Parole invisibili
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Parole invisibili - Stefano Carnicelli
sogno...
ISTRUZIONI PER L’USO
Non è facile parlare di autismo. Lo è ancor meno quando i contenuti sono inseriti all’interno di un componimento narrativo. Parole invisibili è un romanzo che vuole dare risalto a un mondo troppo spesso ignorato dalla collettività. L’autismo non si cura con gli antidepressivi o con i calmanti e non può essere affrontato isolando il problema o fingendo di non vederlo. È un disagio, non una malattia, che va ricondotto in quelli che sono gli aspetti comportamentali da correggere, per far sì che un bambino autistico, oggi, possa essere l’adulto (non invisibile) di domani.
Per questi motivi, la narrazione che vi attende, in molti punti, è il risultato di un’osservazione reale aderente alla verità, acquisita anche a presa diretta dall’esperienza vissuta dai protagonisti. In altre parti del romanzo, invece, il racconto segue slanci di fantasia che si rendono necessari nel contesto narrativo proposto.
D’altro canto, non sono proprio la fantasia e i sogni a rendere bella (e non scontata) l’esistenza dell’uomo? Credo proprio di sì.
A Voi, cari lettori, il benvenuto a bordo delle mie parole invisibili...
Stefano Carnicelli
1. Lorenza
Sono davanti allo specchio e parlo, con me, nell’intimità che vivo. Quante volte mi sono trovata di fronte a me stessa a cercare, invano, certezze e risposte. Quante volte, delusa, ho abbandonato il campo perché la mia anima non sapeva rispondere. Oggi sono di nuovo qui; serena e muta a catturare le parole di uno sguardo che punta dritto nel profondo dei miei occhi affamati di verità. Mi vedo bella e brutta, giovane e vecchia, allegra e triste. Sono tutto e niente, bene e male, vita e morte. Occupo spazi infinitamente piccoli, quasi impercettibili all’umano sentire, ma poi dilato il mio essere fino a conquistare cieli immensi, senza confini; oltre lo spazio, oltre la vita che si crea, dentro me, per riprodursi e tramandarsi.
Ho quaranta anni: qualcuno direbbe un’intera esistenza. Invece possono essere lo spazio temporale di un niente se in questo lasso di tempo, apparentemente grande, non hai avuto modo di vivere e di rivivere un’essenza nuova che nasce da te perché è parte, appunto, di te. Ho studiato sempre, in ogni momento della mia vita, fino a conseguire una laurea che ho appeso nella cameretta della casa dei miei genitori. Non posso rinnegare il mio passato. È stato un bel tempo in cui non mi è mancato nulla tranne l’amore; quello vero.
In effetti, il mio cuore non ha mai registrato quelle accelerazioni tipiche delle emozioni che sconvolgono l’ordinaria marcia cardiaca. Il cuore è un organo molto semplice che ha un suo passo lento e costante; inesorabilmente, con fare ripetitivo, con grande coraggio, avanza nel tempo senza soste né interruzioni. Il cuore percorre un’intera vita fino al punto esatto in cui decide di fermare la sua corsa. Il cuore sussulta, batte forte, vive una bella e sana irregolarità quando si accende per un’emozione, per un nobile sentimento che, da sempre, chiamiamo amore.
In età adulta, superata la trentina, ho capito che non c’era spazio per l’amore. Non avendolo ancora vissuto, lo ritenevo un sentimento per ragazzine. Mi appariva falso e inesistente; come la storia di Babbo Natale o della Befana. Ma può esistere una vecchietta che gira su una scopa per i cieli? Assurdo! Come potrebbe volare? Come potrebbe reggersi? E un Babbo Natale, poi... A spasso per le immensità dei cieli con slitta e renne. Assurdo! E poi? Come potrebbero trasportare tutti i doni da regalare ai bambini? Quasi con cattiveria, come una forma di reazione per la mia triste sorte, le consideravo vere sciocchezze da conservare solo per darle in pasto a bambini creduloni.
Quando sei grande, non pensi al principe azzurro perché nel tuo immaginario il principe è giovane. Avrà sì e no ventitré anni; figuriamoci se pensa a una vecchia befana come me che ha già superato, da tempo, la trentina! Potrebbe guardare solo splendide ventenni senza cellulite, senza rughe, senza i primi segni che un tempo, severo e cattivo, ha già impresso al mio corpo, al mio volto non più verdi.
