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Un giorno da sposa
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Un giorno da sposa

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About this ebook

La notizia di un figlio ricoverato in Terapia intensiva, a seguito di un grave incidente, getterebbe ogni madre nella disperazione. Il caso di Elettra però è diverso da quello di qualunque madre, perché lei ha abbandonato sua figlia quando era ancora bambina e ogni tentativo di riconciliazione è stato vano.

Ora, al suo capezzale, non le resta che sperare di essere ancora in tempo a rimediare ai suoi errori e lasciarsi dietro il passato.

Pur sapendo che non può sentirla, le viene naturale parlare con lei, raccontandole per la prima volta della sua vera vita. Fino a svelarle quelle verità nascoste che l’hanno costretta alla sua scelta sofferta. E al di là dei drammi, delle insidie e delle promesse deluse, l’amore incondizionato di una madre che nessuna incomprensione o torto subito potrebbe mai cancellare.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 11, 2019
ISBN9788831617901
Un giorno da sposa

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    Un giorno da sposa - Ida Perrone

    2019)

    Prologo

    La strada scorreva veloce oltre il parabrezza dell’auto. Ora si incurvava, nel tratto dove gli alberi sembravano congiungersi formando una specie di cupola. Il sole giocava a nascondino tra le fronde giallastre; le foglie morte sui margini dell’asfalto si sollevarono in aria al passaggio della Clio.

    In un altro momento Loren si sarebbe fermata ad ammirare il paesaggio tipicamente autunnale. Non senza un pizzico di malinconia per l’estate che, come ogni anno, era volata via troppo in fretta. Ma quel giorno i suoi pensieri erano così tanti e contrastanti che avrebbe preferito essere lei stessa parte della natura che si preparava a morire. Qualunque cosa, pur di far cessare il dolore che sentiva nel petto.

    Aveva sbagliato tutto. Come aveva fatto a non accorgersi della verità che era lì, sotto agli occhi?

    Le lacrime le appannavano la vista. La luce del sole era quasi accecante, nonostante gli occhiali scuri. Abbassò il parasole asciugandosi distrattamente le guance.

    Il cellulare riprese a suonare con la sua musichetta insistente che ora le dava sui nervi. Non aveva bisogno di visualizzare la telefonata per sapere il nome di chi la stava chiamando.

    Decise di ignorarlo pigiando con più forza il piede sull’acceleratore, ma la musica non accennava a cessare.

    Allungò una mano per prendere il telefono nella tasca della borsa, posta sul sedile del passeggero.

    Stava per premere il tasto verde e rispondere con un’imprecazione quando il suono di un clacson la costrinse a sterzare bruscamente per evitare l’impatto con la vettura che arrivava in senso contrario.

    Loren incassò l’insulto del conducente alzando il dito medio verso lo specchietto retrovisore e proseguì la sua folle corsa.

    Le lacrime continuavano a scendere copiose, era davvero difficile mettere a fuoco la strada che le scorreva dinanzi. Ormai andava avanti per istinto, del resto conosceva bene quei luoghi.

    Il cellulare aveva ripreso a suonare.

    Rientrò in corsia dopo un sorpasso azzardato. La Clio però prese a sbandare paurosamente e finì fuori strada rotolando lungo il fianco della collina.

    Loren provò la sensazione di essere sballottata da una parte all’altra da una mano invisibile. Poi l’auto si fermò cozzando contro il tronco di un albero. L’urto le fece perdere i sensi e il suo corpo rimase schiacciato tra le lamiere.

    Nell’impatto il cellulare era volato via, interrompendo finalmente la suoneria.

    E poi tutto intorno si fece silenzio.

    Capitolo 1

    Il telefono squillò sul comodino della stanza di un lussuoso albergo di Miami, dove mi trovavo da qualche settimana per girare il mio ultimo film.

    Erano appena le sei e mi chiesi a chi potesse venire in mente di disturbarmi a quell’ora insolita. Aprii gli occhi schioccando la lingua contro il palato e deglutii per mandare giù lo strano sapore che mi aveva lasciato in bocca la zuppa di cozze alle tre del mattino.

    Il cuore prese a battere più intensamente quando compresi che chiamavano dall’Italia e a contattarmi a quell’ora era il commissario della Mobile di Roma.

    «Pronto», mormorai nella flebile speranza che si scusasse per aver sbagliato numero.

