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Il Masai bianco
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Il Masai bianco

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About this ebook

Martin, Direttore delle Operazioni per una multinazionale, è sul punto di chiudere un affare milionario con il Governo della Tanzania. Continue coincidenze lo portano in un mondo diverso dal suo, nel quale si trova faccia a faccia con le maschere che per anni ha indossato per proteggersi dalle sue paure, ma che inevitabilmente gli hanno impedito di vivere. A fargli da specchio sono le persone di quel mondo, tra cui un medico che promette di rivelargli il segreto della felicità.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMay 29, 2019
ISBN9788831622615
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    Il Masai bianco - Matteo Transtevere

    Giulia.

    INTRODUZIONE DELL’AUTORE

    Caro lettore,

    la storia che stai per leggere propone idee antiche ma che, ancora oggi, sono piuttosto estranee alla nostra cultura. Riguardano le Leggi che muovono il mondo e i meccanismi nascosti dietro i nostri pensieri più intimi. Non ti dico di credere a quelle idee, anzi ti prego di non farlo, giacché credere a qualcosa non ti farà scoprire niente.

    Ciò che, invece, ti invito a fare è di accompagnare i protagonisti nelle loro vicissitudini, di porre a te stesso quelle stesse domande che questa storia mette sui loro cammini e di cercare le risposte dentro di te per scoprire in prima persona la tua verità su quelle idee. E, non essendo affatto un’indagine semplice, ti ringrazio fin da ora per il coraggio che vorrai avere.

    Infine, tengo a precisare che, sebbene parli di persone, civiltà e costumi potenzialmente reali, Il Masai bianco non ha alcun valore scientifico né antropologico. Le vicende narrate sono, in gran parte, frutto della fantasia di chi l’ha scritto. Pertanto, tali vicende non intendono fissare alcun parametro scientifico né tantomeno morale.

    Buona lettura.

    Matteo Transtevere

    Ho finito di lavorare.

    Oggi si direbbe ‘freelance’. Faccio parte di quella categoria di lavoratori che non possiedono un contratto fisso, non hanno la loro base in un ufficio permanente e non dipendono da un datore di lavoro. Scelgo io i miei clienti e decido io quando lavorare e che incarichi prendere. Ci sono lavori che durano più a lungo e altri che finiscono in fretta, alcuni più intensi e altri che procedono con ritmo più rilassato, ma non per questo meno interessanti.

    Tra un incarico e l’altro, mi piace venire a sdraiarmi sotto i rami di questo albero maestoso. Le sue chiome frondose proiettano una grossa ombra e allo stesso tempo filtrano i raggi del sole, concedendo il passaggio solo ad una tenue e tiepida luce. Quando il vento fa danzare le sue foglie, esse sprigionano nell’aria un profumo di natura viva che mi inebria.

    Sto aspettando un amico. Ci siamo dati appuntamento qui. Prima o poi tornerò a lavoro, ma per ora mi godo il riposo e lo splendido paesaggio. Sono circondato da un’enorme distesa di prato verde, costellata di piccoli fiori di colore chiaro - sfumature di bianco o giallo - che sono difficili da scorgere singolarmente, ma che, cantando in coro, donano a tutto il prato una luce brillante.

    A sinistra lo sguardo raggiunge indisturbato l’orizzonte, bello e misterioso, e impreziosito dal volo di uccelli migratori. Sul lato destro, in fondo, domina la foresta. Un bosco senza fine che deve apparire come un prato agli occhi dei giganti.

    Le nuvole giocano in cielo. Non saprei dire a che gioco stiano giocando, ma si direbbe proprio che si stiano divertendo. Si rincorrono, si nascondono, alcune scompaiono prima di riapparire da qualche altra parte.

    Mi godo il riposo. Prima o poi tornerò a lavoro.

