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Le voci dell'autorita'
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Le voci dell'autorita'

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Mirko Pagnotta ha quasi finito di pagare il suo debito con la giustizia, tra poco tornerà a essere un uomo libero, ma le voci che compaiono nella sua testa lo rinchiudono in una gabbia ancora più grande.
In una Torino presente e riconoscibile si snoda e prende corpo una narrazione visionaria dai tratti distopici. Tematiche sociali e politiche si intrecciano alle vicende personali di Mirko. Il confine tra il reale e l’immaginato sfuma. La vera domanda è:
estrema verità o profonda follia?
Marco Purita è dottore di ricerca (XXIV ciclo) presso l’università degli studi di Torino. Ha vinto numerosi riconoscimenti per le sue tesi, ha pubblicato articoli su riviste specializzate del pensiero politico, racconti, romanzi non di genere, e due saggi politici su Nietzsche: Nietzsche, la politica dell’antipolitico (2013); Nietzsche, l’antipolitico e i regimi totalitari del Novecento (2018). Le voci dell’autorità è il suo primo romanzo.
LanguageItaliano
Release dateMay 29, 2019
ISBN9788834126592
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    Le voci dell'autorita' - Marco Purita

    Marco Purita

    Le voci dell'autorità

    96, Rue de-La-Fontaine Edizioni di Zuccalà Morena

    Via Liguria, 25 – 58022 – Follonica (GR)

    www.ruedelafontaineedizioni.com

    @2019 Proprietà letteraria riservata

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi

    sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali.

    Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o

    defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

    UUID: 935b6d08-8206-11e9-b0f2-bb9721ed696d

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    LE VOCI DELL’AUTORITÀ

    2010-2018

    Antefatto

    16-17 dicembre 2010

    Parte e scompare dai miei occhi.

    14 gennaio 2011

    15 gennaio 2011

    Speriamo che non sia morto nessun altro.

    17 gennaio 2011

    26 gennaio 2011

    11 febbraio 2011

    17 febbraio 2011

    2 maggio 2011

    23 agosto 2011

    21 ottobre 2011

    10 gennaio 2012

    20 marzo 2012

    15 maggio 2012

    6 giugno 2012

    27 ottobre 2012

    7 novembre 2012

    3 dicembre 2012

    17 aprile 2013

    18-19-20 aprile 2013

    3 maggio 2013

    18-19-20 giugno 2013

    21-22-23-24 giugno 2013

    Dal 25 giugno 2013 al 10 agosto 2013

    Dal 11 agosto 2013 al 22 febbraio 2015

    Dal 23 febbraio 2015 al 13 settembre 2017

    Dal 14 settembre 2017 al 21 novembre 2018

    LE VOCI DELL’AUTORITÀ

    2010-2018

    Antefatto

    Ho cominciato a sentire voci nella mia testa il giorno in cui sulle prime pagine di ogni quotidiano nazionale c’era scritto che le Nuove Brigate Rosse avevano attentato alla vita del direttore di un giornale.

    Scendo le scale dell’appartamento che ho in affitto in via Barbaroux 41, primo piano, prima porta, come ogni mattina, per recarmi al lavoro. Dietro la porta, la mia ragazza nuda, Chiara, dorme ancora sotto le lenzuola del futon acquistato a poco al mercatino di Porta Palazzo. Lei è una persona libera, non ha le prescrizioni da rispettare tassativamente come me.

    Il monolocale giace in fondo alla via, un percorso ancora carico di suggestioni medievali. La lunga e stretta parallela di via Garibaldi, un tempo divisa tra via Guardinfanti e via della Madonnetta, si allunga tra edifici e angoli che parlano un linguaggio misterioso, tra botteghe artigiane e negozi dello shopping - aperti dopo la ripulitura seguita al degrado degli anni Ottanta, palazzi gentilizi si dice abitati ancora da fantasmi. Il monolocale giace accanto alla chiesa della Misericordia, sede di una confraternita che dal XIV secolo in poi era dedita alle opere di carità verso i carcerati. Soprattutto dei condannati a morte, quelli che dopo essere stati giustiziati venivano sepolti in una cappella della chiesa. Alzo lo sguardo e scorgo la testa in marmo di San Giovanni Battista Decollato sul frontespizio della chiesa della Misericordia.