    «Elettra? Sono Dario… Mi dispiace disturbarti a quest’ora ma…»

    Le mani iniziarono a sudarmi, i battiti del cuore non accennavano a placarsi.

    Avevo conosciuto il commissario Fulcro durante il mio ultimo soggiorno in Italia e dovevo ammettere che conservavo di lui un buon ricordo. Ma che mi chiamasse alle sei del mattino solo per chiedermi come stavo non era proprio nel suo stile.

    «Buongiorno, Dario. Che cosa è successo a mia figlia?» andai al dunque risparmiandogli di trovare le parole più idonee per attutirmi il colpo. Dal momento in cui avevo letto il suo nome sul display mi era stato subito chiaro il motivo della telefonata.

    Sì, perché una madre vive nell’ansia perenne che possa accadere qualcosa ai suoi figli, specie quando questi sono lontani. Una madre lo percepisce anche a centinaia di migliaia di chilometri quando un figlio si trova in pericolo. Lo avevo intuito attraverso il sogno ingarbugliato che avevo fatto quando ero riuscita finalmente ad appisolarmi. E nell’ansia ingiustificata che non mi aveva dato tregua per tutta la giornata di ieri facendomi dimenticare le battute sul set.

    Il mio caso però era diverso da quello di qualunque madre, perché io avevo abbandonato la mia creatura. L’avevo lasciata quando aveva maggiore bisogno di me e ogni sforzo per rimediare al mio errore era stato vano. Lei mi aveva cancellato dalla sua vita. Preferiva starmi lontana e io avevo finito per accettare la sua decisione.

    Ciò non vuol dire che l’abbia amata di meno. È che l’amore a volte vuol dire rinuncia, soffrire in silenzio e desiderare solo il meglio per la persona che ami.

    «Mi dispiace, Elettra… Ho pensato di chiamarti appena mi è stato possibile…»

    «Ma dov’è adesso? È grave?»

    «Siamo in ospedale. È ancora in prognosi riservata.»

    Mi morsi il labbro ingoiando le lacrime. «Ma… si salverà?»

    «È stato un brutto incidente… proprio brutto. Ma respirava ancora quando l’hanno portata via in ambulanza.»

    «Com’è potuto succedere…»

    «Sembra che viaggiasse al massimo della velocità. A un certo punto ha perso il controllo dell’auto e…»

    «Oh, mio Dio! Devo partire subito…»

    «Elettra, sei ancora lì? Mi senti?» incalzò il commissario, preoccupato della mia reazione.

    «Sì… sì. Devo lasciarti ora. Grazie per avermi avvisata.»

    «Senti… so che è un brutto momento, ma non perdere la calma. Vedrai che tutto andrà per il meglio. Vuoi che chiami io il tuo agente o qualcuno di tua conoscenza perché venga lì e ti aiuti ad organizzarti?»

    «Dottor Fulcro, non sono io ad avere maggiormente bisogno di aiuto in questo momento. Se vuoi fare qualcosa per me, tienimi informata appena sai qualcosa. Io cercherò di prendere il primo volo disponibile, ma non credo di farcela a essere lì prima di sei-sette ore.»

    «Va bene. Ci terremo in contatto. Chiamami appena arrivi all’aeroporto. Verrò a prenderti.»

    Trascorsi i prossimi dieci minuti in uno stato confusionale. L’ansia mi impediva di ragionare con un minimo di razionalità e di concludere qualcosa.

    Digitai la connessione a internet sul cellulare e cercai di contattare una compagnia aerea, ma le mani mi tremavano e le lacrime mi annebbiarono la vista. Intanto tirai fuori un paio di jeans e, con il telefono incastrato tra il collo e la spalla, infilai qualcosa in una valigia.

    Composi il numero di Carlos a New York e andai in bagno a lavarmi la faccia.

    La voce assonnata del mio agente si fece sentire solo al terzo tentativo. «Elettra… Cosa succede, sei già in piedi a quest’ora?»

    «Sì e mi dispiace svegliarti a quest’ora, ma ho bisogno del tuo aiuto. Devi prenotarmi il primo volo disponibile per Roma.»

    «Ma come… Ho capito bene? Non sei a Miami? Avete già finito con le riprese?»

    «No, ma non me ne importa un accidenti delle riprese. Per favore, cerca di fare il prima possibile. Io ho provato, ma sembra che sia impossibile prenotare un volo per le prossime dodici ore. E ho urgente bisogno di partire. Adesso», incalzai con la voce spezzata dal pianto.