Mi sbagliavo! Piero aveva qualche anno più di me. Divenne amico prima di essere fidanzato, amante, compagno per la vita. In età adulta l’innamoramento non è un sogno che vivi nel cuore. Nel mio caso è stato un incontro di solitudini che ha aperto gli spazi delle nostre anime. È proprio così: crescendo si diventa soli. La solitudine come condizione umana al pari della vecchiaia o di qualsiasi altra fase della vita. Se penso agli amici e alle amiche che avevo perduto per strada, quasi senza motivo, rafforzo e consolido questo mio pensiero. Se sei sola, come lo ero io, come puoi pensare di frequentare persone della tua età ormai sposate e con prole? Si avvia una sorta di distacco naturale provocato da intenti non più comuni e condivisibili. L’amica del cuore con la quale parlavi di tutto, ora mostra interesse solo per i pannolini, il pianto notturno dell’ultimo nato, il colore della cacca dell’altro figlio... argomenti per te inesistenti per non dire impossibili.
Mi sono ritrovata sola senza aver discusso con nessuno dei miei amici. Sola per non aver commesso il fatto. Sola per non aver avuto un figlio. Sola perché ero sola! Piero era lì ad attendermi anche se lo ignoravo da tempo. Superata la trentina, non cercavo un uomo che fosse bello. Ero disillusa, non più avvezza al sogno di un amore per la vita. Più che altro cercavo comprensione, compagnia, sicurezza. Per uno strano gioco del destino, il mio cuore non voleva correre forse perché non aveva più la prontezza di un tempo ormai lontano e dimenticato. Era fuori allenamento, fuori dal gioco dell’amore; la lunga inattività gli aveva piegato le gambe.
Con Piero però volle mettersi in gioco e correre il rischio della sconfitta. Il mio cuore timoroso e quasi tremante avanzò lungo il sentiero dell’amore. Provò a correre ma il fiato era corto. Insicuro, volse lo sguardo intorno a sé nel tentativo di capire. Vide il mondo che avanzava inesorabilmente e consumava attimi di tempo che forse valeva la pena di vivere con la massima intensità. Sembrava un alpinista alle prese con una montagna da scalare; un massiccio con tante cime tra cui spiccava quella più alta. Era la meta da raggiungere. Partì dal basso. Sguardo a terra, avviò passi decisi e sicuri. Evitava di guardare in alto per scongiurare l’idea della resa. Non era più giovane e accusava il peso della stanchezza. Si resero necessarie alcune soste per respirare e per ritrovare uno sfuggente coraggio. Nella salita, smarrì la grinta dell’avvio mentre subiva l’inevitabile fatica. Batteva forte; molta strada era stata percorsa, tanta altra lo attendeva. Si trovava in una cima intermedia. Sorrise; il panorama era emozionante. Forse poteva anche bastare così senza aspirare alla vetta. Il mio cuore infine si arrese all’evidenza che non aveva più la forza e l’illusione della giovinezza. Comunque si era mosso e senza eccessi, si rese disponibile per un percorso a due.
Piero aveva una posizione, una casa, una bella macchina. Senza pretendere la luna, pur avanti negli anni, avrebbe assicurato un futuro dignitoso alla sua nuova famiglia. Ci sposammo perché era giusto così, perché eravamo soli, perché i sogni avevano lasciato spazio ad altre logiche, perché il mio cuore si era sottratto al piacere e alla quiete della solitudine. Ora eravamo in due. Consapevoli che il tempo della passione, della follia, non fosse più per noi, eravamo pronti a condividere un’esistenza di sostegno e affetto reciproci.
Inizialmente non pensai ai figli. Piero, ancor più di me, ignorava questo argomento o forse, egoisticamente, non lo sentiva suo. Non voleva avere figli. Forse la prolungata solitudine genera forme di eccessivo egoismo che allontanano e rendono assurda l’idea di avere un figlio? Oppure sfocia in un senso di colpa nel pensare di mettere al mondo un figlio in età avanzata? Si può essere genitori in età matura quando invece si dovrebbe essere quasi dei nonni?
Passò del tempo e nella nostra bella casa non riecheggiava il pianto di un bambino. Scese il silenzio con il suo carico di profonda tristezza e tetra solitudine. Se dovessi dare un colore alla solitudine, penserei al nero; un colore privo di riflessi, spunti, sussulti, sfumature. Un colore che può solo inghiottire... la mia anima era di nuovo sola. Ho vissuto momenti in cui l’anima e il corpo appartenevano a mondi diversi e tra loro estranei. Un vivere e non vivere contemporaneamente. I miei giorni divennero un susseguirsi di rabbia e gioia, odio e amore; speranza e disincanto di generare una nuova vita.