    UN’AVVENTURA INOPPORTUNA

    Era in attesa da più di un’ora, ma da quelle parti era normale. Il Ministro non era ancora arrivato. Quando gli dissero di entrare fece un grosso respiro, si sistemò il nodo della cravatta, prese la borsa con tutti i documenti e si alzò in piedi. Guardò il mondo com’era. Se la riunione fosse andata bene, quel mondo non sarebbe più stato lo stesso. L’autista era fuori ad aspettarlo. In quei mesi aveva sentito molto parlare di quel progetto e anche lui forse era in apprensione. Tante altre volte negli anni precedenti Martin era riuscito a raggiungere accordi con i Governi, ma mai per progetti di una così grossa portata. Uscì da quella stanza dopo quasi due ore. Disse al suo autista che avrebbe camminato un po’ a piedi. Percorse alcuni isolati del centro della città, poi si fermò a bere un caffè. Si sedette ad un tavolino all’aperto. Allentò il nodo della cravatta, accese una sigaretta e lasciò che il sole giungesse a fargli compagnia. Aveva il telefono poggiato sul tavolo davanti a sé. La tentazione era forte, ma non avvisò nessuno. Mentre in ufficio erano ancora tutti in attesa del risultato, lui voleva godersi quei momenti in cui era l’unico a conoscerlo. Quando non poté più contenere la gioia, chiuse gli occhi e, in silenzio, lo rivelò al sole.

    Passarono alcune settimane da quando aveva ricevuto l’ok del Ministro. Dopo quella riunione aveva trascorso intere giornate a sistemare carte e documenti, e poi aveva chiesto un fine settimana libero che gli era stato concesso. Ne stava approfittando per passare due giorni fuori città, lontano dagli assilli del lavoro. Mancavano meno di dieci giorni all’ultima riunione che sapeva avrebbe cambiato la sua vita. Avrebbe, infatti, rincontrato il Ministro a fine mese per firmare l’accordo definitivo.

    Quella mattina il sole si alzava veloce e i suoi raggi si riflettevano sulla sabbia che diventava così di un bianco accecante, costringendo Martin a procedere con gli occhi semi chiusi. Intorno a lui c’era silenzio, eppure si avvertiva il brusio di una vita vivace. Una vita che scorreva via senza calendario. Una vita senza stagioni che in quella terra lontana quasi non esistono, fatta eccezione per i pochi mesi in cui ogni anno cadono piogge battenti e nere nuvole oscurano il cielo.

    Il mare era calmo e cristallino. Piccole onde si infrangevano sul bagnasciuga generando un mormorio perpetuo che accentuava la sensazione del silenzio. L’acqua accarezzava la battigia e creava una passerella morbida e fresca sulla quale Martin camminava a piedi nudi. Con un dolce movimento il mare si allungava verso di lui come se stesse cercando di abbracciarlo. Nella parte più vicina alla riva l’acqua era così trasparente che le imbarcazioni lì ancorate sembravano dondolare nell’aria, come sospese ad un metro d’altezza sulla sabbia del fondale. Poco più distante, il colore dell’acqua diventava di un azzurro del quale ci si poteva innamorare, così come ci si innamora dell’azzurro degli occhi di una donna. La terza variazione di colore si scorgeva a qualche centinaio di metri dalla riva, là dove terminava la barriera corallina e la profondità del mare aumentava rapidamente tingendo l’acqua di un blu intenso.

    Un pescatore camminava fiero nella direzione opposta a quella di Martin. Stringeva nella sua mano nuda due polipi enormi ancora agonizzanti. Li avrebbe venduti al mercato del pesce che si svolgeva ogni mattina nell’antica piazza vicino al porto. In testa portava il kummah, tipico copricapo Omanita nonché uno dei tanti lasciti ancora visibili della colonizzazione dell’isola di Zanzibar da parte del sultanato arabo. La colonizzazione era finita da più di mezzo secolo, ma le tracce di quella cultura complessa e raffinata erano di fatto ancora presenti nei costumi, nei sapori e nella fede religiosa della gente locale. Perdendosi per le strette vie di Stone Town ci si poteva ancora imbattere in scorci, suoni e odori che erano sopravvissuti alla rivoluzione e che non erano stati sbiaditi dal passare del tempo.

