Metafore dell’esistenza e desiderio di salvezza: Un viaggio interiore
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Info su questo ebook
Rocco Pititto, già professore di Filosofia della Mente e di Filosofia del Linguaggio nell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Tra le sue opere ricordiamo: La fede come passione. Wittgenstein e la religione (Cinesello Balsamo 1997); Dentro il linguaggio. Pratiche linguistiche ed etica della comunicazione (Torino 2003); La ragione linguistica. Origine del linguaggio e pluralità delle lingue (Roma 2008); Cervello, mente e linguaggio. Una introduzione alle scienze cognitive (Torino 2009); Ciências da linguagem e ética da comunicação (Aparecida –SP 2014); La Christus, Hoffnung der Welt di Heinz Tesar: tra architettura, filosofia e teologia (Pomigliano 2014); Pensare l’architettura. Pensare filosofico e fare architettonico (Campobasso 2017). Per le nostre Edizioni ha pubblicato: Ad Auschwitz Dio c’era. I credenti e la sfida del male (Roma 2005); Lui è come me. Intersoggettività, accoglienza e solidarietà (Roma 2012); Con l’altro e per l’altro. Una filosofia del dono e della condivisione (Roma 2015).
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Anteprima del libro
Metafore dell’esistenza e desiderio di salvezza - Rocco Pititto
Rocco Pititto
Metafore dell’esistenza e desiderio di salvezza
Un viaggio interiore
Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura
ed Universale
sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma
ISBN 9788838248207
www.edizionistudium.it
ISBN: 9788838248207
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
INDICE
Come un preludio
I. Caino contro Abele: una metafora della condizione umana decaduta
1. Conflittualità e violenza nel mondo: un prologo biblico
2. Caino contro Abele: un fratricidio annunciato
3. Il racconto della Genesi
4. Una teologia della storia e dell’uomo
5. Una fratellanza negata
6. Caino e Abele: una metafora della condizione umana
7. Uno scenario umano degradato e la scelta del dialogo nella relazione con l’altro
II. Camminare con Abramo verso la terra promessa
1. La figura di Abramo
2. Mettersi in viaggio con Abramo verso la Terra promessa
3. Abramo o l’enigma della fede
4. La storia di un uomo comune
5. Abramo, un uomo di fede e di speranza
6. La fede del credente nella prova suprema
7. Il viaggio di Abramo verso la terra promessa
8. Ulisse e Abramo: due figure della modernità
III. Giobbe: un essere inquieto e disperato
1. Il racconto di una storia di sofferenza mortale
2. La figura di Giobbe: uno come noi
3. Significato e struttura del Libro di Giobbe
4. Il Libro di Giobbe in discussione
5. Giobbe e la domanda di giustizia
6. Il grido disperato di Giobbe
7. La religione di Giobbe: una risposta al problema del male
IV. Dalla fuga dalla casa paterna al ritorno al Padre: un percorso di conversione
1. La misericordia di Dio raccontata in parabole
2. Una teologia della misericordia
3. La parabola del Figliol prodigo
o del Padre misericordioso
4. La struttura narrativa della parabola
5. Due fratelli contro il loro padre: una storia che si rinnova
6. La parabola parla a noi e di noi
7. La figliolanza perduta e ritrovata
V. Il Buon Samaritano
o la scelta della compassione
1. La parabola del Buon Samaritano
: la risposta di Gesù a una domanda di un dottore della Legge
2. La questione del prossimo
3. La struttura della parabola
4. La predicazione del Regno e la parabola del Samaritano
5. Il Samaritano e la scelta della compassione nella logica del dono
6. Il Samaritano come modello di una umanità redenta
7. Essere un Samaritano
: la sfida del credente
Il destino dell’uomo tra perdizione e salvezza
Indice dei nomi
CULTURA
Studium
157.
La Dialettica
ROCCO PITITTO
METAFORE DELL’ESISTENZA
E DESIDERIO DI SALVEZZA
Un viaggio interiore
Ad Antonio, a Ciro, a Stefano e a Tonino,
compagni di viaggio e insieme testimoni della
presenza forte e soave tra noi di Enzo Romano,
dono di grazia che ha accompagnato e
illuminato le storie di ciascuno di noi.
