Cola. Il sangue nel potere
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Cola. Il sangue nel potere - Franco Antonucci
lassù.
CAPITOLO 1
ALPI OTTOBRE 1310
Mai aveva patito tanto freddo e si chiedeva come potesse la sua truppa, con l'aggiunta di un solo mantello alla divisa di ordinanza, sopportarlo con tanta disinvoltura. Teneva celato, sotto il corpetto di ermellino, un mattone caldo che un po' mitigava, ma, da quando avevano lasciato il convento di San Gallo, il ghiaccio e la neve non avevano fatto altro che aumentare fino a Coira, nel cantone dei Grigioni, per poi diminuire man mano che si appropinquavano a Bellinzona. Non si erano ancora spenti gli echi della sua incoronazione a re di Germania che aveva dovuto subito affrontare la delicata questione di Enrico di Carinzia. La nobiltà Boema, esasperata da quel monarca, suo omonimo, l'aveva implorato in tutti i modi di intervenire. Aveva risolto il problema, imponendo a suo figlio Giovanni di sposare Elisabetta, la figlia di Venceslao II.
I classici due piccioni con una fava: da una parte aveva accontentato l'aristocrazia e dall'altra, a dispetto degli Asburgo, aveva legittimato le sue pretese alla corona boema. Dopo di che, era persino riuscito a convincere Leopoldo d'Asburgo ad accompagnarlo con le sue truppe in questa spedizione italiana. «Meta in vistaaaaaaaa». I suoi pensieri vennero interrotti dal capo carovana che annunciava a voce spiegata l'arrivo a Bellinzona. La neve, come si era aspettato, era diminuita ma il freddo no, perciò porse il mattone stiepidito al suo scudiero per farlo riscaldare.
D'altra parte era stato necessario intraprendere quest'impresa. Chi l'avrebbe mai detto? Stava per diventare Imperatore del Sacro Romano Impero ma, perché ciò si avverasse, doveva farsi incoronare a Roma e, se tutto questo a Filippo di Francia non bastava, avrebbe preso pure la corona ferrea di re d'Italia a Milano, si disse, mentre risalivano il promontorio roccioso posto a metà della valle del Ticino su cui ergeva maestoso il Castelgrande di San Michele, dove avrebbero pernottato.
CAPITOLO 2
VARESECOMOMILANO NOVEMBRE 1310
Il freddo anomalo di quella stagione rallentò di molto la spedizione. La breve distanza che li separava da Milano fu piena di intoppi: mai si erano visti in quelle zone, interi laghi ghiacciati di grandi dimensioni come quelli che avevano incontrato a Locarno e a Como. Arrivarono infine a Mediolanum che era quasi dicembre e già stavano fervendo i preparativi per il santo Natale e, per ricevere la corona ferrea che, a quanto pareva, nemmeno riuscivano a trovare, dovette pazientare fino alla Befana del 1311.
Finalmente adesso poteva rivolgersi alla pari con Filippo il Bello e la sua tracotante superbia. Nonostante egli si fosse dichiarato suo vassallo infatti si era dimostrato sempre piuttosto freddo e altezzoso nei suoi riguardi, forse perché, a dispetto del suo appellativo, non reggeva il confronto con l'aspetto veramente regale di Arrigo, suo malgrado letteralmente un vero e proprio tombeur de femmes. Proprio per questo, sua moglie Margherita di Brabante, lo seguiva sempre dappertutto... ma, più che per spirito d'amore, era per spirito di possesso, tipico di quelle mogli molto gelose, che non vogliono, spartire l'osso e affermare i propri diritti. Da buona madre, però, aveva risparmiato alle figlie Maria e Beatrice questo viaggio strapazzante, provvedendo a lasciarle a Corte, sole solette ma ben tutelate dalle governanti, essendo il fratello maggiore Giovanni ben al sicuro, ormai sposato in quel di Praga.
Prima di partire, Arrigo aveva avviato con Roberto d'Angiò delle trattative per ingraziarsi l'appoggio del re di Napoli, che era in predicato di essere designato come rappresentante politico dei Guelfi antiimperiali. A tale scopo, aveva pensato, anche qui, di dare sua figlia Beatrice in sposa a Carlo, Duca di Calabria e figlio di Roberto. Seppur all'inizio la cosa sembrava fatta, come gli aveva riferito il suo ambasciatore, adesso le pretese di Roberto erano cresciute a dismisura. Guarda caso, proprio da quando aveva incontrato Filippo il Bello. Ma chi se ne importa
pensò, mentre incontrava, l'ennesima manifestazione di giubilo di una gran folla speranzosa che acclamava il suo passaggio.
