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Bonum iter, Bonito!: Romanzo antropologico
Bonum iter, Bonito!: Romanzo antropologico
Bonum iter, Bonito!: Romanzo antropologico
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Bonum iter, Bonito!: Romanzo antropologico

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About this ebook

Una Spoon River irpina che ha «l’andamento di una passeggiata e la struttura di un paese».  Un antropologo racconta un’immaginaria passeggiata lungo le vie di un paese del Sud descrivendone i tratti più caratteristici e collocandovi di volta in volta le storie di vari personaggi.
Storie di amori traditi, di vendette, assassini, soprusi, fallimenti, ma anche smargiassate divertenti e storie di successo come quella di Salvatore Ferragamo. Storie da cui emerge un mito: quello dell’America, ossessivamente presente nell’immaginario collettivo, ma che, a partire da un drammatico bombardamento, il “10 settembre 1943”, si sgretola progressivamente. 
Parallelamente il paese stesso, come in preda a una sorta di patologia degenerativa, sembra sgranarsi come un’immagine fotografica troppo ingrandita, fino al proprio annichilimento identitario.
Il linguaggio segue l’andamento delle storie oscillando tra livelli letterari e livelli infimi, perfino “pidocchiali”. Tra i due estremi una gamma indefinita di soluzioni intermedie con l’intento di annullare la linea di confine tra alto e basso, tra quotidianità provinciale e storia universale, tra lingua e dialetto, fino a spaesare il lettore.
LanguageItaliano
Release dateJun 4, 2019
ISBN9788834131947
Bonum iter, Bonito!: Romanzo antropologico

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    Bonum iter, Bonito! - Salvatore La Vecchia

    GLOSSARIO

    Vengo da…

    "Io sono una forza del Passato.

    Solo nella tradizione è il mio amore.

    Vengo dai ruderi, dalle chiese,

    dalle pale d’altare, dai borghi

    abbandonati…"

    Vengo dall’aura remota

    di una piazza

    risanata devastata.

    Una torre imbiancata

    come un muro d’ospedale

    per dementi senili

    senza ricordi

    ricoperti di calce

    come colerosi gettati nelle fosse

    crepe di un’antica frana

    riaperte dalle ossa

    inquiete e senza nome

    dimenticate

    come legni porosi

    di una malapianta andata.

    Eppure da lì vengo.

    Piazza dalle ariose finestre

    già asilo

    di giochi infantili

    ora improbabili merli

    artigliano ingenui sogni

    fingendosi aquile

    dal rostro possente

    gracchiano, invece, stonati,

    come corvi

    dall’ombra nera

    stampata

    sul muro Comune

    che il comune sentire

    non sente.

    Eppure da lì vengo.

    Da aratri arrugginiti

    e vecchi arnesi

    muti

    affastellati e senza vita

    additati

    da chi non ha un nome

    per chiamarli

    o sepolti sotto i rovi

    nel cuore inselvatichito

    di una vecchia masseria

    fossa comune

    di quel comune sentire

    che il Comune non sente.

    E dalle chiese annichilite

    dove rintonano campane

    come nel silenzio

    l’alito dei fantasmi.

    E dalle tante fontane

    malate

    destinate a soffrire

    e infine a morire

    secche

    come memoria inaridita.

    Dal bruto cemento

    dal catrame

    nero

    riverso nel nulla

    nell’anima sfatta.

    Bonum iter, Bonito!

    Sono io stesso la materia del mio libro, vorrei poter dire con Montaigne, e non

    sarei lontano dal vero, perché quell’io stesso, in questo viaggio, è Bonito che si

    racconta attraverso le sue pietre e i suoi personaggi.

    E ancora con il filosofo francese,

    per il quale ciascun uomo porta intera la forma della condizione umana, vorrei

    poter aggiungere che Bonito, come ogni paese del Sud, porta intera la forma della

    paesanità meridionale, se non, come ogni paese, della paesanità tout court.

    Bonum iter, Bonito!