    Come ogni mattina svolto l’angolo per prendere via Garibaldi e recarmi presso l’università di Torino, in via Giolitti 33, al dipartimento di studi politici. Lavoro come dottorando in studi politici, storia e teoria (XXIV ciclo) da circa un anno. Ho vinto il concorso con borsa di studio, con un tema sulla Rivoluzione francese, estratto a caso fra le tre buste nelle mani di uno dei tre commissari della giuria. Nessuna irregolarità dei baroni accademici.

    Accendo una sigaretta fatta su con cartina e tabacco Marlboro Gold. Uno sconosciuto con una pila di giornali fra le braccia me ne offre uno da leggere gratis.

    Oggi il titolo di prima pagina di Leggo recita così: Attentato al direttore. Le Nuove Brigate Rosse sono ritornate . In sintesi l’articolo racconta che il giornalista, direttore del suo quotidiano, come Casalegno, Tobagi e Montanelli, ha visto la morte in faccia. Un uomo armato gli ha sparato nel centro di Milano per cercare di colpirlo, per qualche idea o opinione sbagliata. E quest’uomo secondo fonti non meglio identificate apparteneva alle Nuove Brigate Rosse. Scorgo accanto all’articolo la pubblicità delle Generali, un riquadro giallo con la foto di un colletto bianco sorridente sotto la scritta Assicurazioni.

    Abbiamo realizzato il tuo sogno, dice all’improvviso una voce maschile.

    Quale sogno?, penso sgomento. Sono in via Garibaldi, mi guardo attorno e vedo soltanto gente incappucciata con passo rapido dirigersi a lavorare. Madri stringono per la mano bimbi vestiti da zingari in cerca di elemosina. Guardo l’orologio, segna le nove del mattino. Sono solo passanti. Nessuno di loro ha parlato con me.

    Fai finta di niente… Riprendi a camminare, ribatte la voce misteriosa .

    Chiudi il giornale, replica la voce. Guardo il colletto bianco sorridente e la voce sembra proprio la sua.

    Sei tu a parlare, penso fra me e me.

    Nessuna risposta. Chiudo il giornale, lo attorciglio fra le mani, butto via la sigaretta e riprendo a camminare come se non fosse successo nulla. Nessuno ha parlato, ripenso, eppure quella voce era chiara e distinta. Accelero il passo con fare sornione.

    Noi siamo la tua assicurazione, riprende la voce mentre cammino. Mi fermo.

    Chi è? Chi ha parlato? Non ha parlato nessuno, penso fra me e me.

    Tu sei Nessuno, riprende la voce.

    All’improvviso mi viene in mente l’articolo: l’attentato. Immagino che questa voce creda che sia stato io a sparare al direttore, penso.

    Nessuno è stato, insiste la voce da fuori e da dentro la mia testa, leggendomi il pensiero.

    Sbirri, è la prima cosa che mi salta in mente.

    Immagino che stanotte mi abbiano inserito di nascosto, mentre dormivo, un chip in testa. Infami, è la prima idea che mi viene in mente. La seconda idea è che il fatto sarebbe illegale, sarebbe contro i diritti dell’uomo sanciti dalla Costituzione. Mi tocco il capo, ma non c’è buco che tenga. Spingo fra i capelli per sentire un solco , ma è tutto in ordine.

    Il carcere è il regno del tutto è possibile. Penso alle guardie comandate dall’ispettore Vocedomini. Vogliono controllare i miei spostamenti, sorvegliare le persone che frequento essendo io anche un prigioniero in regime di semilibertà - dentro per un omicidio commesso nel 2000 alle porte di Milano. Oggi, come ogni giorno, esco dal carcere alle sette del mattino, alle otto sono nel mio appartamento in via Barbaroux 41, bevo un caffè sulla poltrona di pelle del mio monolocale, esco per andare a lavorare all’università. A mezzanotte rientro nel carcere Lorusso e Cutugno, faccio dentro\fuori ormai da due anni.

    Cosa vogliono da me gli sbirri? Non è che sono i servizi segreti…

    Noi vogliamo aiutarti, sostiene la voce.

    Ma noi, chi?, penso. Volete aiutarmi, perché?, dico direttamente per la prima volta alla voce. Ripenso all’articolo.

