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Un cammino
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Ebook276 pages4 hours

Un cammino

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Dentro una cornice di personaggi di piena fantasia, ecco due grandi vere figure bresciane: Mons. Luigi Fossati e la madre Amelia. Loro animano il nuovo romanzo uscito dalla penna di Aldo Ungari. Ungari racconta una storia che si sviluppa dal ’25 al ’45. Finale con la Resistenza e la liberazione della città del giogo, a costo di sacrifici e di sangue.
LanguageItaliano
Publishergam editrice
Release dateJun 5, 2019
ISBN9788898288854
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    Un cammino - Aldo Ungari

    Aldo Ungari

    Un Cammino

    GAM editrice

    L’autore e l’editore desiderano avvertire i lettori che la prima parte del presente volume riporta (rivisto, corretto e snellito) Un prete di periferia di cui costituisce il seguito.

    GAM editrice

    Prima edizione digitale 2019

    Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Per il libro cartaceo vedi www.gamonline.it

    ISBN 9788898288854

    Le spettanze dell’autore andranno interamente alle ONG BRESCIANE

    Servizio Volontario Internazionale (SVI),

    Medicus Mundi Italia (MMI),

    SCAIP (Servizio Collaborazione Assistenza Internazionale Piamartino).

    © Copyright Aldo Ungari

    2016 GAM editrice - Rudiano (Bs)

    PREFAZIONE

    La mamma non vide gli occhi lucidi di Luigi e Luigi non vide le lacrime della mamma. Si concludeva così Un prete di periferia. E Aldo Ungari lasciava tutti sulla strada polverosa che dalla Volta portava verso la città. Don Luigi doveva abbandonare i suoi ragazzi e le cascine di quella borgata, che nella prima parte del secolo scorso era ancora campagna, quelle poche famiglie cui si era affezionato. Lo aveva chiamato il vescovo e mamma Amalia lo seguiva, sui due carretti carichi delle poche cose che avevano. Un carretto con le masserizie e l’altro carico di carte e libri, se ne andavano, di mattino presto.

    La storia era bella, scavava nell’animo di quel giovane prete, tracciava un affresco della campagna bresciana che dalla città si apriva verso la Bassa, raccontava le fatiche di gente semplice ma ricca di sentimenti. E descriveva il clima di quegli anni, il fiorire di idee di libertà che venivano brutalmente soffocate dai manganelli di chi rinunciava ad usare la propria testa e mostrava i muscoli sotto la camicia nera. Ma la storia era incompleta. Si chiudeva con una partenza. Dove portava quella strada bianca che saliva verso Sant’Eufemia? Quali altre sfide attendevano don Luigi?

    Un poco spinto dal rovello di chi ama scrivere, un poco incoraggiato dai lettori che si erano affezionati a quel prete dal cuore buono e dal carattere fermo, Aldo Ungari ha ripreso in mano le pagine già edite, le ha affiancate ad altre che forse in un primo tempo aveva lasciato in disparte, ha dedicato le sue notti insonni alla penna e alla tastiera, ed ha dato un itinerario completo al cammino di don Luigi.

    L’autore si premura di dire che questa è una storia inventata, di fantasia, e che i richiami a persone, luoghi e fatti sono quelli necessari per collocare l’intera vicenda in un contesto reale. Ma per chi legge, ed ha una qualche familiarità con la storia bresciana, non sarà difficile intravedere la storia vera di quei tempi e di quelle persone.

    Se il primo romanzo aveva delineato il carattere saldo di don Luigi, la paziente disponibilità di mamma Amalia, la simpatia di qualche figura messa in scena, in queste pagine si ritroverà tutto quel mondo, ma se ne attraverseranno molti altri. Riprendono vita, tra le righe ariose del racconto, le giornate di campagna quando alba e tramonto segnavano i ritmi e bisognava abbassare la schiena su zolle e argini. Sgorga la vivicità della Brescia popolare della prima metà del Novecento. La fede è condivisa e sentita. La parrocchia e la canonica sono punti di riferimento affidabili. Le idee si fanno strada nel dialogo che va oltre le fazioni, nell’inutile tentativo di sfuggire alla banalità della dittatura. Si salirà verso la Valcamonica, si tornerà tra le mura silenziose del convento, si scopriranno inquietanti ombre del passato. E poi la tragedia della guerra, la Resistenza, gli spiragli di speranza. La sorte segnata.