    «Senti, non ho capito niente di quello che hai detto», riprese lui in tutta calma. «A parte che hai in mente di abbandonare il set mettendo tutti nei guai. È così?»

    «Ho le mie buone ragioni per farlo. Mia figlia ha avuto un grave incidente e potrebbe non rimanere in vita fino al mio arrivo», buttai lì sperando che non ci fosse bisogno di aggiungere altro.

    Un momentaneo silenzio seguito da un lungo respiro mi giunse dall’altra parte.

    «Oh! Un brutto guaio. Questa non ci voleva», fu tutto quello che riuscì a dire l’agente, e aggiunse lasciandomi interdetta: «Facciamo così: chiamerò io in ospedale, se mi dici dove l’hanno portata. Vediamo come sta e poi decideremo se è il caso di partire.»

    «Cosa?» Stentavo a credere alle mie orecchie. Alzai la voce in un impeto d’ira. «Ti sto dicendo che mia figlia è in fin di vita e tu stai ancora a chiederti se è il caso di andare da lei o restare qui a girare questo fottutissimo film?»

    «Capisco perfettamente che in questo momento non sei in grado di ragionare con lucidità, ma ciò non giustificherebbe una tua decisione avventata. Hai firmato un contratto. Sei l’attrice protagonista. Se te ne vai sarai subito sostituita da una donna più giovane. Ho dovuto faticare per convincere il produttore ad assegnarti questa parte.»

    «E tu pensi davvero che possa importarmene qualcosa? Sai che ti dico? Sono stufa di te, dei registi e dei produttori, e di tutto questo ambiente. È ora di cambiare pagina.»

    «Se te ne vai adesso credo proprio che non ti rimanga molta scelta. Non hai più vent’anni, Elettra, e il mondo dello spettacolo ha le sue regole.»

    «E allora al diavolo, tu e il tuo mondo fottuto. Scusami se ho pensato che avresti potuto aiutarmi!»

    Interruppi la telefonata e rimasi per qualche minuto davanti allo specchio in una fase di raccoglimento.

    La donna che mi guardava, con gli occhi cerchiati e i capelli spettinati, non aveva nulla a che fare con l’immagine patinata che appariva sui rotocalchi. Senza trucco e belletto, svuotata dal mio involucro dorato, ero davvero patetica. Ma questa ero io, e ora che avevo preso atto di questa realtà mi sentivo quasi sollevata da una grossa responsabilità. Ora ero solo una donna come tante che lottano ogni giorno con le incombenze familiari. Ero una madre in pena per la propria creatura.

    Feci una doccia e mi vestii. Intanto chiamai il servizio in camera per farmi portare un caffè. Con le idee più chiare, mi attaccai di nuovo al telefono e in meno di mezz’ora riuscii a prenotare un volo per le dieci di quello stesso giorno.

    Scesi nella hall e consegnai la scheda della stanza all’impiegato della reception ma decisi di non lasciare alcun messaggio per i miei colleghi.

    Dal finestrino del taxi che mi portava all’aeroporto, diedi un ultimo sguardo alle strade di quella città, e a quel mondo bugiardo che mi aveva tenuto lontana dai mie affetti più cari per diciotto lunghissimi anni.

    Capitolo 2

    Dario era stato di parola. Aveva continuato a chiamarmi nelle ore successive, facendo del suo meglio per non darmi una versione delle condizioni di Loren più drammatica di quanto fosse. Ma, con tutta la sua buona volontà, non aveva fatto che accrescere la mia inquietudine.

    Si fece trovare all’aeroporto come promesso e mi prese per il gomito guidandomi con risolutezza verso la macchina. Con qualche difficoltà riuscimmo a districarci dalla folla dei curiosi che ci stava addosso. La notizia aveva fatto in fretta a giungere alla stampa e una schiera di giornalisti e fotografi era già appostata all’uscita del Terminal. Avevo indossato un paio di occhiali scuri e abiti fin troppo casual, ma anche così mi fu impossibile passare inosservata.

    Un flash mi colpì in pieno viso e mi vidi accerchiata da una donna e due uomini con una telecamera. «Ha notizie di sua figlia, signora Blason?... È tornata per starle vicino? Cosa c’è di vero nelle voci che dicono vuole chiudere con la sua carriera? Non le sembra un po’ tardi per fare la mamma a tempo pieno?»