    Proprio il giorno prima, la sera del venerdì, quando gli ultimi raggi del sole annunciavano il tramonto, dalla finestra del suo hotel situato alle spalle della strada principale, Martin aveva assistito ad una scena che a Zanzibar si ripeteva da secoli invariata. Dalla moschea di Malindi, l’imam aveva chiamato i fedeli alla preghiera del Maghreb. La sua voce lamentosa e sporcata dai cavi consumati della filodiffusione aveva viaggiato veloce e si era infilata come un vento tiepido tra i vicoli di Stone Town. Pescatori, madri, guardie e commercianti avevano sospeso le loro attività per offrire ad Allah le loro preghiere. Era stato come se l’intera città si fosse improvvisamente fermata. Solo due gatti avevano continuato a giocare irrispettosi mentre una pallida luna era sembrata, in un cielo ancora condiviso con il sole, sancire dall’alto la sacralità del momento.

    Quel venerdì Martin era salito a bordo di un piccolo aeroplano, di quelli che trasportano meno di venti persone, ed era sbarcato sull’isola di Zanzibar. Per mesi non si era fermato un attimo e ora poteva godere di un fine settimana di riposo in riva al mare.

    Aveva passato la notte tra bancarelle e musicisti di strada, e il giorno seguente camminava sulla spiaggia che a quell’ora del mattino era popolata solo da pochi gabbiani.

    Nonostante si stesse godendo la tranquilla passeggiata, da qualche parte nella sua mente fece capolino la tentazione di rendere quella giornata un po’ più eccitante. Era lontano dalla sua famiglia, dai colleghi e dagli amici, ovvero lontano dai saggi consigli di persone assennate e giudiziose che si materializzavano ogni volta che era pronto a tuffarsi in un’iniziativa bizzarra, e che spesso lo demoralizzavano a tal punto da farlo desistere. Era un’occasione da non lasciarsi sfuggire. Si trovava su una meravigliosa isola dell’Oceano Indiano, uno scenario perfetto per un’avventura da romanzo. Il mare, la natura, gli animali selvaggi e persone di una cultura diversa erano solo alcune delle tante attrazioni che avrebbe potuto sfruttare. Era come se il guardiano di un parco giochi fosse andato a dormire e gli avesse consegnato le chiavi, lasciandolo a sua completa disposizione. Sarebbe stato libero, per una volta, di compiere una piccola follia e nessuno avrebbe mai saputo né giudicato il suo comportamento stravagante.

    Zanzibar era un’isola piuttosto povera e poco modernizzata e, proprio per questo, conservava ancora il fascino di un posto selvaggio e inesplorato. Così Martin riprese a camminare sulla spiaggia, ma la sua passeggiata rilassante si era d’un tratto trasformata in una fervida caccia a un’impresa lecita ma inopportuna, ad una vicenda non proibita ma sconsigliata, ad una storia innocua eppure mai vissuta. Procedeva con passo determinato e occhi attenti per scorgere l’avventura che andava cercando e presto l’occasione si presentò. Su una delle imbarcazioni cullate dalle onde, due pescatori erano indaffarati a sbrigare gli ultimi preparativi prima di salpare per la loro giornata di lavoro.

    La barca era tutta in legno. Le tavole che componevano lo scafo erano mangiate dai tarli e presentavano alcune profonde fessure attraverso le quali penetrava l’acqua. Su ognuno dei due lati e parallele allo scafo vi erano fissate due lunghe assi, anch’esse di legno, che servivano a bilanciare l’imbarcazione, un po’ come le rotelle che si montano sulle biciclette dei bambini. I remi logori sporgevano dalla prua ed uno era visibilmente più corto dell’altro. Le corde di canapa che tenevano insieme le parti dell’imbarcazione erano corrose dalla salsedine e l’albero dell’unica vela non era altro che un tronco di eucalipto sottile e ricurvo conficcato nello scafo. Bastava una rapida occhiata per domandarsi come fosse possibile che quella barca riuscisse a stare a galla e per ritenere impossibile che potesse addirittura navigare.