    Scrittura sciolta e vivace, sottolineava nella presentazione del primo romanzo Alberto Ottaviano, che metteva in risalto come Aldo Ungari apre uno squarcio su una stagione difficile e controversa dei cattolici italiani. Anche se emerge con chiarezza da che parte sta tutta la simpatia dell’autore. E la nostra con la sua.

    Come aveva acutamente osservato Giulio Colombi nella presentazione di allora, la rielaborazione fantasiosa poggia solidamente sul sostrato storico e il racconto sfugge ai toni edificanti, preferisce lo schietto humor popolare che però nulla attenua o svilisce, del rigore etico e religioso trasparente con limpidezza da queste pagine. Non si poteva dire meglio.

    Claudio Baroni

    PRESENTAZIONE

    In questo bel volume Aldo Ungari riscrive, amplia e prosegue con nuovi capitoli le vicende narrate nel suo Un prete di periferia, edito da GAM nel 2011.

    La prima parte è costituita dal nucleo originario del romanzo precedente, mentre la seconda prosegue con efficacia la narrazione delle vicende dei personaggi e si apre con il trasferimento di don Luigi dalla parrocchia della Volta a quella di Sant’Eufemia, in città.

    Primo capitolo della seconda parte è Il volto della madre, il cui perno sono i travagli familiari del giovane Teodoro, orfano affidato al tutorato di don Luigi dal testamento del conte Torre. Alle inquietudini e sofferenze del bambino, che vorrebbe conoscere le sue origini ed il volto della mamma, si intreccia il riaffiorare del passato dello stesso don Luigi, anch’egli orfano affidato piccolissimo alle cure amorevoli di Amalia (che ancora una volta emerge come il personaggio più pieno ed umano del romanzo) e la scoperta per il parroco di nuovi, inaspettati e strani parenti (Il peso del passato).

    In parrocchia è un capitolo di raccordo tra le vicende personali e l’irrompere della Storia. Lo stile è aneddotico, scorrevole, e spezza efficacemente due momenti molto impegnativi della narrazione.

    Con Tempi tristi si apre la parte conclusiva dell’opera. Fa il suo apparire, nella narrazione, la guerra.

    Se lungo tutto il romanzo non sono mai mancati i richiami storici e le critiche al fascismo, è da qui in avanti che sono più palesi e continui i riferimenti all’incombere della tragedia politica ed umana che travolgerà il Paese e l’Europa.

    I grandi fatti della storia sono sempre lasciati cadere nel solco della quotidianità e della vita di don Luigi, rendendo così ancor più umane e tragiche le vicende: i conoscenti ebrei esposti al rischio della discriminazione delle leggi razziali e la denuncia dal pulpito dell’assurdità di tali leggi e della guerra, per aprire gli occhi ai fedeli.

    E ancora: l’amarezza di don Luigi nel constatare quanto la propaganda del regime aveva sporcato le menti, la virile preoccupazione per i ragazzi visti crescere che partono per la caserma e il fronte.

    La storia incalza e la narrazione accelera, si fa frammentaria e tesa, come la vita dei protagonisti esposti alla guerra. Nel volgere di poche pagine dal 1938 si passa rapidamente al 1940 e subito all’inverno del 1943, con i lutti e il dolore che crescono ed entrano in tutte le case, non risparmiando nessuno, e con don Luigi che si trova assieme alle donne della comunità a piangere le morti dei figli coinvolti nella tremenda e folle campagna di Russia. Per rievocare quella ferita sanguinante Ungari ricorre allo stile epistolare, attraverso due accorate lettere del figlioccio Teodoro a don Luigi e alla madre adottiva, la vedova Migliorati che il prete aveva aiutato ad uscire dal dolore e dalla miseria negli anni da parroco alla Volta.

