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Tenoch, maledetto dagli dei: Tenoch, l'azteco 1
Tenoch, maledetto dagli dei: Tenoch, l'azteco 1
Tenoch, maledetto dagli dei: Tenoch, l'azteco 1
Ebook141 pages1 hour

Tenoch, maledetto dagli dei: Tenoch, l'azteco 1

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Fantasy - romanzo breve (109 pagine) - Gli Dei di Tenochtitlan sono mostri assetati di sangue. Ma per bere il mio, dovrebbero vincermi in astuzia!
Primo volume della trilogia di Tenoch l'Azteco


Tenoch è un giovane intelligente e pieno di risorse che vive al tempo dell'imperatore Moctezuma I, molti anni prima che gli aztechi incontrino i primi conquistadores spagnoli. Più che per la guerra e i sacrifici umani ha una passione per il commercio, attività che gli permette di viaggiare e visitare l'impero Mexica in tutta la sua ampiezza. Scopre così una terribile verità. Alcuni sacerdoti intrattengono rapporti con creature soprannaturali: sono le Erbe della Morte, una specie che prospera invadendo un mondo dopo l'altro solo per farlo imputridire e cibarsene. Ma non è questo il solo esercito intenzionato a conquistare il nostro piano di esistenza. Anche Camazotz, il Re Pipistrello, sta dirigendo contro di noi le sue mostruose creature.


Andrea Berneschi è nato ad Arezzo nel 1977. Fa parte della redazione della webzine Filmhorror.com; è membro della Horror Writers Association. 
Ha pubblicato con NeXT, Dunwich Edizioni, I Sognatori, Letteraturahorror.it, Esescifi, Vincent Books editore, Letterelettriche, Watson Edizioni.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateMay 21, 2019
ISBN9788825409024
Tenoch, maledetto dagli dei: Tenoch, l'azteco 1

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    Book preview

    Tenoch, maledetto dagli dei - Andrea Berneschi

    Edizioni.

    Introduzione

    Alessandro Iascy e Giorgio Smojver

    La civiltà azteca, o più esattamente Mexica è stata oggetto di fiction storica, in letteratura (famosissimo L'azteco di Gary Jenning; ma da ricordare anche L'erede di Montezuma dello strittore italo-messicano Carlo Coccioli), al cinema, nei fumetti e persino nell'opera lirica (La conquista di Lorenzo Ferrero). Ma raramente è stata oggetto di racconti di narrazioni di genere sword & sorcery, che prediligono mondi ispirati al medioevo europeo o all'oriente; è un peccato, perché i Mexica erano un popolo guerriero dalla mitologia ricca e affascinante.

    È questa le prima, ma non unica, ragione per cui pubblichiamo con particolare piacere, come terzo titolo della collana Heroic Fantasy Delos, Tenoch il Mlaedetto di Andrea Berneschi, prima storia del ciclo imperniato su Tenoch, guerriero mexica e viaggiatore di mondi.

    Berneschi fa rivivere un mondo perduto, di splendide città e misteriose piramidi, paurose divinità e fantastici mostri (che forse altro non erano che creature aliene, come molti hanno ipotizzato) in modo vivido eppure meticolosamente preciso.

    Ma non è solo la cornice, è anche la figura del protagonista a sorprendere. Nel mondo dell'Heroic Fantasy, dominato da guerrieri per lo più impulsivi e irriflessivi, Tenoch è un'eccezione. E lo è anche nel mondo dei guerrieri Mexica: un mondo che celebra la guerra, il valore e il sacrificio, mentre Tenoch non ama la guerra, riflette sempre sulle conseguenze delle azioni, non si vergogna di seguire il proprio interesse e crede che un impero potrebbe reggersi meglio sul commercio che sulla conquista. È insomma una mente libera, come lo è Ulisse tra i guerrieri achei.

    E un'altra cosa ha in comune con Ulisse: l'unica ragione per cui a volte dimentica l'abituale prudenza è un amore sconfinato per l’avventura, per l’ignoto, la curiosità di luoghi e mondi che nessuno nella sua gente ha mai visto.

    Tenoch l'Azteco

    Questo romanzo breve è la prima parte del ciclo di Tenoch, l’azteco.