    Martin ne fu sedotto. Quella paradossale imbarcazione, che con ottimismo avrebbe battezzato Titanic, aveva tutta l’aria di potergli regalare l’esperienza priva di buon senso che stava cercando. Inoltre, le nuvole scure e minacciose che si scorgevano sul mare in lontananza aggiungevano quel tocco di pericolosità necessario a promuovere una ‘contingenza interessante’ a categoria di ‘situazione ideale’. Non è che cercasse guai o reali pericoli, semplicemente aveva sempre subìto il fascino delle situazioni disperate perché erano quelle che più di ogni altra gli permettevano di usare l’ingegno. Inoltre, sapeva che, quando avrebbe passato in rassegna i momenti della sua vita, quelle esperienze sarebbero rimaste sempre come storie degne di essere raccontate. Pertanto, armato di un’insolita dose di sfacciataggine, decise di avvicinarsi ai due uomini e chiese loro di poter partecipare alla battuta di pesca.

    Quando era piccolo, Martin andava con la sua famiglia a trovare i cugini in un paesino sul mare a circa un’ora di viaggio da casa. Suo zio, un uomo dotato dell’insolito talento di essere contemporaneamente serio e simpatico, a volte lo portava a pescare con la sua barca di vetroresina. Era uno stimato avvocato, ma le domeniche d’estate vestiva i panni di un esperto uomo di mare e da lui Martin aveva ereditato la passione per la pesca nonché appreso alcuni dei suoi segreti.

    I pescatori con i quali in quel momento stava negoziando per guadagnarsi un’esperienza esotica, non erano avvocati in cerca di un diversivo che li distraesse dalla noia delle aule dei tribunali, ma piuttosto uomini la cui sopravvivenza era legata al mare quasi come quella di un bambino lo è al cordone ombelicale della madre. L’esito della loro giornata di lavoro determinava ogni giorno la quantità di cibo che avrebbero portato a casa per sfamare le loro famiglie. Ma questo a Martin in quel momento non interessava. Così, cercando di ricordare i trucchi imparati da piccolo, iniziò ad elencare le tecniche che conosceva e, ostentando competenza, enunciò le ragioni che portano alla scelta di determinati ami e piombi. Risultò probabilmente ridicolo agli occhi dei due uomini, ma quel patetico tentativo gli sembrava la miglior strategia per ottenere il lasciapassare. Provava a convincerli che non sarebbe stato un peso morto sulla barca, ma piuttosto un braccio in più col quale riempire il carrello della spesa. In realtà erano passati più di vent’anni dall’ultima volta che era stato a pesca con suo zio e i ricordi erano ormai offuscati e confusi. Inoltre, i pescatori locali dubitavano che lui, un uomo dalla pelle bianca, potesse avere una seppur minima conoscenza dei venti e delle correnti dell’Oceano Indiano.

    Quando stava per arrendersi all’idea che non sarebbe mai salito su quella barca, ricevette da loro una risposta che lo lasciò sorpreso e soddisfatto. La sua negoziazione aveva funzionato. Lo avrebbero fatto andare con loro. Pensò che fu determinante aver detto che potevano tenere tutto il pesce che avrebbe pescato. Ma forse lo fu ancor di più il fatto che, alla fine, giocando la sua ultima carta, aveva offerto loro dei soldi. Salparono.

    Il più giovane dei due uomini si posizionò a prua e rimase in piedi con lo sguardo rivolto verso il largo per studiare la rotta da seguire. L’altro era seduto a poppa e governava sapientemente il grosso timone: di legno. La barca era larga giusto il necessario perché una persona ci si potesse sedere. Quando i due uomini iniziarono a spiegare la vela rimediata cucendo insieme sacchi di tela iuta, Martin avvertì un improvviso senso di colpa. Si era finalmente reso conto che si trattava di uomini poveri che provavano a contrastare la fame con i pochi mezzi di cui disponevano. E lui li aveva ingannati con il solo scopo di togliersi un capriccio. Annoiato dalla sua comoda vita da occidentale, aveva comprato per pochi soldi un’escursione nel mondo dei poveri, consapevole che lui ne sarebbe uscito.