    Conosci te stesso recita sulla diruta pietra, il vecchio signore di Delfi. E come ogni massima che si rispetti, per la profondità della sua saggezza, indica la meta ma nulla ci dice del percorso, lasciandocelo immaginare lungo e faticoso, sempre che si abbia la fortuna di capire da dove inizi e attraverso quali impervie gole e aride pietraie si snodi e si riavvolga in quel labirinto senza confini come si vuole sia l’anima, inafferrabile. Dov’è, nel labirinto, il punto di partenza? vicino o lontano all’arrivo? Nel caso specifico non ci si può sbagliare: c’è un punto che è così vicino quanto lontano, dentro e fuori di te: l’Altro. Vuoi conoscere te stesso? Chiedi allora all’Altro. Anzi, non chiederglielo neanche, lascia semplicemente che ti racconti; e se alla fine non è la tua storia, è pur sempre una storia, e come in ogni storia c’è posto anche per te.

    E questa è la storia di un racconto, del racconto di Bonito, sapido protagonista, un paese – mi verrebbe da dire – senza luogo e senza tempo, per quell’infinitesimo di tempo e di spazio, minuscolo granellino, che occupa nella storia e nella geografia del globo terracqueo.

    Agatino, Ago per gli amici, il quasi ancora giovane indigeno bonitese (fin dove si spinge la giovinezza?), con lo stupore negli occhi di chi sogna senza dormire, o di chi dorme sognando con la vividezza della veglia, e con un ricorrente fremito negli arti: Non è tremarella, si disse, ma aveva paura che si notasse, così, per darsi un tono, aveva sin dalla partenza aperto un libro sulle gambe, faceva finta di leggere ma la pagina, per quanto vibrante, era una pagina a caso e sempre la stessa: 90. Non era la smorfia della paura, ma non riusciva a staccare gli occhi sbarrati più ancora dell’oblò da quel mare di nuvole bianche, sotto di sé, se non per qualche secondo, giusto il tempo per ritornare distrattamente alla pagina, ma senza neanche provare a focalizzarne le parole. Tra le mani strizzava il ticket che intendeva usare come segnalibro: boeing Alitalia 777-200, volo AZ 604 Milano-New York.

    Al suo fianco, ma fin allora per lui non più di un’ombra proveniente chissà da dove, Pericle Periballo, navigato, colto e attempato foresto, con l’esperienza di qualche generazione in più sulle spalle e con un’intera biblioteca in testa, nonostante continuasse a digitare sul suo portatile, aveva notato la sottile agitazione del quasi ancora giovane Ago.

    – È il primo volo, vero?

    – Mmm?

    – Il primo importante, voglio dire.

    – Scusi?

    – È la prima volta che va a New York?

    – Sì, è la prima volta – rispose Ago, sforzandosi di essere cortese. Si sentì irritato perché, nel momento stesso in cui rispose, ebbe la sensazione che quella banale domanda lo aveva indotto, pur senza mentire, a non essere sincero neanche con se stesso, come quando ci si vuole convincere con l’evidenza della ragione di qualcosa che il sentimento avverte in tutt’altro modo: come in un flash, e per una durata equivalente, gli venne infatti da figurarsi che in America c’era già stato, tanto si era identificato nei protagonisti dei racconti, che sin da piccolo aveva sentito, delle partenze, degli arrivi, dei ritorni, delle storie, delle fantasie, delle invenzioni, sugli e dagli americani del suo paese, da fargli sentire americana persino l’aria che respirava. Intanto, mentre così pensava, il suo sguardo era già ritornato su pagina 90 per risalire poi all’oblò e rituffarsi nelle nuvole quando, come punto sul collo da un tafano, ritornò di scatto sul file del foresto, sul quale, del tutto involontariamente, aveva gettato lo sguardo, isolando in una specie di lampo, all’interno del testo grigio, un nome che gli era sembrato anch’esso rifulgere: Bonito.

