qualsiasi cosa tu potessi portare. Andava bene anche un quaderno dove scrivere o fare un disegno, un astuccio era il massimo, con tutte quelle matite colorate e poi il righello, la gomma, l’appuntalapis. E le stanze dell’edificio occupato da arredare con letti, materassi, mobili improvvisati, manifesti e ritagli di giornale ai muri. Pensa te, dal bosco sotto un riparo improvvisato con tende e nylon, a un casone con tante stanze, ognuna per ogni famiglia. E quei bimbi su e giù per le scale, a rincorrersi e urlare, tutti insieme e quegli strani gagè che arrivano, parlano, vogliono organizzare, strutturare, portano roba, fanno fotografie, intervistano e vai che è tutto un girotondo di buone intenzioni, promesse, progetti e ancora altri progetti ma anche paure e sospetti. E come