    Al terzo lancio il pescatore di poppa aveva tirato su la prima preda della giornata, un pesce colorato e bellissimo. Questa cattura, avvenuta dopo pochi minuti, li fece ben sperare per l’esito della giornata ma, dopo quasi due ore sotto al sole, la prima preda restava anche l’unica. Il caldo penetrava i berretti di stoffa e paglia e, di tutta l’acqua che li circondava, riuscivano a sentire solo il secco sapore del sale. Col passare del tempo il senso di colpa di Martin continuava a crescere. Fortunatamente per tutti le cose cambiarono e alla fine la battuta di pesca andò bene. In poco più di tre ore il secchio era stato riempito di pesci e dovettero usare la sacca dove Martin aveva avvolto le sue scarpe per metterne degli altri. Tornarono a terra orgogliosi di quanto avevano fatto. L’umore della ciurma era alto e Saidi, il più anziano dei due, volle ripagare con un invito a pranzo il lavoro di Martin che non rifiutò. Cinque pesci furano arrostiti su una griglia sporca di ruggine. La loro pelle a strisce gialle e blu, che al sole brillava luccicante, ora appariva scurita dal calore della brace. Seduti a terra, davanti all’ingresso della loro modesta casa, Saidi, sua moglie e i loro quattro bambini dividevano il pasto con uno sconosciuto. Tutti mangiavano pesce appena pescato alternando il sapore della tenera carne bianca con pugni di riso che prendevano da un pentolone di ferro nero adagiato al centro. Finito il pranzo, Martin ringraziò e riprese il cammino.

    Il sole era alto e i raggi creavano un marcato effetto di chiaroscuro nelle orme che i suoi passi pesanti lasciavano nella sabbia. Il paesaggio attorno a lui era incantevole, ma non riusciva ad apprezzarlo. Nella sua mente scorrevano, infatti, ancora le immagini dell’esperienza appena vissuta. Al riparo da influenze scoraggianti e commenti disfattisti, era riuscito a fare una cosa che gli piaceva, andare a pesca, anche in un luogo sconosciuto, in compagnia di gente estranea e a bordo di un’imbarcazione che dava i brividi. Ora, felice e soddisfatto, poteva riposare.

    Dietro una barca tirata in secca e probabilmente in attesa di essere ridotta in legna da ardere, intravide due gradini sui quali un albero dalle larghe foglie scure gettava la sua ombra. Quei gradini gli offrivano una posizione leggermente rialzata dalla quale poteva avere una visione ampia e chiara della spiaggia, che piano piano si andava riempiendo di turisti. Decise di sedersi, e si mise ad osservare la gente rilassarsi e giocare in quel frammento superstite di paradiso terrestre. Vide un omone adulto e dai marcati caratteri nordeuropei giocare con un bambino probabilmente indiano ad un gioco improvvisato di cui nessuno dei due pareva aver capito le regole. Una scena un po’ insolita e che in un altro contesto sarebbe potuta sembrare persino paradossale, ma nessuno sulla spiaggia sembrava farsene un problema ed entrambi i protagonisti apparivano chiaramente divertiti. Poco distante, una giovane ragazza stonava le canzoni che provava a suonare con la sua chitarra, non curante del giudizio che avrebbero potuto esprimere le persone sdraiate vicino a lei. E loro, in risposta, non davano importanza alle note sbagliate, ma si dimostravano piacevolmente intrattenute dal sincero tentativo della ragazza. Così come lui aveva fatto poco prima con i due pescatori, anche quelle persone si sentivano libere di interagire con perfetti sconosciuti e di comportarsi semplicemente seguendo ciò che sentivano di fare, senza temere possibili commenti di condanna.

    Alla vista di quelle scene Martin non riuscì a trattenere una smorfia di disapprovazione mista ad amarezza. Pensò che certe manifestazioni di libertà ab-soluta che sembravano normali quel giorno sulla spiaggia, erano diventate merce rara nel suo mondo moderno. Si domandò se loro, gli occidentali, che amavano considerarsi esperti del buon vivere, stessero in realtà trascorrendo la loro esistenza in uno stato costante di libertà vigilata - dove a vigilare era il loro stesso senso della morale - e se fosse ormai diventato necessario trovarsi in un luogo semideserto e lontano da occhi giudicanti per essere spontanei e per compiere azioni che vengono dal cuore.