    Ritrasse lo sguardo per paura di essere indiscreto. Periballo fece finta di non accorgersi di nulla. Ago si impose di tenere gli occhi fissi sul libro. Pensò a una coincidenza. Come poteva quel signore distinto, dall’accento così pulito che non faceva trapelare nessuna inflessione dialettale (per quel che ne sapeva, poteva essere anche uno straniero o un marziano – o la materializzazione di un fantasma – che aveva imparato perfettamente l’italiano), che non aveva mai visto in vita sua, poter conoscere Bonito, il suo paese, sperduto nell’Irpinia, minuscolo e irrilevante, che da quell’altezza e da quella distanza gli appariva ancora più piccolo e più insignificante, un puntino confuso tra mille altri, se non andato addirittura perduto nella scrostatura di qualche vecchia cartina e non più ritrovato nelle nuove? Aveva sentito parlare di una Bonito brasiliana, forse si trattava di quella. Anche un pittore porta quel nome e, oltre al santo patrono, persino un beato e un pesce. E poi c’è quel famoso critico d’arte. E chissà quanti altri. Ma la curiosità restò e, ancora più di un tafano, continuò a pungolarlo. Senza muovere la testa, torse gli occhi fino a sentire dolore nelle cavità oculari. Spostò leggermente il corpo, volgendo di un tanto la spalla all’oblò come per far arrivare più luce sul libro, in effetti era una manovra per poter leggere meglio sul display del suo compagno di viaggio. Si trattava di un paese e non di pesci, santi, beati, critici o chissà che altro. E neanche il Brasile c’entrava: era un paese italiano. A quel punto fu sicuro: non poteva essere che il suo. Quel Bonito era la sua Bonito. Nessun dubbio. Quella certezza gli fece passare la tremarella. Si sentì al sicuro, protetto; come se stesse ritornando a casa e non andando in America. Ma quel signore che c’entrava con Bonito? Com’era finito il suo paese su quel computer? Un chiarimento fu inevitabile.

    Periballo, poco dopo la metà degli anni Cinquanta, fresco di laurea, con una tesi dal titolo Il Grand Tour di artisti e letterati nell’Italia del Sud, aveva deciso di farne uno, di Tour, magari meno grande ma, come si direbbe oggi, alternativo.

    – Una specie di viaggio-premio? – interloquì Ago.

    – Sì, si può dire così.

    – Ma guarda, quando si dice la coincidenza! Anch’io sono in viaggio…

    – Premio? Non mi dica…?

    – …per la laurea? Se vuole non glielo dico, ma è così. – Guardò sospeso il suo interlocutore in attesa di una qualche reazione che non ci fu. – So – riprese, sentendosi in dovere di fornire comunque una spiegazione anche se non gli era stata richiesta – cosa sta pensando: che sono un po’ troppo cresciuto per essere un neolaureato. Ma ho lavorato, sa, e non pretendo che mi creda: non dicono tutti così? E poi che conta l’età? Non c’è chi si laurea a quaranta, cinquanta o anche a sessant’anni? E chi non si laurea per niente? Meglio tardi che mai, o no? Comunque, è così: sono in viaggio-premio… per la laurea.

    Con la insignificante differenza che Periballo, a suo tempo, con il suo viaggio-premio, non sapeva dove sarebbe andato, ma sapeva cosa non avrebbe visto: i luoghi narrati dai grandi viaggiatori dei gran Tour; Ago ora sapeva dove stava andando, ma – nonostante New York o forse proprio perché New York e nonostante i racconti o forse proprio per i racconti che aveva su di essa sentito e ora più che mai sembravano perdersi in una indefinita vaghezza – avrebbe voluto sapere cosa avrebbe visto senza averne la più pallida idea.

    – Beh, l’America, i bonitesi – disse Periballo con un soffio di voce come se stesse parlando a se stesso – ce l’hanno dentro: un po’ tutti si sentono, in qualche modo, un po’ americani.

    Ago trasalì, non resistette a rialzare gli occhi per guardarlo meglio in faccia, sia pure di sghimbescio. Ma chi è? Che ne sa dei bonitesi? Nello stesso tempo, si sentì pizzicato nei suoi pensieri, in particolare in quello di poc’anzi, in quella vaga sensazione di americanità; cercò di lenire l’irritazione, e in parte di rivalersi, pensando che il suo compagno di viaggio non sapeva, non poteva sapere, a parere suo, che la nostra America, quella di noi bonitesi, non è l’America degli altri; la nostra non è neanche l’America: è la Mereca. E com’è la Mereca lo sappiamo solo noi, solo noi la conosciamo, solo noi sappiamo quanto la desideriamo e quanto… quanto… ma lasciamo stare perché in fondo la Mereca o l’America è sempre l’A-Merica.

    Quello di Periballo, era stato un viaggio senza un itinerario preciso ma con un’idea chiara: vedere luoghi neanche immaginati e sfiorati nei resoconti del Grand Tour, con la convinzione di trovare comunque qualcosa, forse la semplicità, non necessariamente nobile, e magari la quiete anche senza grandezza.

    (Ma la semplicità non è sempre nobile, se non altro perché è così difficile a farsi? E la quiete non è sempre grande nella sua abissale profondità?)