    Io non c’entro nulla con l’attentato. Non sono stato io. Non posso essere stato io. Ieri sera ho dormito in carcere.

    Abbiamo realizzato il tuo sogno, ripete la voce maschile, sconosciuta.

    Ma quale sogno?, penso irritato. Io non conosco il direttore del giornale, non so dove abita e non so nemmeno perché avrei dovuto sparargli. Immagino che questi sbirri vogliano trovare un pretesto, anche inventato, per chiudermi ancora dietro le sbarre dopo otto anni di prigione fatti in pietra, chiuso notte e giorno. Soltanto perché gli sono antipatico. Noi prigionieri che studiamo stiamo sul cazzo alle guardie. Ci considerano dei privilegiati rispetto agli altri detenuti: cella singola, computer in cella, professori che ci vengono a fare lezione, e tanti volontari, compresi i ragazzi del servizio civile. Non nutrono il benché minimo riguardo nei confronti dell’articolo 27 della Costituzione italiana, sancito per difendere la rieducazione del condannato come uno degli effetti cardine della pena. Per non citare il diritto allo studio in carcere, che li trova profondamente impreparati.

    Hai fatto bene, sostiene la voce.

    Hai fatto bene cosa?

    Aveva detto che i brigatisti non si vedono più in giro!, mi risponde la voce con logica e razionalità, con tono scherzoso.

    Chi aveva detto?, penso.

    Il direttore, ribatte ridendo nella mia testa.

    Non ho capito ancora chi sei, chi siete, ma se è uno scherzo, vaffanculo, penso io.

    Sei stato bravo. Nessuno è stato. Noi ti vogliamo aiutare. Noi siamo la tua assicurazione.

    E come avrei fatto?, ribatto io spazientito.

    Facebook, riprende la voce dopo qualche minuto.

    Vaffanculo, dico stringendo i denti, come se mi rivolgessi a una persona in carne e ossa.

    Faccio strade diverse dal solito per raggiungere il dipartimento, per impedire che qualcuno mi segua. Entro, saluto gli altri, l’usciere, i professori nei paraggi. Mi metto al pc a studiare nella sala dottorandi. Leggo un libro della Gilmann, La terra delle donne , la prima utopia femminista nell’età contemporanea, scritta nel 1915, per l’esattezza. La tentazione è tanta, ritornare sul mio profilo Facebook per capire cosa avrei combinato il giorno prima, anche involontariamente. Ma mi dispiace, rischio troppo. Se quel tipo fa sul serio e parla nei miei pensieri, mi sorveglia anche il pc e spia il mio profilo Facebook. È meglio stare alla larga. Il rischio è altissimo. Se non sto delirando, se le voci raccontano la verità, allora sono colpevole di qualcosa definito dalla legge come reato, nella fattispecie un attentato… Sì, un reato! La fattispecie significa ancora il carcere.

    Significa non rivedere più la mia Chiara, la mia ragazza. Dottoranda in sociologia del diritto al dipartimento di giurisprudenza. Ha un anno meno di me, e si è fatta tanta esperienza sulle spalle, quasi come un prigioniero.

    Chiara e io ci siamo conosciuti in prigione, e appena ci siamo incrociati è nato qualcosa che non si può descrivere a parole. Entrava e usciva dal carcere oltrepassando i quattordici cancelli che la macchina della tirannia si era inventata, per varcare la soglia della sezione quinta del blocco B, sede del Polo Universitario. Ci portava i libri, le comunicazioni dei professori, la sua femminilità. Almeno a me. Con cui condividevo tre ore ogni due giorni, per un totale di nove ore alla settimana, trentasei ore al mese di complicità e di affetto, per otto anni. Dove per regolamento la pena prevede solo sei ore al mese di colloqui familiari nella sala colloqui, dieci minuti alla settimana di telefonata.

    Chiara entrava proprio al Polo Universitario, nell’alveo della prigione, con i ragazzi del servizio civile: mentre questi ultimi si occupavano degli altri studenti, Chiara si prendeva cura di me.