Come un preludio
L’uomo e la ricerca dell’Assoluto
Ecco, verranno giorni,
– dice il Signore –
in cui chi ara s’incontrerà con chi miete
e chi pigia l’uva con chi getta il seme;
dai monti stillerà il vino nuovo
e colerà giù per le colline.
Farò tornare gli esuli del mio popolo Israele,
e ricostruiranno le città devastate
e vi abiteranno;
pianteranno vigne e ne berranno il vino;
coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto.
Li pianterò nella loro terra e non saranno mai divelti da quel suolo,
che io ho concesso loro,
dice il Signore Dio tuo.
Amos 9, 13-15
L’uomo contemporaneo, uscito umiliato e sconfitto dalle vicende drammatiche del Novecento, disilluso da speranze irrisorie ed evanescenti, tradito, depredato, e, in ultimo, anche ucciso da poteri in odio al genere umano, avverte dentro di sé una vaga e strana sensazione come di malessere e di disagio, che lo divora e lo rende inquieto e insoddisfatto. Denominatore comune a questa sensazione è una mancanza di senso, mai percepita così acuta e così dolorosa, «che concerne la forma dei nostri desideri, la loro assenza di fine, di scopo» [1] . L’esistenza dell’uomo scorre lungo confini segnati da un sentimento di frustrazione per i desideri irrealizzati e le aspettative disattese e, ancora, per le passioni inutili
che ne hanno accompagnato lo svolgimento. È nella fragilità delle sue emozioni, nella caducità di intenzioni e di propositi e nell’abulia rispetto alle azioni e ai comportamenti che si manifesta la sua condizione spirituale, resa più desolante e più amara dalla carenza di certezze assolute, dall’assenza di un agire etico comune e dalla fuga dalla responsabilità [2] .
Quando, come oggi, manca la giustizia e la compassione tra gli esseri umani, viene meno il significato dell’esistenza e più acuta è l’esperienza della fine di una cultura come casa comune dell’umanità, diventa inevitabile per l’individuo la caduta in una crisi d’identità, uno stato incerto e instabile dell’anima che si riflette nel rapporto con l’altro, già deteriorato, oltre che con se stesso. Entrato in crisi nell’uomo il suo mondo interiore svanisce anche quello esteriore e ogni identità personale sfuma come ombra nella sua indeterminatezza. L’individuo si nega all’altro senza avvertire alcuna responsabilità e con la negazione dell’altro vengono a mancare negli esseri umani solidi legami di fraternità, si frantumano relazioni interpersonali consolidate, entrano in crisi forme e modi di riconoscimento, mentre le pratiche dell’accoglienza, della solidarietà e della compassione cadono nella dimenticanza dell’oblio. Travolti dalla forza del male «ci sembra allora che i luoghi stessi in cui ci troviamo, lo stesso ambiente in cui viviamo, giorno dopo giorno, ci rendano sempre più prigionieri del male. È un’angoscia orribile. Quando l’anima, sfinita da questa angoscia, nemmeno più l’avverte, c’è poca speranza che possa salvarsi» [3] . Una solitudine desolante e assurda diventa lo stigma di un uomo, spesso inconsapevole della deriva di distruzione di sé e dell’altro verso cui si va incontro. Davanti all’uomo si spalanca – come afferma Zygmunt Bauman – «una società che si è frantumata ed è caduta in pezzi – guidata dallo slogan ognuno per sé, Dio per tutti
. Gli abbondonati, gli esclusi, i relitti dopo il naufragio,
[...], non trovano posto nei ranghi. L’essere abbandonati ed esclusi, disprezzati e ridotti a scarto, non accende la solidarietà. Genera e suscita piuttosto mancanza di rispetto degli uni verso gli altri, sospetto, rancore e disgusto reciproci; nonché l’accanito tiro alla fune nella continua, interminabile lotta per accaparrarsi le briciole che cadono dalla tavola del banchetto della società consumista» [4] . Lo spaesamento
conseguente, un’esperienza avvertita da molti individui con angoscia, non sembra consentire all’uomo una qualche via di fuga, tentato, piuttosto, a isolarsi dagli altri e a rinchiudersi in se stesso, senza attendersi null’altro dall’esistenza.