    Insomma, non era lì per dannarsi come Faust, per attingere il bello nel punto o nell’attimo fatale. Cosa Periballo cercasse, per la verità, neanche lui lo sapeva. Quello che ha sempre saputo è che a un certo punto si era ritrovato su un postale – uno di quei pullman che avevano tra l’altro lo scopo di smistare, all’andata, la posta dal capoluogo e, al ritorno, raccoglierla dai paesi della provincia – e che, ad un tratto, stava attraversando una zona non meglio identificata dell’Irpinia, tanto che in seguito, Periballo, non ricorderà mai più per dove, quel giorno, di preciso avesse fatto il biglietto: aveva forse ripetuto al bigliettaio il nome della meta del signore che nella fila lo precedeva e che gli era dovuta risultare talmente indifferente da non permetterle neanche di sfiorargli la memoria né tantomeno di prendervi posto da qualche parte.

    Sul postale fu attratto da uno sguardo dall’età indefinita, profondo come un pozzo che provoca vertigini; lo sentì parlare, quello sguardo, e lodare le virtù di un’acqua miracolosa, zorfegna, che sgorgava da una certa fonte, in quei dintorni, che aveva permesso a suo figlio di liberarsi di un certo disturbo della pelle, per il quale nessun unguento e nessuna pomata, nessuna lozione e nessun balsamo di medici e farmacisti avevano sortito un qualche benefico effetto. Un disturbo, a sentire i sintomi descritti da quel signore, simile a quello che affliggeva anche lui da un po’ di tempo. Un indefinibile prurito che, da qualche anno, di tanto in tanto, gli si ripresentava nelle parti più svariate del corpo, lasciandogli sulla pelle delle crosticine che scomparivano solo qualche giorno dopo. Niente di grave, gli dicevano i medici, ma nessuno specialista gli aveva saputo dire di cosa di preciso si trattasse. Non era in fondo un gran fastidio ma comunque un fastidio. Nessun fastidio gli avrebbe arrecato, invece, provare quell’acqua.

    A Pianopantano, scese dal primo e salì su un secondo postale diretto a Bonito, perché in quella terra si trovava quella fonte miracolosa, in località Montagosto. Non sarà stata l’acqua di Lourdes né quella più laica o addirittura illuminata di Contrexéville, però, comunque, sentì un certo sollievo (vero o presunto che fosse, che differenza fa? Meglio star bene o sentirsi bene? E sentirsi bene non è già uno star meglio?) già dopo le prime abluzioni e per questo decise di restare qualche giorno in paese. Vi ritornò ancora, per alcuni anni, e ogni volta per dieci-quindici giorni e in stagioni diverse.

    – Lei, di sicuro, la conoscerà meglio di me, quella fonte – fece ad Ago, interrompendo il suo racconto, come per chiederne notizie.

    – Ne ho sentito parlare, non l’ho mai vista ma ne ho sentito parlare, da qualche vecchio forse, ma così come ho sentito parlare delle fonti del Clitumno e della fonte dell’Eden, non sono sicuro neanche che esista.

    – Esiste, esiste!

    – O è esistita. Potrebbe essere stata riempita da ruspe e trattori per spianare il terreno; si usa, sa?

    – Spero che si sbagli.

    – Sì, forse mi sbaglio, ha ragione lei; sarà solo sepolta sotto una montagna di rovi.

    – E le altre? Le altre, ci sono ancora?

    – Penso di sì. Sì, ci sono, qualcuna la conosco. Può darsi anche che ci siano tutte, non so. Diciamo che non sono un grande appassionato di fontane.

    – Ce n’era una quasi sotto Montagosto ma più spostata verso il paese: grande, allora mi sembrava addirittura monumentale, con una grande vasca e due maschere di pietra che gettavano acqua dalle bocche, sempre affollata da gente che riempiva barili e ogni sorta di recipiente, da lavandaie che cantavano o litigavano e da pastori e mucche che muggivano impazienti di abbeverarsi: la Palatina, ecco come si chiamava, fontana della Palatina.