    Davvero intenso l’episodio del ritorno dalla Russia dell’altro figlio di Lina Migliorati, Adolfo: pagine commoventi, scritte con cuore e grande umanità, che ricordano Giulio Bedeschi e Mario Rigoni Stern.

    Il capitolo Resistere si apre con la data fatidica dell’Armistizio, momento di gioia, smarrimento e di grandi decisioni per ciascuno. È la scelta della resistenza all’occupante tedesco, all’alleato divenuto nemico feroce, sprezzante di ogni valore umano. Una scelta di coraggio e fede cui non si sottrae il nostro don Luigi. Rimane impresso nella memoria il conciliabolo tra preti e giovani reduci della Russia per decidere se e come opporsi all’invasore: Un silenzio ingombrante si impadronì di loro. Tu non ucciderai!, il quinto dei dieci comandamenti martellava in tutti. Dal pulpito avevano spesso parlato di disarmare gli animi e mille volte avevano invocato la pace, eppure di fronte alle nefandezze tedesche la coscienza li obbligava a dire che alla violenza è lecito opporre violenza.

    E questa quotidiana resistenza si esprime in don Luigi in molteplici forme di solidarietà, conforto, sostegno alla popolazione, nella ferma dignità opposta all’esercito tedesco, sempre in complicità con la madre Amalia.

    Proprio Amalia una mattina trova cinque soldati imboscati in soffitta, e senza un’ombra di paura la sua prima reazione è: Siete in buone mani. Un atto di rischiosa solidarietà portato sino in fondo dal parroco, che riesce ad eludere spie fasciste e a ingannare le SS che irrompono in casa ed in chiesa senza riguardo alcuno, e a salvare i giovani. Un atto fecondo di conseguenze, come ogni atto al servizio dell’uomo, perché i ragazzi entreranno nella resistenza per contribuire a liberare e riscattare l’Italia.

    Ampio rilievo è dato anche al sostegno silenzioso offerto dalla chiesa agli ebrei braccati dai tedeschi: le vicende dell’orafo Davide Ferrara, costretto a cercare oro per salvare le vite dei suoi confratelli (ogni 30 grammi in più o in meno una persona salvata o perduta, è l’ordine dei nazifascisti); le dolenti vicende della famiglia del dottor Levi, stimatissimo medico costretto a simulare di essere una salma dell’obitorio per fuggire alla furia nazista che lo cerca fino in sala operatoria; la fuga organizzata da don Luigi con falsi certificati di battesimo per la moglie ed i figli del dottore.

    Nel capitolo Sui monti la narrazione si fa incalzante, come la guerra, la morte e la voglia di resistere. Siamo al novembre 1943 e don Luigi è sempre più vicino e partecipe della lotta di Liberazione, e mantiene operosi contatti con i partigiani della montagna, molti dei quali sono personaggi che abbiamo conosciuto nelle pagine del romanzo: il maestro Fappani, il giovane partigiano Alfonso, alle vicende del quale sono dedicate alcune pagine che, secondo un tratto distintivo della cifra stilistica di Ungari, contaminano differenti registri: il diario, la lettera. Interessanti espedienti impiegati per diversificare il tono del racconto, che però rischiano di frammentare eccessivamente e rendere troppo disomogeneo l’andamento narrativo complessivo.

    Di grande vigore narrativo il penultimo capitolo La scelta, che vede don Luigi dibattersi in un difficile dilemma: accettare la nomina a vescovo di una diocesi in Abruzzo o rimanere nella sua terra, in mezzo alla sua gente. La violazione da parte delle SS del monastero, dove don Luigi è tornato dopo dieci anni per meditare nel silenzio sulla scelta da compiere, è determinante per compiere la sua decisione. Sul cadavere del giovane innocente partigiano ucciso sulle soglie del luogo sacro, don Luigi non ha dubbi: deve rimanere con la sua gente, per lottare contro i tedeschi (non mi metterò al riparo mentre gli altri qui muoiono anche per me).