    «Fate largo...» Dario mi si affiancò in un atto di protezione e mostrò il distintivo. «Commissario Fulcro. Metti via quella telecamera. Non abbiamo tempo adesso per rispondere alle vostre domande.»

    In un altro momento quelle attenzioni mi avrebbero lasciato indifferente. Erano il prezzo che ti fa pagare la notorietà, quella che da giovane avevo tanto cercato, ma ora erano solo la rivelazione di un marchio infamante che mi portavo addosso. Erano il prezzo delle mie rinunce, dei miei errori. Il più grave fra tutti quello di non essere stata una buona madre.

    Contai i minuti che mi separavano dal momento che temevo, eppure attendevo con ansia.

    Nel corridoio che conduceva al reparto di Terapia intensiva un’infermiera mi venne incontro dimostrando di avermi riconosciuta. Quando chiesi di vedere mia figlia rispose di attendere qualche minuto invitandomi a sedermi nella sala di attesa.

    Con mio disappunto mi accorsi che non ero la sola ad attendere lì fuori che le porte si aprissero. L’uomo che se ne stava presso il vano della finestra, con le braccia conserte, mi gettò uno sguardo dall’alto in basso, non seppi se di ammirazione o di scherno.

    Io lo ignorai ma non potei evitarmi di lanciargli a mia volta un’occhiata sprezzante. Non mi era mai stato simpatico ma in quel momento il mio astio aveva un’origine diversa.

    Finalmente la porta si aprì e un giovane medico in camice bianco si fece avanti spiegandomi gentilmente le condizioni della paziente.

    «Voglio vederla… Devo vederla», mormorai per nulla confortata dalle sue informazioni.

    «Venga. Ma solo lei», acconsentì il medico intimando il giovane che stava già per sbarrarmi il passo a farsi da parte.

    Mi fecero indossare un camice verde con calzari sterili e una mascherina. Poi finalmente mi introdussero nella stanza.

    La scena che mi si presentò davanti agli occhi mi provocò una commozione profonda. A stento riuscii a trattenermi dallo scoppiare in lacrime.

    Gli occhi chiusi, il volto pieno di lividi. Il dispositivo per l’ossigeno le copriva il naso e la bocca. Il monitor registrava il battito del cuore con un ticchettio lento e ripetitivo che aveva un sentore di morte. La testa bendata da un lato, i capelli le erano stati rasati nella parte dove erano stati applicati dei punti di sutura.

    Sussurrai il suo nome e le presi una mano tra le mie, aspettando che aprisse gli occhi o mi desse un segno di aver percepito la mia presenza.

    Non si mosse. Mi inginocchiai sul pavimento e poggiai la testa sullo spigolo del letto. Le lacrime presero a scendere lentamente e la tensione si allentò lasciando il posto alla disperazione.

    L’infermiera tornò per dirmi che doveva continuare con la terapia e mi invitò a uscire consigliandomi di andare a prendere un caffè giù al bar. Dovevo essere stanca del viaggio. E a ogni modo standomene lì non sarei stata di aiuto a mia figlia.

    Scossi la testa ma acconsentii a tornarmene in sala d’attesa, dove trovai il commissario con un bicchiere in una mano e nell’altra un cornetto.

    «Hai bisogno di recuperare le energie, altrimenti ti si abbasserà la pressione e se dovessi sostenere il salasso non saresti nelle condizioni di farlo», cercò di sdrammatizzare.

    Abbozzai un sorriso. Il medico mi aveva informata che poteva essere necessaria una trasfusione e avevo subito dichiarato la mia disponibilità per la donazione. «Grazie, sei molto gentile, ma non c’è bisogno che ti fermi ancora qui. Avrai altro da fare, immagino, che supportare la madre di una ragazza ricoverata in Terapia intensiva.»

    Dario strinse le labbra in un sorriso di assenso. «È vero. Ma anche questo fa parte del mio lavoro. Dovrò porle delle domande, quando si sveglierà. E dobbiamo assicurarci che non ci sia nessuno, oltre te e al fidanzato, che venga a fare visita alla signorina Dalara.»

    «Perché? Pensi che l’incidente possa essere stato causato da qualcuno che le stava dietro?»