L’uomo sperimenta una sensazione oscura, inquietante e dolorosa, vissuta come una malattia dell’anima, di cui non se ne conoscono né le cause, né gli esiti. Nelle macerie di un’esistenza inconsistente e vuota avverte come un travaglio doloroso che s’impossessa della sua anima. L’incertezza del presente non consente ad alcuno di progettare il suo futuro, inseguendo sogni, desideri e speranze. Davanti all’individuo si spalanca un mondo estraneo e assurdo. Tutto sembra compromesso e andare in frantumi e non si intravede alcuna via d’uscita, mentre la caduta nell’angoscia del provvisorio e dell’incompiuto appare inevitabile e inarrestabile. Le radici di questa sensazione sono antiche e profonde e non nuovi sono gli scenari, fonte di sgomento, nei quali si è come gettati
. Sono scenari, che incutono tanta paura [5] .
Ritornano, intanto, inquietanti i fantasmi, le fragilità e le cadute che hanno accompagnato l’uomo nel suo divenire e, ancora, le incongruenze e i disagi di un vivere disancorato e privato anche del suo sperare. Le poche speranze e gli ultimi sogni rimasti possono solo riassicurare in parte un uomo confuso e smarrito, quasi ad alleviare la sua inquietudine rispetto a un mondo avvertito sempre più lontano
e sempre più estraneo
. Come straniero nella sua casa e incapace di trovare quella dimora «abbastanza spaziosa e abbastanza elevata», ipotizzata da Kant contro una deriva babelica possibile [6] , l’uomo si trova ad occupare uno spazio più limitato entro il quale coltivare la sua solitudine contrapponendosi ai suoi simili e isolandosi da loro. Più che una soluzione, è solo un tentativo maldestro di fuga da se stesso nell’incapacità di creare relazioni significative con gli altri e di trovare risposte meno contingenti ai problemi del vivere e dello sperare. Non meno pericolosa è la rincorsa, quasi a sopperire alla mancanza di senso, a una realizzazione di tipo personale nell’esaltazione delle spinte più degeneri e più violente del suo essere in opposizione all’altro. Una esistenza contro l’altro non è una risposta al proprio malessere e al proprio disagio; è solo il segno di un fallimento di una esistenza votata alla chiusura all’altro e destinata a una maggiore solitudine. La condizione di Narciso, alla quale l’uomo tende non di rado a identificarsi, specchiandosi nella sua immagine, non è la soluzione cercata, porta solo alla morte certa chi se ne appropria come modello di riferimento del suo essere e del suo agire.
Molte delle attese dell’uomo e delle promesse della scienza e della politica, e con esse molte delle speranze, sono naufragate nel corso degli avvenimenti del secolo passato e di questi due primi decenni del Terzo Millennio. Altre attese – forse la maggior parte – sono state realizzate all’incontrario e si sono trasformate in incubi per milioni di uomini e di donne condannati a subire una morte, atroce e ignominiosa. Ferito e traumatizzato dalle vicende che hanno accompagnato il terribile
Novecento, l’uomo, riprendendo il profeta Isaia, è apparso nella maschera dell’ uomo dei dolori
, come agnello sacrificale condotto al macello, «come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» ( Is 53, 7). Rispetto a valori fondanti la convivenza umana come quelli del confronto, del dialogo, della solidarietà e della compassione, ne sono prevalsi altri contrari come l’inganno, il tradimento, la violenza e la morte. Dolorosa, infine, è stata la catastrofe
che ha investito i popoli dell’Europa e del mondo negli anni tragici tra le due guerre mondiali e che ha portato alla sofferenza e alla morte di milioni di esseri umani [7] . Strano come questo sia potuto accadere –, quando le sorti progressive
d’inizio secolo, date come certe e imminenti, facevano presagire il raggiungimento di altri traguardi di progresso, di prosperità e di benessere e l’inizio di una nuova era di pace perpetua
e di prosperità. È stato tutto un inganno e il risveglio all’epoca dell’inizio della guerra del 1914-18 e, più tardi, della fine della seconda guerra mondiale è stato per molti ancora più doloroso e più traumatico. La ricaduta sugli individui è stata enorme. Come afferma Julia Kristeva, «Più che alla depressione, il secolo XX – con la tragedia delle due guerre mondiali, della Shoah e dei gulag – è stato esposto a una catastrofe identitaria che somiglia piuttosto alla psicosi» [8] . Un’intera cultura è venuta meno alla sua missione di formare l’umanità.