    L’ultimo capitolo, Pro-vicario, accelera ancor più il ritmo degli eventi, riferiti in maniera quasi telegrafica. Mentre la tragedia cresce, sembra che lo stile di Ungari si condensi, per raggiungere una sintesi di grande dignità stilistica, che veicoli senza retorica il grande dolore personale e collettivo della guerra.

    I duri bombardamenti dell’inverno 1944/1945, che mettono in ginocchio la città, sventrano case e famiglie. Le opere di misericordia ed accoglienza verso gli sfollati e le orfane sono narrati asciuttamente; i piccoli e grandi fatti di quotidiana sofferenza non concedono spazio all’indugio narrativo o a fronzoli stilistici.

    Si giunge così alla dolente conclusione, con la morte sotto le bombe del protagonista e della madre: una conclusione scritta con una semplicità disarmante, e per questo efficacissima.

    Davvero vivaci e toccanti i ritratti di alcuni personaggi, come quelli del vecchio Piero, il fattore che prima di morire sente su di sé, come una colpa personale, tutta l’ingiustizia per la legge sulla mezzadria, o quello del notaio Meli, massone e zanardelliano dipinto con vivacità nell’arco di tutto il romanzo. Figura sgradevole e provocatoria in prima istanza, ma d’animo buono capace di travalicare gli arroccamenti ideologici anticlericali, assume nella seconda parte un rilievo drammatico, recando sul letto di morte le inquietudini e i morsi della coscienza e condividendoli con don Luigi.

    Su tutti i caratteri continua a spiccare quello di Amalia. Già recensendo l’opera del 2011 avevo osservato come Ungari avesse scelto di affidare al buon senso popolare e religioso della madre la venatura etica del romanzo, e sottolineato come la sua voce amorevole e saggia si fa spesso preghiera e poesia, richiamo e incoraggiamento per il figlio e per il lettore.

    Nella riscrittura odierna queste caratteristiche sono ancora più sbalzate, e la figura di Amalia si staglia mite, piena di misericordia, coraggio e intelligenza, vera immagine della semplicità e della fortezza morale.

    Carla Boroni

    INTRODUZIONE

    Il testo in parola è un interessante romanzo storico ed autobiografico, in cui il racconto dell’autore è anche quello del testimone oculare che vive da vicino gli eventi di cui parla, che assume la chiarità di un’esperienza carpita con i propri occhi.

    L’opera è certamente un tributo al protagonista di questa vicenda che è don Luigi, ma più precisamente ad un’intera epoca, ad uno spirito collettivo in cui ci si riconosce e sente vibrare, di cui il protagonista è mirabile interprete ed emblema.

    Il testo consente anche un excursus di vivida memoria circa i fatti e gli episodi di cronaca, che furono alla ribalta negli anni del secondo conflitto mondiale.

    La grande storia si intreccia, però, in maniera indissolubile ed identitaria con le piccole vicende biografiche e personali che non hanno, tuttavia, mai un ruolo marginale, ma alimentano questo ampio discorso umano intessuto di generazione in generazione.

    Don Luigi, dapprima parroco in una periferia di Brescia, non è un personaggio di fantasia, è un uomo realmente vissuto, le cui opere, come semi che attecchiscono, hanno avuto i loro esiti e risvolti, hanno prodotto i loro germogli e frutti, fino alla testimonianza di questa delicata opera.