    I due seguiti, Tenoch, il guerriero giaguaro e Cieli rosso sangue saranno pubblicati prossimamente nella presente collana.

    Tenoch, l’astuto

    1.

    Il tramonto tingeva di rosso e viola la distesa d’acqua di Xochimilco, estremità meridionale del Grande Lago dei Mexica. Il vasto specchio di fuoco liquido era intervallato dalle sagome scure dei chinampa, gli isolotti artificiali che i contadini avevano costruito nel corso dei decenni accumulando fango e residui vegetali. Il vento faceva frusciare le foglie dei salici e delle alte piante di mais che affondavano le radici negli spazi rettangolari. Entro un mese tutte le pannocchie sarebbero state pronte per il raccolto; era la fine dell’estate.

    Tra un isolotto e l’altro, su una canoa di legno dal fondo piatto, silenziosa sagoma scura su fondo rosso, il ragazzo procedeva. Si chiamava Tenoch. Aveva i capelli neri molto corti; fino a pochi mesi prima li portava del tutto rasati, come quelli degli yaoquizque, i novizi che non hanno ancora catturato un prigioniero in battaglia. I suoi indumenti consistevano di un semplice perizoma e una borsa a tracolla in fibra di maguey. Sull’estremità opposta della canoa stava poggiata una cesta di vimini. A intervalli regolari immergeva la pertica fino a toccare il fondo, si appoggiava, dava una forte spinta, poi aspettava.

    Nonostante la tranquillità del luogo e dell’ora, il volto del ragazzo non era affatto rilassato. Il sudore scintillava sulla sua pelle e impregnava i capelli. Ogni tanto un insetto gli si posava sulle spalle nude o sulle gambe, ma lui lo ignorava.

    Ormai anche gli ultimi contadini se n’erano andati. Solo il canto di alcune oche e l’isolato sciacquio di un pesce che guizzava fuori dall’acqua interrompevano il silenzio sconfinato. La sua era l’unica presenza umana sulla superficie del lago, e lo sapeva. Si trovava lì da molto tempo, covoni di ore legate insieme; era giunto nella parte della giornata chiamata Onaqui Tonatiuh, adesso veniva il primo segmento da cui è composta la Youalnepantla; la settima delle otto parti di un giorno. I suoi occhi inquieti avevano visto il verde della vegetazione e l’azzurro splendente cedere il passo a tonalità sempre più vicine al colore del fuoco, mentre l’aria si rinfrescava. Infine rialzò lo sguardo e si accorse che tutto era buio, come nella visione che aveva ricevuto.

    Tolse dalla spalla la tracolla e l’appoggiò sul fondo dondolante della barca. Aprì il canestro e ne estrasse un fagotto scuro. Lo allargò davanti ai suoi occhi. Era un’armatura di pelle che non aveva niente in comune con quelle diffuse tra le file dell’esercito Mexica. Sulla superficie non erano riconoscibili peli, né squame, né penne: l’animale da cui era stata ricavata non aveva niente a che vedere con mammiferi, rettili, uccelli o altre creature di questo mondo. L’involucro coriaceo eppur flessibile era diviso in segmenti esagonali di varie dimensioni. Nel segreto della propria abitazione Tenoch aveva provato a bucarla con spine di cactus, a tagliarla con lamelle di ossidiana, a bruciarla con un carbone ardente. Pareva indistruttibile. Nel corso del duello che stava per affrontare gli avrebbe dato vantaggi incommensurabili.

    Cercò di concentrarsi e di calmare la mente. Ripensò alle esperienze di combattimento che già aveva affrontato. Erano poche, questo bisognava ammetterlo, ma seguiva suo padre da quando era in grado di camminare, partecipando a spedizioni in terre lontane e pericolose.