    – Ah, la Paratina – la chiamiamo così – quella c’è, c’è ancora. Beh, quella la conosco bene. Lì vicino, sopra la scarpata, sopra il lemmete — Periballo assentì e inarcò un sopracciglio, lampeggiando l’occhio, per dire che conosceva il significato della parola dialettale — prima di fare il nuovo campo sportivo, c’era un campetto da calcio, polveroso al centro, che quando pioveva si trasformava in pantano, e ingramignato di erbacce ai lati, dove le entrate a scivolone erano preterintenzionali, nel senso che, per la vischiosità del terreno, sapevi come iniziavano ma non sapevi come e soprattutto dove finivano, nel burrone sottostante, dal medico o all’ospedale. Del calcio, o di qualche altro sport, quel campetto, non aveva niente, neanche, per dire, una finzione delle porte; però, per noi ragazzi, era come uno stadio e quando si giocava, anche se c’eravamo solo noi giocatori a correre e a gridare, per incitarci o rampognarci a vicenda, al massimo eravamo sette contro sette, perché uno in più non ci stava, quando si faceva gol lo stadio esplodeva; altro che centomila, gli spettatori non si contavano e la ola ci cullava per tutta la partita: di gol allora se ne facevano tanti, era una festa; le partite finivano anche 10 a 11, 14 a 13, mai 12 a 12, cioè pari, uno doveva sempre vincere, se si arrivava pari, alla fine chi faceva l’ultimo gol vinceva, ed erano fuochi d’artificio. Adesso, silenzio. La ola si è posata come la nuvola di polvere, dopo la partita: piano piano rallenta, il turbinio si smorza, dirada e l’ombra si posa. Per un po’ di tempo si sono sentite le rane, sotto i rovi, nelle acque limacciose della vasca, ora niente: silenzio. La fontana è stata ristrutturata. Ristrutturata? Rifatta. Come certe vecchie signore, così tirate che non possono muovere neanche le labbra, raggrinzite intorno a un orifizio da cui fuoriesce un flatus senza vocis. Non sono più loro. Non è più la Paratina. Non dice più niente. Persino l’acqua, che scende dal buco nero della canna incassata nella maschera di pietra, sembra immobile e cade senza far rumore come in quei quadri metafisici in cui tutto è sospeso in una fissità surreale, fuori del tempo e in uno spazio non riconoscibile. A un certo punto si è parlato addirittura di venderla a qualche privato.

    – La fontana? Venderla? Questa poi!

    – Di che si meraviglia? Ci si vende anche l’anima. E io temo che l’anima qualcuno se la sia venduta, la propria e, quel che è peggio, un po’ alla volta anche quella del paese. E senz’anima non si vive, si può continuare a sbattersi ancora per un po’, ma non si vive, come la coda della lucertola che continua a dimenarsi dopo che le è stata staccata dal corpo da qualche ragazzotto impestato (da noi si dice che con quel fremito la bestiolina bestemmia i morti di chi l’ha mutilata).

    E Bonito non vive, non vive più come una volta, senz’anima si è ammalato. È un paese malato.

    – No, la Palatina, no! – borbottò incredulo, Periballo, come inseguendo qualche suo ricordo; poi, come rinvigorito da un’improvvisa illuminazione, si rivolse deciso ad Ago: – Lei sa che in passato, agli inizi dell’Ottocento, per difendere quella fontana e il terreno circostante la gente del posto fece una mezza rivoluzione?

    – Addirittura, per una fontana?

    – Beh, allora non c’era mica l’acqua in casa e l’acqua, tutta l’acqua, persino quella piovana, era molto più preziosa di quanto non lo sia oggi, nonostante si parli già di emergenza. Spesso l’acqua bisognava mendicarla, se non addirittura comprarla. Non so se ha mai sentito parlare di una certa Mupa, la muta, secca, lercia e scorbutica e per questo, più che per la sua menomazione, era dileggiata dai bambini, abitava dove il vicolo Sanfelice sfocia in Piazza Mario Gemma o Piazza Municipio; ebbene quella donna, a Vignalacorta, aveva un pozzo e si è venduta l’acqua fino a…