    Da questo avamposto d’esistenza si getta lo sguardo al fondo di noi e spicca un balzo: la vita ci appare, allora, in altri e più veritieri connotati, e forse più autenticamente si svela e consegna a noi, palpabile e sacramentale. Il dialogo fra l’uomo e la vita, fra l’essere e la storia, s’intona proprio nelle vicende segrete ed intime, come in questa, s’incarna letteralmente in ciascun uomo, nel suo vissuto più radicale. Anche in questo romanzo, come nella figurazione cristiana, l’uomo è al centro, la sua individualità è tuttavia dialogante e connessa con l’altra parte dell’essere, riecheggia nel cuore di un comune sentire, una coralità che ci affratella e battezza con il fuoco della memoria, o della verità, di un sentire che sappiamo universale e di conforto. La figura di don Luigi, che qui non ha caratteri idealizzati o ridondanti, ciò va precisato, è vera e propria icona cristica, è raffigurazione, è corpo incarnato della volontà del Padre, diremmo secondo la dottrina, o, se si vuole più laicamente, di un sentire spirituale naturale che è anima del mondo, nostro stesso incarnato. L’importanza di figure mirabili come quella del protagonista del romanzo, pur tenuto conto di un equo rendiconto della storia, parrebbe tuttavia irrisoria ed inconsistente se non attingesse ad un’anima di maggiore coscienza. Ciò che infatti rileva ai fini del nostro discorso, è il valore della realtà che assurge a simbolo, che opera e lavora in noi con gli esiti di un risveglio interiore, esercita i prodigi di una vera e propria guarigione; sono questi gli effetti delle così dette figure medianiche che intercedono e mediano, cioè collegano, una volta in più, l’uomo al suo mistero. La figura di don Luigi, nelle pieghe della sua vita ripercorsa in chiave di romanzo, è quella di un uomo forte e generoso. Negli anni la pellicola degli eventi si svolge davanti agli occhi del protagonista, muta contesti ed altera scenari, in quell’avvicendamento epocale e generazionale che, vieppiù, soppianta il vecchio ed il passato e procede nei suoi avanzamenti con nuove esperienze. Il carattere dei soggetti di cui al romanzo è reso dall’autore con un lieve tratteggio, dai contorni mai del tutto marcati e definiti, come se si mantenesse uno sguardo di debita deferenza, di inviolabile rispetto. Eppure nulla manca, parrebbe veramente che il più sia così chiaramente detto anche con gli omissis, nei silenzi o sottointesi, nei vuoti o nelle sospensioni di memoria. C’è anche qualcosa di profondamente amaro in questo romanzo, appunto emblema di vita, ed è quella indicibile solitudine, il transito individuale e gravoso che dal Golgota s’inerpica prima del Tabor. Con l’avvento della seconda guerra mondiale, le sorti dell’occidente sembrano ormai precipitare, la chiamata alle armi e le leggi razziali comportano tali e tanti mutamenti che ciascuno è vicino nelle sorti dell’altro, eppure piange la propria agonia del cuore che al pari divide e allontana, separa gli affetti, spezza la vita. La fedeltà di don Luigi è però integrale e priva di recessi, compie il miracolo di ricomporre il principio con la fine, come se tutto fosse giustamente compiuto, una medesima identità si realizza nelle sorti di quel parroco che da sempre aveva scelto, malgrado il suo carattere, di servire il suo magistero, prima che da sacerdote, integralmente da uomo, con autentico spirito di servizio ed indiscusso amore per la vita. Vista a ritroso la vita di don Luigi è piena di prove, di esami di coscienza, di rigorosi vagli dell’animo o crocevia, al cui appello il parroco è sempre presente, in cui non indietreggia, e senza esitazioni, imbocca la strada del coraggio e della dignità, dell’altro in cui riconosce, evidentemente, se stesso. Una lunga estenuante ed accorata corsa, potremmo definire la vita del protagonista, che suscita sentimenti di ammirazione e compassione. Molte sono le crisi di coscienza e di identità del parroco, che dinanzi agli eventi si pone sempre con estremo rigore morale, spoglia se stesso sino alla nudità, indaga nelle profondità mettendosi sotto esame: Temo di essere un cattivo parroco e dare un pessimo esempio se non denuncio le leggi razziali. Amare la propria gente vuol dire anche aprirle gli occhi. L’idea dell’esempio, inteso come apostolato vero, espressione della volontà evangelica e dottrinale, è anche un atteggiamento dell’uomo presente a se stesso e alla storia, che educa gli altri con il medesimo rigore che pretende da sé, con le opere più che attraverso i sermoni. Aldo Ungari, autore di quest’opera, ci descrive don Luigi nelle sue ragioni più profonde, non senza tenere conto di una cognizione sempre consapevole degli alti valori civili e dottrinali della Chiesa. Quanto, più da vicino, alla consistenza del romanzo molte sono le cose che possono essere dette. Avendo già ampiamente esposto circa l’efficacia del racconto e dei suoi interpreti, della forza evocativa di questa vicenda, è da sottolineare altrettanta predisposizione del testo, nell’idea del suo costrutto, linguistico, logico e sintattico.