Arrigo settimo
CAPITOLO 3
PISA ANNO DOMINI 1311
Era partito da Arezzo per dirigersi a Pisa con tutta la famiglia. Portava con sé la moglie Eletta, il figlio Francesco e il piccolo Gherardo. A mezzo giorno, mentre sostavano nei pressi dello Spedale Nuovo di Santo Spirito, a sud della grande piazza, a ristorarsi con pane e cacio, Pietro riconobbe, giù in fondo, una figura familiare, a nord, proprio a ridosso delle mura del Campo Santo. «'Un vedi chi c'è!» disse ad Eletta che lo fissò incuriosita «'un ti ricordi? Durante di Alighiero! Il mio amico d'infanzia, codello che scrive e compone versi.»
«Dante!» chiamò ad alta voce agitando contemporaneamente le braccia in alto.
Lesta, la figura incappucciata si voltò e subito si mosse a passi lunghi per abbracciare il vecchio amico, ora notaro, Ser Petracco. Da autentici fiorentini, ritrovarsi stranieri in un'altra città, non fece altro che rinsaldare il loro legame un po' appannato dal tempo. Si scambiarono grosse pacche ricordando la loro infanzia «Ma che ci fai qui a Pisa, oh Dante? Non dirmi che anche tu sei qui per Arrigo» «Ma Certamente Ser Petracco! Di questi tempi sarebbe da scellerati non sostenere la hausa di Arrigo che finalmente hambierà qual cosa e ci potrà mahari far ritornare alla nostra amata Firenze» «Spero proprio che un grande uomo di lettere come te non si sbagli e pure io ci credo. Home vedi son venuto a Pisa hon tutta la famiglia per il tripudio». In quel momento entrambi, e tanti altri come loro, speravano che la venuta in Italia dell'Imperatore Arrigo VII potesse cambiare le cose.
Mentre la nave, in manovra, lentamente attraccava, Arrigo tutto impettito mirava orgoglioso la folla esultante accalcata sul molo di Pisa.
Ma sotto quell'apparenza, nascondeva due grosse ferite: la prima, l'inattesa dipartita, in quel di Genova, di Margherita che lo aveva lasciato, se non annichilito, perlomeno smarrito. In fin dei conti ci era affezionato e doveva riconoscere che, come regina consorte, era stata alquanto attiva ed efficace. La seconda era la rabbia che provava nei confronti di Roberto di Napoli che, dopo tante schermaglie, aveva rotto gli indugi e si era schierato apertamente coi guelfi mettendosi a capo di città come Firenze Siena Lucca e Perugia.
Quel giorno a Pisa, Francesco Petrarca, in mezzo alla folla aveva solo 7 anni. Ricorderà per sempre l'incontro con Dante del quale, aveva certamente sentito parlare e non solo dal padre. Ma Ser Petracco capì ben presto che il cambiamento sarebbe stato troppo difficile da effettuarsi. Da lì a poco infatti, rinunciò alla politica e decise di andare a lavorare come notaio ad Avignone in Francia, dove, già da un paio d'anni, Clemente V aveva trasferito la sede del papato.
CAPITOLO 4
ROMA 7 MAGGIO 1312
Ora che dopo tante traversie era arrivato finalmente a Roma, le cose, invece di sbrogliarsi, si erano ancor più ingarbugliate. Papa Clemente V gli aveva scritto raccomandandogli di cercare un accordo con Roberto d'Angiò, quell'arrivista. Come poteva accordarsi con uno che ogni mattina si alzava con una nuova pretesa? Addirittura ora era arrivato a chiedere, per suo figlio Carlo, la nomina di vicario imperiale di Toscana. Ma la cosa che più lo aveva fatto imbestialire, era la pretesa che egli dovesse partire da Roma entro quattro giorni dalla sua incoronazione. Ah si! Partire sarebbe partito, ma quando, e soprattutto per dove, lo avrebbe deciso lui. Aveva già una mezza idea di rivolgersi a Federico d'Aragona, re di Sicilia che sicuramente avrebbe apprezzato una sua proposta.
Come se non bastasse ora, appena varcato il ponte Milvio, la marcia della colonna imperiale s'era dovuta arrestare alla roccaforte di Castel Sant'Angelo. Gli Orsini si erano insediati lì per ostacolare la loro marcia: un'altra brutta gatta da pelare perché, nonostante il grande divario di forze, Gentile Orsini si era ben asserragliato con le sue milizie rinforzate dalle truppe angioine, ben deciso ad impedire il passo al futuro Imperatore.
Non avevano potuto fare altro che accamparsi sul lungotevere e mentre era tutto preso da queste preoccupazioni, un lembo della sua grande tenda si scostò e vi fece ingresso Kaspar, il suo fido luo gotenente.
«Sua Maestà, il cavalier romano Stefano Colonna chiede di essere ricevuto al vostro nobile cospetto».
«Uhm... Stefano Colonna: chi è costui?»
«Ho fatto già i dovuti controlli. Figlio di Giovanni di Oddone, una ventina d'anni fa ha governato la provincia di Romagna e, in seguito è stato eletto senatore di Roma. Uomo d'arme e valente capitano di ventura, è della famiglia dei Colonna, tra le più potenti di Roma, da sempre ghibellina, favorevole alla causa imperiale e padrona di tutta la zona circostante la cattedrale di San Giovanni in Laterano.»
