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La mia rivincita
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La mia rivincita

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Siamo tutti diversamente abili. La storia di Filippo
La mia rivincita: il racconto in prima persona di un ragazzo che lotta dal giorno in cui è venuto al mondo, che non vuole mollare mai, che malgrado le tante difficoltà date dalla propria patologia, cerca sempre uno scopo per andare avanti e dimostrare il proprio valore.
“Una storia scritta in modo crudo perché è cruda, che vuole soprattutto raccontare i fatti in modo diretto al fine di suscitare riflessioni, trasmettere consapevolezze, permettere alle persone normodotate di immergersi in ciò che non possono comprendere ma solo immaginare”: questo il desiderio dell’autore, oggi diciannovenne, che dice di voler prendere forza dal suo passato per migliorarsi e il cui maggior desiderio è quello di dare motivo a chiunque di sorridere e di non lasciarsi mai sopraffare, perché “la diversità non esiste, è solo un blocco mentale che si crea nel momento in cui si ha a che fare con qualcuno che non rientra nel proprio schema di super uomo bensì di apparentemente anomalo”.
È questo che, per Filippo Bisio, molto spesso porta l’essere umano a creare una barriera tra se stesso e il “diverso”: “perché fondamentalmente la normalità è un’utopia … Siamo tutti diversi l’uno dall’altro, perciò persino il concetto di diversamente abile decade per il semplice fatto che nessuno sarà mai in grado di fare qualunque cosa. Tutto il genere umano, sotto questo punto di vista, può essere definito inabile a qualcosa.”
La storia dell’infanzia e dell’adolescenza di un ragazzo che non ha mai permesso alla sua patologia di avere la meglio sulla sua vita di tutti i giorni e sui suoi desideri, e che, talvolta con rabbia e tensione, combatte contro una società che con fin troppa facilità dà etichette e “non accetta che ogni persona sia un individuo a sé, diverso quindi da tutti gli altri, e che la normalità sia una delle tante invenzioni dell’essere
umano.”
LanguageItaliano
Release dateJun 9, 2019
ISBN9788833282831
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    La mia rivincita - Filippo Bisio

    Cover

    Introduzione

    Questo libro racconta una storia realmente accaduta, una storia scritta in modo crudo perché è cruda, che vuole soprattutto raccontare i fatti in modo diretto al fine di suscitare riflessioni, trasmettere consapevolezze, permettere alle persone normodotate di immergersi in ciò che non possono comprendere ma solo immaginare.

    Il mio desiderio più grande è quello di sapere che un lettore, leggendo le mie parole, riesca a disfarsi dei pregiudizi e, giunto all’ultima pagina, si renda conto di aver cambiato la sua visione.

    Auguro a tutti una buona lettura.

    Filippo Bisio

    1

    Tutto per me ha avuto inizio il 26 marzo 1999, il giorno in cui venni alla luce con numerose difficoltà.

    Era una mattina di una giornata assai uggiosa e mia madre era sveglia dalle sette del mattino. Era sola in casa, mia sorella era già uscita per andare a scuola e mio padre era al lavoro.

    In quel momento si trovava in cucina. La sua intenzione era quella di telefonare al dentista a causa di una infiammazione dentale che le stava dando fastidio. Lo avrebbe chiamato subito dopo aver preparato il caffè.

    All’improvviso, mentre stava avvitando la moca, sentì un liquido scenderle tra le gambe. Guardò in basso: i pantaloni del pigiama erano imbrattati e ai suoi piedi, anziché il pavimento bianco, vide un lago di sangue.

    Non si fece prendere dal panico, prese il telefono e compose il numero dell’ospedale Evangelico di Genova, presso il quale era previsto dovesse partorire.

    Il medico che rispose alla chiamata non aveva un tono particolarmente preoccupato; le disse di restare calma e di recarsi lì il prima possibile.

    Uno dei fratelli di mia madre abitava nella stessa zona dove abitavano i miei e lei lo chiamò subito. Arrivò trafelato, con il maglione alla rovescia e una scarpa diversa dall’altra, tanto era accorso in fretta.

    Mia madre era imbarazzata, ma sapeva che in quel momento aveva bisogno di aiuto e gli chiese di andare a prendere degli asciugamani in bagno per tamponare tutto quel sangue che continuava a colarle lungo le cosce.

    Lo zio era nel panico, molto più di mia madre. Come un fulmine andò in bagno e le portò degli asciugamani, ma quando lei gli chiese se non fosse il caso di allertare un’ambulanza, lui, da quanto gli tremavano le mani, non riuscì a comporre il numero. Spalancò invece una finestra e si mise a urlare da lassù, chiedendo aiuto a chiunque passasse per strada in quel momento.