    Emerge, infatti, una solida capacità di racconto, mai indugiato o perso dietro futili dettagli o prolisse circonlocuzioni, ma sempre vibrante, teso, radente, energico, con la medesima concretezza e fisica corporeità dei suoi stessi protagonisti ed eventi.

    Dall’ampia dialogica, alternata con appassionante cadenza, emerge un parlare di altri tempi, giustamente restituito dall’opera, un altro modo di atteggiarsi, riti e formalità oggi per lo più desuete,diremmo.

    Eppure il tratto di quell’epoca è realisticamente reso dalla dinamica attiva, quasi in tempo reale, di tutti i personaggi, dal loro modo di prendere vita nel romanzo attraverso la parola.

    Emerge così la figura di don Luigi, non solo attraverso il filtro dell’auctor, ma per sua stessa bocca, con la sua reale capacità di mediazione con il mondo, con gli altri e con la società civile ed ecclesiastica.

    Le frasi brevi, la sintassi composta ed essenziale, consente un disegno linguistico pulito e lineare, facilmente attraversabile dal lettore che con voracità sopravanza di pagina in pagina. È questo il caso in cui la lingua, con assoluta umiltà, serve la causa di questo racconto, l’urgenza della sua testimonianza.

    L’elemento che più di altri patrocina il romanzo, non è solamente la bellezza, già denunciata dalla sua sciagurata ed appassionante storia, ma l’importanza della memoria, che qui ha caratteri di innegabile evidenza.

    Una memoria intesa come coscienza umana, orientamento non solo individuale ma collettivo, riconoscimento dei principi primi in cui noi stessi siamo uomo fra gli uomini. Senza questo retroterra culturale e spirituale, senza tale tramandata eredità testimoniale, nessuna edificazione civile futura pare plausibile, nulla più nei recessi della mente se non lo sguardo verso il cielo, l’animo risvegliato come nostro spirito guida.

    E certamente ci dice, in ultimo, sulla vitalità della speranza che in quegli anni, fra i più bui, prevalse sull’oblio, fu appiglio e via di fuga, rinascita per una nuova, rinnovata umanità.

    Mattia Leombruno

    Presidente della Fondazione Mario Luzi

    Fondatore e Direttore del Premio Mario Luzi

    Recensione rilasciata e di proprietà della Fondazione Mario Luzi

    www.marioluzi.it. Tutti i diritti sono riservati.

    a Elina

    L’autore ringrazia di cuore per i preziosi suggerimenti il

    prof. Giulio Colombi, il prof. Claudio Donneschi, mons. Gabriele Filippini, il p.i. Franco Ragni.

    GLI SPIRITI

    -Don Luigi, la cena è pronta

    -Sì, mamma, vengo subito.

    Quel subito voleva dire dieci minuti, lo sapeva benissimo mamma Amalia che versò mezzo litro di latte munto da poco nella scodella grande e continuò a rigirare la polenta, ormai quasi cotta.

    La cascina Il Giuseppino era ai margini della Volta, borgata alla periferia della città. Abitava lì la famiglia del giovane. In quella fine di novembre del 1926 il gelo aveva già steso le coperte di galaverna sui campi e mentre Amalia cuoceva la polenta la nebbia saliva dai fossi dove l’acqua di risorgiva scorreva quasi tiepida al confronto delle gelide zolle indurite e nere.

    La polenta sbuffava piccoli getti di vapore da coni vulcanici in miniatura e Amalia pensava a quando il suo Luigi era piccino. Sganciò il paiolo dalla catena del camino e con un abile movimento rovesciò la polenta sul tagliere.

    Il giovane prete benedisse la mensa e iniziò a gustare quei buoni cibi genuini. Era quella la cena che preferiva ed il suo volto lo esprimeva schiettamente. La

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