    Aveva fatto una tesi in sociologia della devianza sul Polo Universitario e mi raccontava spesso la storia della nostra sezione, aggiungendo pezzo dopo pezzo alla sua storia. Era nata nel periodo in cui prigionieri politici, uomini e donne, mai dissociati, reduci della lotta armata degli anni ‘70-80, avevano incominciato a difendere il diritto allo studio in carcere, sensibilizzando il tema con le autorità costituite per la firma di un protocollo d’intesa fra carcere, magistratura, università. Era il 1998. Oggi Chiara e io viviamo insieme in via Barbaroux 41 da circa due anni, tranne la notte. Di giorno lavoriamo nei rispettivi dipartimenti, ma prima ci vediamo a casa nostra, alle otto di ogni mattina, facciamo l’amore. Poi c’incontriamo di sfuggita a pranzo nella mensa degli studenti e ritorniamo insieme dalle cinque del pomeriggio in poi, fino al mio rientro. Chiara mi accompagna in auto fino al cancello d’ingresso della prigione, ogni sera.

    Non riesco a curare la mia attenzione sulle parole della Gilmann, ma m’impedisco di consultare Facebook. Almeno fino a quando, rientrato a casa, mentre Chiara lava i piatti della cena, sono nuovamente davanti al pc. Non so chi disse: Male non fare paura non avere, ma è lo stato d’animo che ho stasera.

    Mi accendo una Marlboro Gold fatta su col tabacco e cartina, sbuffo davanti al cursore, e tempo zero chiedo a Chiara se ha letto i giornali di oggi.

    No amore, non li ho letti. Mi sorride mentre asciuga la pentola appena lavata. La televisione è spenta, l’acqua del rubinetto sgorgante fende l’assoluto silenzio.

    Perché, è successo qualcosa?, chiede prendendomi la sigaretta dalle mani.

    No, nulla d’importante, a parte le Nuove Brigate Rosse che hanno tentato di uccidere il direttore di un giornale. Guarda, leggi qui, le dico tirando fuori dalla borsa il giornale accartocciato.

    Secondo me è una fake news, dice lei.

    Anch’io non ci credo.

    L’avrà inventato lui per attirare l’attenzione. Come fanno a sapere che sono le Nuove Brigate Rosse se l’azione non è stata rivendicata da nessuno.

    Infatti, annuisco rollando su un’altra Marlboro Gold.

    Chiara ha questo misterioso potere di rassicurarmi in ogni cosa, anche la più delirante. Avrei potuto confessarmi, dirle della voce che ho sentito in testa, ma decido di no: si potrebbe spaventare, mi potrebbe prendere per matto.

    Guardiamo in rete altri articoli di giornale per capire come sono andate le cose, le dico. Chiara non mi dice mai di no.

    Hai visto, ognuno racconta una versione diversa: per Cronaca di Torino non si tratta neppure delle Nuove Brigate Rosse, non c’è stata nessuna rivendicazione a conferma dell’attentato. Hai notato? È come ti dicevo io. Scusa un attimo, vado in bagno, mi dice.

    Apro per curiosità la pagina Facebook, faccio login e mi compare la sezione home, dove sono elencati i post di tutti gli amici virtuali, e degli amici degli amici, ne conto più di cinquecento. Sono le vecchie conoscenze dell’oratorio del paese che non frequento da più di vent’anni, gli amici della squadra di calcio della Caratese e i compagni di scuola dell’Itis; gli amici per cui avevo aperto il profilo Facebook e che ritrovo virtualmente dopo anni di prigione e di lontananza. E poi ci sono i nuovi amici virtuali, gli amici studenti dell’università appena conosciuti, i ragazzi della scuola Holden dove lavoravo come bibliotecario appena uscito dal cercare in articolo 21, gli amici dottorandi, gli amici ricercatori, gli amici professori, gli amici con cui non avevo mai parlato direttamente e gli amici per la maggior parte mai conosciuti di persona. Una vera catena di amici virtuali, profilati.