    – Sì, ho sentito parlare di questa Mupa, non per l’acqua, però, ma piuttosto per una laida tresca con un certo Mechelone, che di acqua non ne sprecava, era addirittura allergico. Non poteva neanche assaggiarla, diceva lui. Si racconta di una notte in cui, in preda all’arsura, si sia alzato e abbia, nel buio, scambiato l’orcio, il ciceno, dell’acqua per il fiasco del vino: al primo sorso, e fortuna che è stato solo quello, ha sputato sangue, si è sentito così male che è stato sul punto di morirne, tanto che hanno dovuto chiamare il medico. E con il vino il sangue ribolle. E a Mechelone ribolliva, ah se ribolliva: era un satiro. Pare non risparmiasse neanche capre e pecore. E da buon seguace di Bacco, il divino nettare non gli bastava mai. Quando andava in campagna, si dice, portava con sé sempre l’immancabile fiasco pieno di rosso, dal quale incominciava a sorseggiare non appena si fosse chiusa la porta di casa alle spalle, così a metà strada il fiasco era vuoto e lui doveva tornare indietro a riempirlo di nuovo; e con il secondo faceva ancora meno strada del primo, e così, a volte, finiva per non arrivarci più in campagna. Anzi, restava fermo sulla soglia. Se Zenone l’avesse raccontata così l’impossibilità del movimento, l’avremmo capita meglio a scuola. Dove ha detto che abitava, la Mupa? In vicolo Sanfelice? Mai sentito. Ma mi dica, piuttosto, della rivoluzione.

    Periballo, caricato dal buonumore che la storiella gli aveva procurato, non si lasciò pregare.

    – Per la verità – iniziò – gli atti ufficiali parlano di schiamazzi di quella oppressa popolazione, ma stando al racconto della gente, che si è tramandato di bocca in bocca, si è trattato di una vera e propria rivolta, tanto da costringere le autorità a riconsegnare la fontana ai contadini. Ma andiamo con ordine. I fatti risalgono al 1810, quando alcune delle più ricche famiglie di Bonito, tra le quali anche quella dei Cassitto, approfittando dei provvedimenti napoleonici che permettevano l’acquisto dei beni demaniali da parte dei privati, si appropriarono anche delle fontane della Palatina e di Maleprandi. La conosce Maleprandi? Esiste ancora?

    – Sì, ma rifatta anch’essa. In modern style, come la Paratina.

    – Bene. A questo punto, le fredde carte della burocrazia lasciano intendere che, in seguito agli schiamazzi della popolazione, le fontane ritornarono ad essere di tutti ma non ci dicono nulla della natura di quegli schiamazzi. Se vogliamo saperne, o semplicemente immaginare, qualcosa di più, dobbiamo abbandonare le vie aride e strette dei documenti e imboccare quelle ampie e rigogliose della leggenda, che non è rigorosa e precisa come la storia, ma neanche reticente e, per questo, forse, più della storia, a volte, ci dà l’idea di ciò che è effettivamente accaduto.

    – Racconti!

    – Si narra di un giovane contadino di nome Carluccio, che abitava nei pressi della fontana della Palatina, fidanzato con una certa Lucìella, figlia di un pastore, che abitava dalle parti di Maleprandi. I genitori dei due ragazzi, Nicola e Cicco, erano felici di questo fidanzamento perché, oltre che compari, erano legati da una vecchia amicizia che durava da quando erano bambini e vivevano con le loro famiglie vicino alla fontana della Veticala, un’altra fontana dall’acqua miracolosa, quasi come quella di Montagosto.

    – Non mi chiede se esiste ancora? Se l’hanno rifatta?