Viaggiammo molto da soli o con amici. Girammo il mondo per scoprire la vita che scorre oltre la nostra felice e detestabile penisola.
Il tempo avanzava, il nostro matrimonio funzionava al punto di pensare di avere un figlio. Io, più di Piero, ero convinta di questo passo e riuscii a convincerlo; i tempi erano maturi anche perché entrambi non avevamo più venti anni. Mi dedicai anima e corpo a questa nuova dimensione. La chiamavo dimensione mamma
e la sentivo come una nuova esperienza necessaria alla mia vita e al mio essere donna. Provammo per mesi e mesi inutilmente: quel maledetto ciclo sanciva che nessuna nuova vita era attecchita in me. Ci rivolgemmo a degli amici medici, specialisti, per cercare di risolvere il problema della mancata gravidanza. Fummo sottoposti a visite, analisi, controlli e molto altro ancora. Affrontammo cure e interventi disparati a cui non seguivano i risultati sperati.
Tuttavia, il desiderio di essere madre era così intenso da farmi superare ogni ostacolo, ogni invasione medica che il mio corpo subiva. Riuscii a resistere a questo continuo sentirmi spiata, denudata ed esposta al mondo. Il desiderio di maternità mi rendeva immobile e determinata.
Malgrado il mio ottimismo e convincimento, il tanto agognato risultato continuava a sfuggire. Eppure ci credevo... eccome se ci credevo! Mi guardavo allo specchio sognando che la mia pancia crescesse per contenere una nuova vita. Quando sogni e speri di essere madre, ti abitui a condividere la futura trasformazione del tuo corpo. Credo si tratti del sentimento emotivamente più bello e profondo. Credo che nessuna esperienza di vita risulti più appagante della maternità. Avevo già pensato ai colori da stendere sui muri della cameretta; lui o lei non avrebbe fatto differenza. Avrei scelto un colore neutro e caldo al tempo stesso. Avevo già pensato alla culla che avrebbe ospitato il corpicino nascente dal mio ventre. Avevo navigato, con la mente, in silenzio, tra nomi più belli da dare. Quando ero sola in casa, chiamavo timidamente e poi con crescente decisione, il nome di lui o di lei. Erano le prove tecniche per capire come suonava quel richiamo alle orecchie del mondo; un modo per scoprire la melodiosa armonia del nome. Avevo sfiorato spesso il mio seno pensandolo gonfio e pieno di traboccante nettare di vita. Avevo immaginato, a occhi chiusi, labbra volitive e ostinate capaci di assorbire, dai miei capezzoli turgidi, vita dalla vita. Avevo pensato e sognato tante cose e ora, come un colpo di spugna passato su uno strato di polvere, provvedevo a cancellare e accantonare ogni sogno.
Non mi persi d’animo. A piccoli passi, quasi in punta di piedi, come un sussulto proveniente dal silenzio, nella nostra vita entrò una nuova parola: adozione. Non fu facile abituarmi a questa nuova esperienza. In realtà mi sentii fallire di fronte al naturale riprodursi dell’esistenza umana. Dovetti accettare la sconfitta. Era come se, chiamata all’importante appuntamento della maternità, non fossi riuscita a giocare al meglio le mie carte. Mi ero sentita menomata, lesa nel mio sacrosanto diritto di essere madre. E in tutto questo trambusto esistenziale, la scienza aveva tradito le mie attese. Fortunatamente, trovai in Piero un alleato nell’affrontare questo nuovo evento.
Ebbi modo di scoprire, quasi con stupore, come l’adozione fosse uno degli istituti giuridici più antichi. E pensare che l’avevo sempre considerata come una sorta di moda dei tempi moderni. Optammo per l’adozione nazionale, intraprendendo un lungo e complesso cammino burocratico. Grazie al sostegno di un’associazione, scoprimmo i suoi meccanismi e ingranaggi, realizzando rapidamente gli innumerevoli rischi e risvolti di tale esperienza. Tuttavia non mi persi d’animo: decisa, affrontai ogni difficoltà e andai avanti... come un buon pilone che sfonda la mischia avversaria per puntare, dritto, alla meta.