    Nella home mi accorgo di un post, il primo in lista dall’alto verso il basso. Un amico virtuale mai visto e mai conosciuto consigliava a tutti la visione di un film uscito nel 2006 con tanto di location, un film di Soavi, con Raoul Bova, dal titolo Attacco allo Stato: si narrava la storia vera di Desdemona Lioce e delle Nuove Brigate Rosse. Aveva ricevuto più di cento mi piace. Sotto, in linea verticale c’era il post della scena finale del film Braveheart, quando il protagonista Wallace pur di non rinunciare a rivendicare le sue idee si faceva torturare dagli oppressori al grido della parola libertà. Il film aveva ricevuto qualche mi piace, soprattutto da alcuni miei contatti virtuali più stretti, perché quel post l’avevo pubblicato io. Non solo, avevo commentato sotto il post del film la frase: Oggi voglio farmi scomunicare. La risposta di una sconosciuta virtuale sotto il mio commento è stata: Lo sarai. Spiccava il mio commento di risposta: Un’altra volta ?. Si faceva così per ironizzare. Spengo il pc, spengo la sigaretta nel posacenere. Un dubbio mi assale: cosa c’entro io con l’attentato? In quel momento il compressore del frigorifero accanto a me si aziona, emette un rumore sordo ma penetrante, come se avesse letto il mio pensiero. Mi fa spaventare.

    No, mi dico, non può essere. Mi siedo sulla poltrona a riflettere.

    Nessuno può spiarmi e leggere i miei pensieri.

    Andiamo, è tardi, mi dice Chiara uscendo dal bagno già pronta, con un tono diverso, con un registro che aveva cancellato la parola amore nei miei confronti. Non mi guarda negli occhi, e di spalle si dirige velocemente verso la porta d’uscita. In macchina ascolta solo la voce della radio sintonizzata su Radio Blackout.

    16-17 dicembre 2010

    Sono trascorsi due mesi all’incirca dal presunto attentato al direttore del giornale. E Torino, tutta la gente di Torino e Chiara stessa sono mutati radicalmente nei miei confronti. Sono diventati miei complici. Io sono quello di sempre, non sono cambiato. Tutti sono a conoscenza di un segreto, ma nessuno dice nulla. La voce del sedicente Assicuratore non l’ho più sentita.

    È il 16 dicembre.

    Esco dal carcere alle sette del mattino, prendo il 29 fino al capolinea, piazza Solferino, centro della città. Cinque minuti a piedi dal mio appartamento in via Barbaroux 41. Come ogni mattina l’autobus Gtt attraversa il quartiere Le Vallette, carica i passanti: sconosciuti che col tempo hanno assunto un’aria familiare. Si accomodano e tirano fuori dalla tasca lo smartphone con il quale distraggono la loro attenzione per il resto del viaggio. Hanno ogni età, dal bimbo alla madre, dal colletto bianco al signor anziano. Non parlano fra di loro, ma comunicano a centinaia di chilometri di distanza, senza salutare il compagno di viaggio, senza escludere che siano amici virtuali e che si scambino parole virtuali su Facebook o su WhatsApp, su Twitter o su Gmail. Tanto è tutto gratis, il mondo della proprietà privata non esiste in internet. Ma se nel mondo virtuale è tutto gratis, come fanno le imprese proprietarie dei servizi gratuiti a risultare materialmente società di lucro, ed essere al vertice dei guadagni e dei fatturati mondiali? Mi chiedo altresì dove sono stati prodotti quegli oggetti policromatici dalla telecamera intelligente? E chi li ha prodotti? Non le multinazionali, che li vendono nei loro store, Apple, Huawei, Samsung, eccetera, ma chi li ha realizzati fisicamente? Mi chiedo se c’è stato ricorso al lavoro forzato dei bambini in Congo, in Cina? E quali rischi comportano le contaminazioni dei rifiuti elettronici statunitensi ed europei accumulati in depositi del Pakistan, del Vietnam, ancora della Cina? E poi quanti lavoratori contaminati dal cadmio, dal nichel, dal mercurio, dalle sostanze necessarie per produrre smartphone, muoiono in seguito a tumore? O quanti altri si suicidano, perché non reggono le ore di sfruttamento e il ritmo intensivo al servizio della macchina?

    Sulla corsa ritmica del 29 verso il centro, estraggo il taccuino rosso dalla tasca e riempio la pagina del mio diario con le osservazioni ricavate. I passeggeri sono animati da falsa indifferenza, si accorgono di me fingendo di nulla. Non ho scritto in faccia Sono un prigioniero, anche perché se ci fosse scritto non mi ammiccherebbero con lo sguardo così come fanno in sordina, con quella

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