    Veniva da una famiglia di pochteca. Questo il nome del loro mestiere; una parola che cambiava di senso secondo chi la pronunciava. Nelle lingue di molte tribù dell’altopiano significava solamente qualcuno che commercia, ma tra i Mexica aveva sempre avuto un senso più preciso. I cittadini di Tenochtitlan che appartenevano a questa particolare classe sociale, a metà tra i comuni macehualtin e i nobili pipiltin, oltre a comprare e vendere merci nei quattro angoli dell’impero, avevano il compito di fungere da occhi e da orecchie per il sovrano. Erano esploratori di nuovi territori, spie pronte ad infiltrarsi tra i popoli nemici a caccia di informazioni e notizie sempre nuove. Tenoch e il genitore avevano passato un’intera estate travestiti da contadini Tuxpan, prendendo nota mentalmente delle merci che potevano essere richieste come tributi agli appartenenti di quel popolo (quante piume di queztal? quanti pezzi di giada? quante conchiglie preziose?), della consistenza delle loro armate (quanti guerrieri armati del rostro di un pesce-sega? quanti imbracciavano lance dalla punta di ossidiana? quanti addestrati a scagliare sassi con la fionda?) ascoltando i discorsi che si facevano al mercato sull’opportunità o meno di una nuova guerra; poi erano rientrati sani e salvi in territorio Mexica e avevano presentato una lunga relazione. Un’altra volta, tra i Tepeyacac, quasi erano stati scoperti mentre appiccavano il fuoco a un magazzino nemico pieno di lance e frecce. Tenoch non si era mai divertito così tanto.

    Suo padre, purtroppo, non aveva potuto esserci nel momento più importante, quando era entrato per la prima volta in un vero campo di battaglia. Una brutta malattia l’aveva colpito, e per quanto si dedicasse a rituali di autoflagellazione, bucandosi le orecchie con la coda appuntita di una razza o pungendosi la lingua e i palmi delle mani con spine di cactus, non guariva. Nessun medico o stregone consultato aveva saputo suggerire un rimedio efficace. Aveva mandato al suo posto Ichtaca, il suo socio di affari favorito, ma non per questo aveva perdonato gli Dei per il modo in cui l’avevano trattato. Cosa poteva esserci di più bello, per un Mexica, che vedere il proprio figlio primogenito partire per la guerra? Oltretutto un figlio dal carattere particolare, che non si riusciva a capire ancora di che pasta fosse fatto.

    Tenoch si era distinto fin dalla scuola pubblica telpochcalli come uno dei più svegli tra i ragazzini della sua età: sapeva calcolare l’area di una superficie irregolare utilizzando complessi algoritmi, moltiplicare cifre tra loro in qualsiasi combinazione, trovare la soluzione ai più difficili enigmi per vie indirette e originali. Quando si parlava di commercio, poi, allora sì che il suo cuore batteva forte! Per la guerra non sentiva nessuna passione, e il genitore se n’era accorto presto, con un certo rammarico. Si vede che, il giorno in cui era nato, il sacerdote incaricato di seppellire il cordone ombelicale nella terra di un campo di battaglia si era sbagliato, e l’aveva gettato su un qualunque altro sentiero. Alla lunga poteva essere un problema serio: l’unica possibilità che un cittadino aveva di fare carriera e migliorare la propria condizione sociale era distinguersi in battaglia, catturare prigionieri per i sacrifici.

    Tenoch non credeva possibile che l’arte della guerra l'accendesse mai di vera passione. Scontrarsi con un perfetto sconosciuto, vincerlo nella forza e nell’agilità, ferirlo, vedere il suo sangue che zampilla nell’aria; perché tutto ciò avrebbe dovuto interessarlo? Poteva essere un dovere da compiere, ma niente di più. Al contrario viaggiare, conoscere centinaia di uomini e donne straniere, raggirare i clienti sprovveduti, comprare a poco e vendere a tanto… beh, questo era per lui il dolce sapore della vita!

    Gli Dei non l’avevano fornito della brama di sangue necessaria a essere un buon guerriero, ma di altre qualità, la prima delle quali era una mente che correva veloce come un cervo. Nel tempo che i suoi coetanei spendevano per formulare un qualsiasi problema, lui ne aveva già risolti due. Quella capacità poteva essere utile se doveva trovare in tempi rapidi la via di fuga da un pericolo, o prevenire le mosse di un rivale. A volte, invece, poteva rivelarsi uno svantaggio. Al contrario di chi andava incontro al proprio destino, qualunque fosse, considerandolo come naturale, Tenoch spesso era invaso dai dubbi. E non tutti erano positivi o utili.

    Quanta agitazione l’aveva preso, nei giorni precedenti alla partenza dell’esercito a cui era stato

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