    – Come si è capito – continuò Periballo, sorvolando sull’ironia di Ago – le fontane allora erano molto importanti e più di ogni altra cosa segnavano il territorio: appartenere a una fontana era come appartenere a una famiglia. Tanto che le persone, più che con il loro, venivano indicate con il nome della fontana: Angelo Raffaele de le Chiuppe, Giovanni de la Macchia, Marino dell’Ermecera, Michele de lo Saleco, Peppo de Cerasole, Tore de Vignalacorta e via continuando. E anche Cicco e Nicola venivano chiamati con il nome delle loro fontane a cui tenevano molto. Tant’è che ogni anno organizzavano i contadini della loro zona per proteggere la sorgente, controllare il condotto, pulire le vasche, sistemare qualche pietra, riassettare il selciato, falciare il triggio – il terreno che fa tutt’uno con la fontana – e fare tutto ciò che serviva per la sua buona tenuta. Finiti i lavori, si riunivano tutti in una masseria per discutere le modalità d’uso della fontana in modo da soddisfare i bisogni di tutti e non sprecare acqua. Ora, queste modalità erano le stesse da tempi immemorabili, però loro ogni anno se le ripetevano come per riassumersi un impegno solenne da mantenere per sempre. Quella sorta di rito serviva anche a trasmettere ai più giovani, per via orale, quelle regole mai scritte da nessuna parte. La serata si concludeva con una bella cena, una buona bevuta, organetto e ballo fino a tarda notte. Quando uscì il bando napoleonico che permetteva l’alienazione delle terre demaniali, un signorotto di Bonito, già proprietario dei terreni vicini, pensò di appropriarsi anche del suolo su cui si trovavano le fontane e quindi delle fontane stesse, nonostante quel terreno fosse ritenuto invendibile dallo stesso bando. Quel signorotto, però, capì che con quei contadini così uniti sarebbe stata difficile l’usurpazione. Incominciò allora a seminare zizzania. Assoldò un tale affinché facesse richiesta di comprare la fontana della Palatina a nome di Cicco, ma a sua insaputa, e la stessa cosa fece con un altro, a nome di Nicola, con la fontana di Maleprandi. Insomma, nel giro di un paio di giorni, non solo le due famiglie, ma tutti i contadini di quelle campagne si trovarono gli uni contro gli altri armati. Iniziarono i primi dispettucci e altri furono organizzati ad arte. Uno in particolare. Il signorotto convinse, a suon di promesse e di minacce, il garzone di Cicco a portare le pecore a pascolare sul triggio di Nicola, perché il triggio a quello serviva e, dal tempo dei tempi, era di tutti e tutti vi potevano passare con le loro greggi, pascolare, sostare, abbeverare e fare quello che volevano. E questo era vero, ma lo era per le necessità della transumanza e non per i dispetti. Inoltre, il garzone di Cicco, con un supplemento di promesse e di minacce, permetteva che le pecore del suo padrone andassero a pascolare nei campi di Nicola con grande danno per le colture. Non mancarono le ritorsioni di Nicola e fu guerra aperta. Alle fontane, a quel punto, nessuno ci pensava, se non il signorotto di Bonito che poté così facilmente appropriarsene. Le regole della guerra imposero a Carluccio e Lucìella di rompere il fidanzamento. Ma i due giovani si volevano troppo bene per sottostare a leggi contro natura, così continuarono a vedersi in gran segreto. Ogni sera, a tarda ora, Carluccio, quatto quatto, si recava a Maleprandi presso la masseria di Cicco, saliva su un pagliaio, dal pagliaio saltava sul tetto della stalla e, piano piano, come un gatto, arrivava sotto la cameretta di Lucìella. Una sera sentì che nel pagliaio c’era qualcuno e si fermò. Non potette fare a meno di ascoltare. Era il garzone di Cicco che litigava con un uomo di fiducia del signorotto bonitese al fine di ottenere il giusto compenso pattuito per i suoi loschi servigi. Carluccio, dopo qualche minuto, aveva già capito tutto. Non andò quella sera da Lucìella. Aspettò che il garzone restasse solo con in mano i suoi trenta denari: gli saltò addosso, gli puntò il suo inseparabile serramanico alla gola e lo trascinò da Cicco a cui, il garzone, tra le lacrime, confessò ogni cosa e consegnò il frutto del suo tradimento. Dopo una mezz’ora, Carluccio e Cicco erano da Nicola, chiarirono tutto in un minuto e insieme decisero di svegliare tutti i contadini e riunirli intorno alla fontana della Palatina. Poche ore prima dell’alba, almeno cinquanta contadini erano armati di forche, falci, randelli, coltelli e qualche schioppo e già marciavano verso Bonito. Gli schiamazzi imposero al signorotto di affacciarsi al balcone, sul quale, legata per il collo con un nodo scorsoio, già pencolava una cecena, un orcio di terracotta come si usava allora, la cui ombra sinistra, che danzava sulla faccia dell’uomo tremante, scoppiò in mille frantumi che andarono a punteggiargli la papalina e la camicia da notte.

    Signore tuonò, indicando ciò che era rimasto impiccato della cecena, con voce ferma, Carluccio, che era ormai il capo indiscusso della banda siamo venuti a consegnarvi le fontane che vi siete già prese. Quando volete, potete prenderne il pieno possesso. Vi aspettiamo!

    Vi aspettiamo! gridarono all’unisono i cinquanta contadini e, come un sol uomo, strinsero un nodo scorsoio con un pezzo di corda che avevano tra le mani, e mentre il signore si portava la mano alla gola per verificare che fosse ancora integra, gli voltarono le spalle e in ordine, e senza altri schiamazzi, ritornarono sicuri alle loro case.