«Bene. Che venga pure introdotto».
Vigoroso e d'imponente aspetto, il Colonna entrò trafelato, inginocchiandosi subito al cospetto di Arrigo. Attese, come dovuto, un cenno del re prima di prendere parola.
«Ringrazio vostra Maestà di avermi ricevuto. Sono costernato che quei fetenti degli Orsini stiano ostacolando i vostri piani. Sono venuto per mettermi al vostro servizio ed aiutarvi a venirne fuori».
«Non vedo proprio come. È impossibile aver ragione di questi sciagurati! Hanno scelto una postazione estremamente vantaggiosa; noi non possiamo usufruire della nostra superiorità giacché lo spazio di risalita è molto stretto, non possiamo effettuarlo in gran numero ma al massimo in fila per due e, ogni volta che ci abbiamo provato, siamo stati respinti con gravi perdite. Inoltre pare che il Papa non se la senta più di incoronarmi, mettendosi apertamente contro Filippo il Bello. Non so quale sia la soluzione che vogliate propormi ma attualmente non vedo altra via che ordinare una ritirata, peraltro disastrosa per le sorti dell'Impero»
«Sua altezza rammenti che anche gli Achei si ritirarono da Troia. Ci sono ritirate e ritirate. Inoltre se dalla cruna di un ago non passa una corda, può passare un filo di seta...»
E poi ha concluso con la metafora che, laddove non ci arriva il rappresentante di Dio in terra, può arrivarci una santissima Trinità
ripensava Arrigo mentre, convinto dal progetto arguto di Stefano il Vecchio, si era travestito da pellegrino e insieme a tre suoi luogotenenti, Hans, Kaspar e Klaus si erano incamminati indisturbati sulla sponda sinistra del Tevere accompagnandone il corso verso sud-ovest. Subito fermati da un posto di blocco angioino, i quattro furono lasciati passare per la modica tassa di otto fiorini anziché i dieci imposti in precedenza, che la tensione era calata di molto, dopo che aveva ordinato al suo esercito di ritirarsi sulla via Cassia.
CAPITOLO 5
ROMA GIUGNO 1312
I quattro pellegrini erano ormai giunti all'altezza dell'isola Tiberina quando, all'ora della compieta, la lunga giornata stava volgendo all'imbrunire. Era proprio il momento in cui la luce s'indora e lo sguardo di Arrigo fu colpito alla vista di una ragazza, tutta intenta a lavar panni, su quella strana isola che, come una nave, sembrava sfidare la corrente del Tevere risalendolo al centro. Per un attimo le sembrò di essere al cospetto della beatissima vergine e stava quasi per inginocchiarsi se non fosse stato prontamente sorretto dai suoi tre subalterni trepidanti per un suo presunto malore. Presto, però, Arrigo si riprese e si rivolse a quella visione angelica speranzoso di poterci scambiare almeno qualche parola.
«Oh Madonna, siamo quattro pellegrini d'Alemagna. Sapreste indicarci dove potremmo trovar ristoro e rifugio per la notte?» Maddalena trasalì, non si era accorta dei quattro uomini che si stavano avvicinando e si volse compiaciuta verso Arrigo.
«Siete stati fortunati, messeri, a passare di qua. Oltre che lavandaia sono anche taverniera e la mia taverna è proprio qui vicino: la taverna dei Gabrini, quassù al rione della Regola. Per un fiorino a settimana ciascuno di voi potrà mangiare e dormire alla taverna». Nel dir ciò, Maddalena, si aprì ad un sorriso straordinario. In realtà anche per lei era stata una fortuna incontrare quattro nuovi clienti, non spaventati dal prezzo di un fiorino. Ora che i padroni, Rienzo e Santina si trovavano ad Anagni dai parenti, per almeno un mesetto, non avrebbe dovuto aspettare il loro ritorno per essere pagata: avrebbe potuto prendersi il dovuto dal sopraggiunto imprevisto incasso. Ma quel sorriso ad Arrigo fece tutto un altro effetto, lo stesso di chi abbia appena bevuto un potente filtro d'amore.
CAPITOLO 6
ROMA TAVERNA DEI GABRINI MARTEDÌ 28 GIUGNO 1312
Aveva dovuto aspettare più di venti giorni, prima che si potesse effettuare la gran cerimonia, perché il piano escogitato da Stefano il vecchio, che pure vantava in famiglia alti prelati come il fratello Pietro e lo zio Giacomo Colonna, entrambi cardinali, contemplava di convocare a Roma altri tre famosi cardinali: il cardinal Niccolao da Prato, il cardinal Luca del Fiesco da Genova e il cardinal Arnaldo Pelagrù da Ferrara. Tutto ciò per evitare qualsiasi riferimento alla sua famiglia