Il malessere nell’uomo investe il suo essere e rende più vulnerabile la sua condizione, resa disperata da una inclinazione al male difficile da sradicare, come si afferma in Gen 8, 21 [9] . L’inclinazione al male dell’essere dell’uomo è troppo radicata e troppo diffusa, da non consentire una qualche forma di resistenza che possa avere un qualche successo. Ogni tentativo di superare questa inclinazione sembra inutile e velleitario. Forse è per questo che «La tentazione [dell’uomo] non consiste tanto nella pretesa titanica di essere come Dio, quanto piuttosto nella debolezza, nella pusillanimità, nella stanchezza di chi non vuol essere ciò che Dio si aspetta da lui» [10] . Come prostrato da una lunga lotta e precipitato «nella fossa dei leoni» ( Dn, 6,1-28), l’uomo si trova come abbandonato «in un luogo di sciacalli», avvolto «di ombre tenebrose» ( Sal 44, 20) e in «preda alla morte» ( Sal 118, 18). Chi lo potrà salvare da una condizione così grave? Troppo debole è incapace di resistere al male e di disporre di una identità, non più ripiegata su se stessa, ma aperta alla trascendenza e all’incontro con gli altri. Solo la ricerca della solidarietà con gli altri potrebbe aprire un varco attraverso il quale poter creare relazioni meno conflittuali tra gli uomini. Riscoprire le ragioni dell’umanità e trasformarle in mete di un agire misericordioso e compassionevole
rappresentarebbe la traduzione di un’esigenza etica primaria [11] .
La sconfitta dell’uomo sembra inevitabile, quando si considerino gli eventi del mondo e il tasso di disumanità e di atrocità che essi hanno raggiunto durante questo tempo. Di questa sconfitta sono testimonianze il fallimento e lo squallore di una cultura che ha rotto ogni argine di umanità sovrapponendosi contro l’uomo e operando con violenza per la sua distruzione. Ogni forma di rispetto e di solidarietà tra gli esseri umani è venuta a mancare e l’uomo è diventato preda di un mondo assurdo e disumano, mentre la lotta contro l’uomo ha conosciuto la sua acme nell’inferno di Auschwitz, metafora della disumanità dell’uomo del nostro tempo e della sua incapacità di porre fine a ogni forma di violenza e di morte. Ripensando Auschwitz ci si trova di fronte al male radicale
, quel male «che provoca in noi un orrore indicibile, un orrore tale da riuscire a esclamare soltanto: questo non avrebbe potuto mai accadere» [12] . Come uscire dal modello Auschwitz e costruire un mondo più solidale, dove la distanza diventi prossimità? È questa la domanda inevitabile, cui è necessario dare una risposta per riprendere ad amare e sperare.
Gli avvenimenti tragici del Novecento e dei primi anni del Terzo Millennio lasciano poche speranze in ordine a un cambiamento nei comportamenti degli individui e nelle mete del loro agire, un cambiamento non facile che richiederebbe di essere governato secondo regole di maggiore civiltà e di rispetto della dignità degli esseri umani. Nella tempesta
epocale che ha sconvolto questo tempo sono entrati in crisi concezioni dell’uomo e visioni del mondo, orizzonti speculativi, stili di vita e di comportamento [13] . Sembra che il declino dell’umanità debba proseguire la sua corsa sempre in bilico sul baratro della perdizione. Contro una deriva, resa più inevitabile da una forma di narcisismo esasperato, si impone la necessità di un agire umano più solidale, orientato all’altro e più consapevole degli obiettivi di maggiore umanità da perseguire. L’agire richiesto presenta delle implicazioni etiche ed esige – secondo Hans Jonas – «una nuova etica della responsabilità – una responsabilità ampia, che arriva fin dove arrivano le nostre capacità – essa esige anche, in nome di quella stessa responsabilirà, un nuovo genere di umiltà, un’umiltà che, a differenza di quella precedente, non è dovuta alla limitatezza, ma all’ampiezza eccessiva delle nostre capacità, cioè alla preminenza della nostra capacità di agire su quella di prevedere, valutare, giudicare» [14] . Come osserva lo stesso Jonas, oggi «il coro dell’ Antigone sulle portentose capacità dell’uomo dovrebbe essere letto in modo differente; e la sua ammonizione all’individuo perché rispetti le leggi della terra non sarebbe più sufficiente. Certo, le vecchie prescrizioni dell’etica del prossimo
– sulla giustizia, la carità, l’onestà e così via – sono ancora valide, per la loro immediatezza, nella sfera più prossima, quella quotidiana dell’interazione tra gli uomini. Ma questa sfera è eclissata dall’estendersi dell’ambito dell’agire collettivo, in cui l’attore, l’azione e l’effetto non sono più gli stessi; un ambito estremamente potente, capace di imporre all’etica una nuova dimensione della responsabilità, mai immaginata prima» [15] .