    «Non mi sento ancora di sostenere alcuna ipotesi, ma non possiamo escludere che qualcuno la stesse inseguendo, date le circostanze e… le compagnie che si trovava a frequentare.»

    Deglutii sorvolando sulle sue osservazioni. «Credi che in qualche modo possa avare a che fare con l’omicidio di Ottavio?»

    «Stiamo seguendo una pista.» Dario sospirò sollevando le spalle. «C’è qualcosa che non ti ho detto. Qualche giorno fa tua figlia è venuta in Questura chiedendo di parlare con me. Io, purtroppo, ero fuori al momento. Un collega l’ha fatta accomodare nell’anticamera del mio ufficio e le ha detto di attendere. Quando sono arrivato però lei se ne era già andata», dichiarò con un leggero senso di colpa. «Ho provato a contattarla, a casa e sul cellulare, ma non ha mai risposto. E ieri è successo quello che è successo.»

    «Vuoi dire che qualcuno l’ha minacciata?»

    «È quello che stiamo cercando di scoprire.»

    «A proposito di compagnie, quel fidanzato lì, non voglio che entri qui dentro», dissi dando voce alle mie congetture.

    «Lui era in città quando è accaduto l’incidente. Lo abbiamo interrogato, almeno in questo sembra pulito.»

    «Non è pulito, Dario. È anche lui un criminale. Lo hai dimenticato?»

    «Al momento non abbiamo niente contro di lui», precisò il commissario.

    «Loren stava fuggendo da qualcosa, o da qualcuno. E lui dov’era, perché non era con lei? Se non ha causato l’incidente materialmente, ha costretto mia figlia a darsela a gambe. Avrà aperto gli occhi finalmente e voleva denunciarlo, ma lui glielo ha impedito.»

    Dario increspò la fronte riflettendo sulle mie osservazioni. «È ancora presto per giungere a queste conclusioni. Comunque farò in modo che nessuno, oltre te, entri qui dentro», mi assicurò.

    Appena mi fu concesso, tornai al capezzale di mia figlia determinata a starmene lì per tutta la notte. L’infermiera mi avvisò che non potevo fermarmi per molto. C’erano degli orari da rispettare per le visite dei familiari ricoverati nel reparto di Terapia intensiva. Dietro le mie insistenze però acconsentì a lasciarmi lì ancora un po’. Mi procurò anche una poltrona dove sarei stata più comoda.

    Alle mie parole di gratitudine rispose che non capitava tutti i giorni di avere un’attrice nel reparto. «Sarebbe così gentile da farmi un autografo? Quando lo dirò a mio marito non ci crederà.» Avrei voluto rispondere che l’attrice non esisteva più. Facevano meglio a dimenticarsi tutti di lei. Ma non volli deluderla dopo che era stata tanto gentile con me.

    Risposi con un mezzo sorriso, assicurandole che l’avrei fatto prima di andarmene.

    Avvicinai al letto la poltrona da disabili e tornai a sedermi accanto a quel corpo inerme, ma era troppo straziante starmene lì senza poter far nulla. Mia figlia poteva perdere l’uso delle gambe, poteva anche restare in coma per mesi, o non svegliarsi più.

    Parlarle se non altro mi avrebbe aiutato a sentirmi meno inutile e sola.

    Capitolo 3

    Piccola mia, che cosa è successo? Da chi stavi fuggendo? I tuoi bei capelli! Ricresceranno, vedrai. Intanto, sai che facciamo? Li raserò anch’io quando usciremo da qui, così saremo in due a sembrare delle spaventapasseri.

    Il medico mi ha spiegato che sei entrata in questo stato di incoscienza a seguito di una commozione cerebrale che ti ha procurato il violento impatto.

    Sembra un paradosso mostruoso, lo so, ma se fossi capace di comprendere quello che ti accade intorno probabilmente mi avresti già mandato via. O forse no, non questa volta.

    Io sarò qui con te quando ti sveglierai e non ti lascerò più.

    Mi hanno anche detto che potresti non camminare più. L’incidente ha causato gravi danni agli arti inferiori. Le lacerazioni alla gamba sinistra, con conseguente emorragia, potrebbero richiedere l’amputazione dell’arto.

    No, non succederà. Noi non lo permetteremo.

    Ho fatto presente che il mio gruppo sanguigno è compatibile con il tuo. Mi sottoporrò al test appena me lo chiederanno. È il minimo che possa fare per te.