    A mia madre fu chiaro che lo zio non poteva esserle di grande aiuto, quindi si fece passare il telefono e chiamò il 118.

    Nell’attesa che arrivassero i soccorsi, mio zio sembrò tranquillizzarsi almeno un po’ e riuscì ad avvertire mio padre di quello che stava accadendo.

    L’ambulanza non tardò ad arrivare. Secondo il personale medico non c’era un attimo da perdere: il battito del bimbo non si sentiva ed era di vitale importanza agire immediatamente.

    In quel momento, il medico che avrebbe dovuto seguire mia madre durante il parto non era in servizio, quindi, data l’urgenza, venne avvertito e, lungo il tragitto, fu deciso di raggiungerlo a casa e di proseguire con lui fino in ospedale.

    Venni così dato alla luce all’Evangelico, ma lì ci rimasi poco. Appena dopo il parto, infatti, io e mia madre fummo trasferiti d’urgenza al Gaslini, io infagottato in una coperta termica.

    Là, ad aspettarci, un’équipe di medici che era già stata allertata, e anche i miei nonni paterni, arrivati in tutta fretta dal Piemonte malgrado il diluvio che quel giorno imperversava su tutta Genova.

    I chirurghi e gli altri medici furono chiari: non potevano garantire che sarebbero riusciti a salvare me e mia madre.

    Ero nato di ventinove settimane e pesavo ottocentocinquanta grammi. In prognosi riservata, venni sistemato in incubatrice, con il respiratore.

    Contrariamente alle aspettative, mamma si riprese in breve tempo e venne perciò dimessa dopo qualche giorno. In quanto a me, sarebbero dovute trascorrere parecchie settimane perché si potessero registrare i primi segni di miglioramento e i miei potessero finalmente, almeno un po’, allentare la tensione.

    Le notizie che i medici diedero ai miei genitori in quel periodo non erano confortanti, finché un giorno mia madre ricevette una telefonata e le venne comunicato che c’erano stati alcuni lievi segnali di miglioramento nel mio stato di salute e che questo faceva ben sperare.

    Reagivo, le dissero. Evidentemente, già a quel tempo non volevo mollare. Neanche in futuro avrei mai imparato il significato di questa parola e sono sicuro che mai lo imparerò.

    2

    Avevo dato prova di una grande forza e voglia di vivere, così fu stabilito che, subito dopo il battesimo, sarei stato sottoposto a intervento chirurgico.

    Questo consisteva nell’installare una valvola a livello del ventricolo peritoneale e un’altra nella zona cerebrale, a pochi centimetri dal cervello.

    Venne così il giorno del mio battesimo, ventiquattr’ore prima dell’intervento al quale sarei stato sottoposto, che fu celebrato da un frate nella parrocchia dell’ospedale.

    Per me venne scelto il nome di Filippo, che piaceva molto a mia sorella, mentre come secondo nome mi fu dato quello che piaceva a mia madre, Edoardo.

    Mia zia, qualche giorno prima del battesimo, era andata da mia madre a chiederle un mio pigiamino sporco di latte. Poi, con mio zio, si era recata a San Giovanni Rotondo portando il pigiamino con sé. Lì, per me, aveva pregato padre Pio.

    Quando, prima del mio battesimo, era tornata, lo aveva riconsegnato a mia madre. Lei, che si era già fatta portare da un’amica dell’acqua benedetta dal santuario di San Giovanni Rotondo, di nascosto dai medici e dal frate dell’ospedale ne versò qualche goccia sopra l’incubatrice dove mi trovavo.

    Al momento del mio battesimo erano presenti due mie zie, uno zio e mia madre, tutti disperati, ma anche increduli per i segnali positivi che i medici avevano riscontrato riguardo il mio stato di salute.

    Durante il rito battesimale mossi per la prima volta una manina. Si emozionarono tutti.

    Il giorno seguente venni operato.

    L’intervento fu complesso ma venne portato a termine con successo. I medici riferirono ai miei genitori di aver introdotto anche un’ampolla che, attraverso dei tubicini, aveva il compito di drenare il liquor, il liquido cerebrospinale, affinché diventasse trasparente. In parole povere, una sorta di dialisi.

    Fu dopo pochi giorni che mia madre ricevette una seconda telefonata da parte del personale dell’ospedale, con la quale le si chiedeva di raggiungere immediatamente la struttura.

    Lo fece subito, ed entrò in ospedale con la paura di ricevere

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