    Superata l’ora del pranzo, la spiaggia era diventata un posto vivo e rumoroso. Passando in rassegna i volti allegri della folla che ormai popolava quel luogo, qualcosa in lontananza catturò lo sguardo di Martin. I suoi occhi si socchiusero e sulla fronte gli apparvero poche rughe, tipici sintomi di chi cerca di focalizzare lo sguardo su un obiettivo distante. Per un attimo si sentì come ci si sente quando si avvistano i delfini in mezzo al mare o come quando, passeggiando nel bosco, si scorgono grossi funghi nascosti tra le foglie. Un gruppetto di ragazzi aveva calamitato la sua attenzione e non riusciva a distogliere lo sguardo da loro. Apparivano diversi da tutte le altre persone presenti sulla spiaggia, ma allo stesso tempo in perfetta sintonia con loro. Erano vestiti con lunghe tonache color rosso porpora, portavano alte cavigliere di metallo e indossavano una quantità spropositata di rumorosi monili. Unici e inconfondibili nel loro aspetto, la loro gioia li mimetizzava con la gioia dei turisti.

    Per Martin i Masai erano come figure mitologiche. Creature da romanzo che popolavano luoghi lontani, figure sacre rimaste uguali nel tempo; erano gli autentici e ultimi detentori della magia del continente africano. Quel sabato sulla spiaggia i Masai vendevano ai turisti oggetti tipici della loro cultura: bracciali avvolgenti, lunghi orecchini e collane abilmente realizzate infilando in sottili fili di nailon perline colorate e pietre luccicanti.

    Mentre guardava con ammirazione e un pizzico di invidia la loro silhouette longilinea, Martin si domandò perché, dopo centinaia di anni vissuti da padroni della savana, un popolo con una cultura così forte avesse deciso di abbandonare le sue tipiche attività per mettersi a vendere monili ai turisti. Non riusciva a capirne la motivazione, ma lo atterriva l’idea di star osservando in prima persona un fenomeno che, se non fermato in tempo, poteva diventare irreversibile, e che avrebbe potuto portare alla completa sparizione di quella antica civiltà. Si sentì testimone di ciò che temeva essere il principio della fine, il primo passo verso il declino della tribù dei Masai. I suoi occhi osservavano il tramonto di una cultura unica e meravigliosa. Era un po’ come assistere agli ultimi anni di vita dell’antico Egitto, l’atto finale di uno spettacolo millenario: le luci sulle piramidi si spengono mentre inesorabile cala il sipario.

    Guardava i Masai negoziare con i muzungu (termine Swahili che identificava tutte le persone dal viso bianco) e gli tornarono in mente scene alle quali aveva assistito in altre parti del mondo dove era stato a lavorare. Immagini diverse, ma che annunciavano lo stesso pericolo. Il pericolo di una fine pronta a sopraggiungere, un po’ come fossero le spie rosse di un dispositivo elettronico. Ripensò ad una famiglia di origine Quechua che aveva incontrato quando era di base in Ecuador. Nonostante un primo sguardo distratto facesse supporre che tutti mantenessero ancora con orgoglio le loro tradizioni, un piccolo particolare gli aveva dimostrato di essere in errore. Quelle persone indossavano il tipico poncho usato dalle popolazioni andine, parlavano la lingua dei loro padri e bevevano tè di coca. Eppure il piccolo José, a dispetto dei suoi otto anni di età, maneggiava con destrezza uno smartphone. Gli tornò anche in mente il signor Elgberdorj, conosciuto tre anni prima, e la sua tenda che si ergeva isolata e coraggiosa nelle gelide steppe della Mongolia. La sua antica identità mongola, eredità di uno storico passato fatto di valorosi guerrieri e nomadi sapienti, era tradita dal forno a microonde con il quale la moglie scaldava una zuppa di noodles preconfezionata. Aveva visto anche in quelle occasioni come usanze e tecniche che si erano sviluppate e tramandate nel corso dei secoli stessero abdicando in favore di pratiche standardizzate che provenivano dal mondo occidentale. Sapeva coscientemente di non essere contrario al progresso ed era convinto che prodotti tecnologici, caratterizzanti

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