    Per il resto posso solo pregare, come non ho ancora fatto finora. Pregare che tu riesca ad alzarti da sola da questo letto e tornare a correre come facevi quando eri bambina e mi chiamavi ancora mammina.

    Lo so che non mi senti, ma voglio raccontarti una storia, una storia di cui conosci solo la versione distorta. Hai diritto a conoscerla per intero e, quando avrai conosciuto la parte che ti è stata nascosta, forse potrai perdonarmi e un giorno riuscire a chiamarmi di nuovo mammina.

    *****

    Solo le favole iniziano con c’era una volta… Ma quella che sto per raccontarti è una storia che appartiene al passato. La storia di una donna che non esiste più. E, sebbene realmente accaduta, voglio illudermi che sia essa stessa una favola, anche se solo una favola triste.

    In ogni favola che si rispetti c’è una principessa e un principe innamorato, o un prode cavaliere che arriva a salvarla dalle grinfie di una strega. Io non ero una principessa e in questa storia non ci sono draghi, matrigne o streghe cattive. Ero una ragazza come tante, che viveva in un paesino sulle coste della Calabria. Per mio padre rimasi comunque la sua principessa, almeno fin quando non divenni troppo cresciuta deludendo le sue aspettative.

    I miei genitori erano persone semplici, legati alle antiche tradizioni. Gestivano un negozio di abiti da cerimonia, specializzato in accessori da sposa, dalle scarpe ai fiori d’arancio. La nostra casa si trovava sopra il negozio, sicché crebbi tra l’odore che emanavano le stoffe pregiate: le sete, il raso, l’organza e il taffetà. Quell’odore per me era simile al muschio bianco, al mughetto, ai fiori di gelsomino e oleandro che profumano la mia terra.

    Passavo le ore a guardare con occhi ammirati le signorine che venivano a provare il vestito nuziale, pavoneggiandosi davanti allo specchio.

    La mamma prendeva misure, aggiustava l’orlo, metteva spilli da tutte le parti. Faceva andare avanti e indietro la sposa promessa e infine annuiva, battendo le mani e prodigandosi in elogi. Così da bandire ogni reticenza nella giovane donna, specie per la spesa esorbitante che sarebbe toccata alla signora che l’accompagnava.

    Era sempre lei, mia madre, a consigliare la giovane sul tipo di abito più adatto al grande giorno. Spesso si vedeva costretta a escludere a priori la scelta caduta su un capo che aveva attirato l’attenzione della futura sposa, e che non avrebbe valorizzato per nulla la sua figura, troppo grassa, o troppo bassa e spigolosa. Con grande disappunto di quest’ultima, che storceva la bocca quasi sul punto da mettersi a piangere. Ma mia madre aveva perfezionato ad arte il mestiere, tramandato a sua volta dai genitori. In trent’anni non era mai accaduto che una donna fosse uscita da Un giorno da sposa senza realizzare il suo sogno.

    Io mi limitavo a guardare, come trasognata, quelle figure che si trasformavano sotto i miei occhi in tante principesse, perfino quelle più sciatte.

    Le guance rosse, gli occhi accesi da una luce febbrile, gonfiavano il petto poggiando le mani sui fianchi con un sorriso di complicità all’immagine riflessa nello specchio. Forse nell’attesa del momento in cui qualcuno le avrebbe private dal prezioso vestiario, senza pensare che allora il sogno sarebbe finito.

    Ero troppo giovane per conoscere il mondo ma, pur nella mia ingenuità, avevo imparato a scindere il sogno dalla realtà.

    Un giorno che mi ero fermata davanti allo specchio, con in testa la corona di fiori d’arancio dell’ultima cliente appena andata via, mia madre mi canzonò affrettandosi a rimettere nella scatola il costoso accessorio nel timore che potesse sgualcirsi. «È ancora presto per te. Ma verrà anche il tuo giorno. Non avere fretta. Basta ca tieni a bona capu», che stava a dire: conservarmi candida per il grande giorno. Solo così avrei potuto sposarmi con l’abito bianco. In caso contrario sarebbe stato come offendere Dio. E chissà quante giovani donne che lei credeva illibate venivano al negozio a provare i suoi preziosi abiti!

    «Non ci tengo, mamma. Anzi, non lo so neppure se mi sposerò. I sogni hanno breve durata e io preferisco la vita.»

    La mamma spalancò la bocca, guardandomi

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