    Il signorotto non volle più sentir parlare di fontane. E l’acqua non la usò più neanche per sciacquarsi le pudenda. La leggenda vuole che sia finito gonfio di cirrosi e mangiato vivo dai vermi.

    Il racconto piacque molto ad Ago, ma più forte del piacere fu lo stupore per il fatto di non aver mai sentito raccontare a Bonito una storia così bella.

    – Questa storia mi ha incantato – disse poi, sforzandosi di riprendersi ma restando ancora come imbambolato. – E lei l’ha raccontata così bene, ma così bene, che è difficile credere che non l’abbia vissuta in prima persona.

    – Non so quanti ne dimostri – celiò Periballo, – ma le assicuro che sono più vicino ai settanta che agli ottanta.

    – Come fa a conoscere così bene questa storia? Si direbbe che lei la racconti ogni giorno o che l’abbia appena sentita raccontare da qualcuno.

    – Le svelo un segreto. La storia l’avevo finita di rileggere proprio un attimo prima che lei si imbattesse nella sua Bonito sul mio computer. – Periballo spiegò quindi ad Ago di essere un antropologo che stava andando a un convegno in una certa università americana e stava cercando di rendere più vivace il suo intervento ricorrendo a qualche aneddoto. E mentre stava scorrendo il suo archivio, si era soffermato a leggere quella storia che probabilmente avrebbe utilizzato nel convegno durante il quale, tra l’altro, si sarebbe parlato anche di acqua.

    – E questa – chiese Ago, senza cercare di nascondere una certa ansia – è l’unica storia che conosce, di Bonito voglio dire, o ne conosce altre?

    – Vede questa? – riprese Periballo, estraendo dalla tasca di una borsa una penna di computer. – Quest’astuccio è pieno di cose di Bonito: storie vere, fantasie, bugie, racconti, aneddoti, dati, personaggi inventati, persone reali, animali immaginari, bestie vere, stalle, case, palazzi, chiese, piazze, pozzi, fontane, fiumi, valloni, ponti, vie, mulattiere, some, basti, paste, minestre, polente, zuppe, zappe, aratri, asce, fasce, vestiti, monili, mobili, nobili, carrettieri, poveracci, minacce, insulti, bestemmie, soprannomi, proverbi, filastrocche, dialetto, diletti, sollazzi, vino a botti, botte a sangue, risse finite male, pietre tombali, nuovi natali... Se Bonito un giorno dovesse perdere il senno o la memoria, non ci sarebbe bisogno né dell’ampolla di Astolfo né della luna, basterebbe questa penna a restituirglieli.

    – A quanto pare – disse Ago, come scendendo da uno stralunante giro di giostra e con una punta di ironia stizzosa – sa più lei di Bonito che tutti i bonitesi messi assieme.

    – No, aggiunse pacato Periballo, io di Bonito non so neanche quello che sente il più distratto di tutti i bonitesi, ma so di aver ascoltato tante cose che forse nessun bonitese ha mai sentito.

    Ago, lì per lì, non capì bene cosa Periballo volesse dire, ma si sentì appagato: abbozzò un sorriso e si lasciò confidare un altro segreto.

    Periballo aveva deciso di dedicarsi agli studi antropologici proprio in seguito al tempo passato in Irpinia, durante il quale aveva raccolto tanto di quel materiale, non solo a Bonito, ma anche in altri paesi, che c’erano voluti anni per trasportarlo sul computer e gli anni, che ancora presumibilmente gli sarebbero rimasti da vivere, non sarebbero stati sufficienti per ordinarlo e interpretarlo. E le stesse cose di Bonito erano ancora in gran parte sparse in quella penna. Anche se in questo caso, forse perché era stato il primo paese visitato, forse per il miracolo di quell’acqua, forse perché lì era stato illuminato, o per chissà quale altra ragione, Periballo, già da tempo, addirittura da quegli stessi anni, quando si usava la biro e il quadernetto, aveva incominciato a ordinare una parte, solo una parte, degli appunti, delle impressioni, delle riflessioni, in una specie di racconto ancora scombinato di pezzi e tempi diversi, in cui si trovano delle vere e proprie istantanee prese in diretta e ricordi aggiunti in un secondo o in un terzo momento

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