Questo nostro tempo può essere rappresentato e meglio compreso facendo ricorso a delle metafore significative non nuove come l’epoca del disincanto
e l’epoca delle passioni tristi
. Sono espressioni metaforiche, che possono essere riconsiderate come delle cifre ermeneutiche della contemporaneità, sospesa tra la caduta nella perversione e l’emergere di un desiderio di salvezza [16] . Molte speranze, a lungo coltivate dagli individui, sono rimaste come dei gusci vuoti, mentre sul mondo dell’uomo si è diffuso il nichilismo, uno stato doloroso dell’anima intravisto così profeticamente e con largo anticipo da Nietzsche nella sua lucida follia. Lo scarto tra le speranze concepite e sognate e quelle realizzate e, ancora, la distanza tra le attese degli individui e i risultati conseguiti sono stati enormi. Tutto apparirà ancora più tragico, quando si farà un bilancio del Novecento e si dovrà rendere conto delle contraddizioni più acute della cultura, delle speranze tradite dai falsi profeti, dei compromessi della politica, delle inutili sofferenze inflitte a milioni di uomini e di donne, e, soprattutto, del dolore immenso e del pianto ininterrotto dell’uomo, lasciato morire solo e impotente. Come afferma María Zambrano, «Nell’atto di affermarsi l’uomo è inciampato su se stesso, si è aggrovigliato [...] nel suo sogno, nella sua immagine» [17] ed inevitabile è stata la sua caduta nel narcisismo.
Nell’epoca delle passioni tristi
, la condizione di impotenza e di disgregazione dell’uomo si manifesta nella forma di uno smarrimento dell’anima e nella perdita di ogni speranza di cambiamento. La delusione diventa uno stato d’animo diffuso, la certificazione dell’incapacità dell’uomo di trovare una via d’uscita. Vivendo sotto il suo giogo l’uomo si sente come gettato
in uno stato di profonda prostrazione e ogni suo sforzo di affrancarsi e di riprendere il suo destino è reso vano dal concorso di forze malefiche avverse, che rendono la sua condizione ancora più pesante e senza vie d‘uscita. L’uomo è come avvitato su se stesso, abulico e privo e di certezze, chiuso in se stesso e senza relazioni significative di cura
e di interesse
con gli altri suoi simili in umanità, disancorato e senza una meta ben definita nell’agire. Soprattutto, come è avvenuto nel corso del Novecento, diventa preda di entusiasmi collettivi e di illusioni troppo a lungo sedimentati nel suo essere per poter essere rimossi e superati quando se ne dimostri l’inconsistenza, la fallacia e la falsità. La stessa condizione, nella quale egli è costretto a vivere, si manifesta con risvolti spesso drammatici ed è, comunque, assai più ristretta rispetto alla ricchezza e alla varietà della vita, alla quale vorrebbe aggrapparsi per sopravvivere alla tristezza dei tempi. La provvisorietà della sua esistenza si scontra con ideali e aspirazioni, pur presenti nell’uomo, che richiederebbero, invece, per la loro realizzazione una estensione temporale più ampia e, soprattutto, maggiore coraggio e maggiore determinazione.
Il soggetto umano è costretto a vivere la sua esistenza quasi da estraneo e da stradicato, se non da contumace, e in balia di forze che lo spingono verso il baratro della perdizione, della disperazione e, spesso anche, della morte. Nell’uomo, però, convive, nello stesso tempo, anche un desiderio di salvezza o di eternità [18] , una forza che ci attraversa, che riemerge più forte nella coscienza dell’essere dell’uomo nelle situazioni di maggiore emergenza, quando nel mondo umano avanzano di prepotenza le forze del male fino a schiacciare e a travolgere ogni forma di resistenza da parte dell’uomo [19] . Correlativa a questo riguardo e non meno significativa è la constatazione di Tzvetan Todorov secondo cui in tutte le culture, già da quelle più antiche, si trova un’«aspirazione alla pienezza e al compimento interiore [...] che evoca anche una relazione con un’istanza immateriale, al di sopra di noi, alla quale si è potuto fare riferimento parlando di assoluto o infinito, sacro o grazia» [20] . Le forme di aspirazione all’assoluto sono sempre esistite, «ma solo recentemente, nell’ambito del processo che è stato definito il disincanto del mondo
, si sono manifestate alla coscienza individuale e al riconoscimento pubblico» [21] . L’esistenza dell’essere dell’uomo è come sospesa tra il dominio del male e l’anelito di salvezza, tra perdizione e salvezza. Prevarrà nell’uomo – è l’interrogativo frequente – il dominio del male o l’anelito di salvezza? Gli indizi fanno pensare che a prevalere sarà il dominio del male, così come testimonia anche la storia più recente sulla falsariga di quella più antica. Difficile una qualche forma di resistenza che possa rompere il muro dell’iniquità.
Pur se represso, quando non è negato, nell’uomo convive ancora, accanto a una inclinazione al male, un desiderio di salvezza, che riemerge dal sottosuolo dell’anima. Se il baratro della perdizione continua a spalancarsi davanti all’uomo, il desiderio di salvezza, al contrario, pur confuso e incerto, eppure tanto atteso e tanto gratificante, colora i giorni tristi dell’uomo proiettandoli su un orizzonte nel quale regnano bellezza, giustizia e pace, quello spazio immaginario dove soltanto si può avverare il sogno eterno della condizione di Ša¯lôm descritta dal profeta Amos. Forse questo desiderio è solo ciò che rimane a una esistenza umana diventata più difficile e più insopportabile, preda dei mai scomparsi fantasmi e di antiche paure che, ritornando a riemergere, inquietano e opprimono l’anima, rendendola più esposta alla sua fragilità e alla sua vulnerabilità. Solo l’attesa dei giorni di Amos può alimentare il desiderio di salvezza dell’uomo.
Sarà possibile uscire da questa condizione generale di malessere e di disagio e se possibile come – ci si chiede – e riappropriarsi di una identità umana più vera e più duratura
? È questa la domanda ricorrente di chi vive con angoscia il dramma di una realizzazione umana che nella storia è venuta a mancare, ostacolata dalla caduta nel disumano del demoniaco di una cultura orientata contro l’uomo. Nella condizione d’insicurezza, che accompagna l’esistenza dell’uomo, un «fatto amaro di cui si fa esperienza continua [...] l’uomo diventa sempre più scipito, deprezzato, insignificante ai suoi stessi occhi» [22] . Forse, aveva ragione Simone Weil quando scriveva che come esseri umani «Non possiamo trasformare noi stessi, possiamo soltanto essere trasformati, ma lo possiamo soltanto quando lo vogliamo con tutte le nostre forze» [23] . Perciò «svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare a essere con l’immaginazione il centro del mondo, riconoscere che tutti i punti del mondo sono centri a pari titolo, e che il centro vero è situato al di fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno della libera scelta al centro di ciascuna anima» [24] . E, allora, cosa fare, se non mettersi in viaggio dentro l’uomo stesso, ricercando se stesso e l’altro, l’io e il tu, e sperare che Dio stesso venga in suo aiuto, «gli prenda la mano e gliela stringa un po’ forte?» [25] .
La speranza dell’uomo di essere se stesso senza perdersi nei labirinti dell’esistenza rimane appesa alla riscoperta e alla riappropriazione delle tante metafore della cultura occidentale, un patrimonio di valori e di comportamenti da cui attingere per costruire il futuro. Sono rappresentazioni e interpretazioni dell’esistenza e chiedono di essere realizzate come mete dell’agire dell’uomo. Le metafore, cui si fa riferimento, sono riprese da figure e da parabole della Scrittura e assunte come strumenti di conoscenza dell’esistenza, modelli di confronto, guide nell’azione e stili di vita. Queste metafore aiutano a descrivere la condizione dell’uomo di questo tempo riflessa nelle vicissitudini e nelle contraddizioni che caratterizzano l’esistenza di ognuno e negli aneliti di speranza che insieme convivono e determinano la stessa condizione spirituale del tempo. Esse definiscono la realtà della condizione umana in bi