Personcine
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Personcine - Maria Messina
2009
Maria Messina
PERSONCINE
Delusioni
La casa del signor Còppola, che, di primavera, restava quasi nascosta dalle grandi robinie del piazzale, aveva un aspetto grazioso e pieno di gaiezza.
Era una casa a due piani, sapientemente divisa in quattro simmetrici appartamentini, assai piccoli, che si guardavano a coppie nella scala e aprivano due file di balconi sul piazzale. Nella scala, i due terrazzini gemelli del secondo piano sporgevano come tettoie sulle bussole a vetri del primo piano, le quali – simmetriche e velate d’ombra – si facevano riscontro nel lungo pianerottolo dove i giallo-verdognoli cardellini, i dorati canerini, e due malinconici merli, trillavano e fischiavano invano, chiedendo che un po’ di sole entrasse nelle gabbie sospese alle cupe mensole dei terrazzi.
Quanti uccelli nel pianerottolo, quanti fiori in due balconi del primo piano, davanti le robinie odorose!
Uccelli e fiori erano del signor Bàrtoli, impiegato presso la Banca d’Italia.
Ciascuna stagione portava fiori nei due balconi dove sbocciavano margherite doppie, vividi gerani color di ceralacca e gerani bianchi purissimi; giunchiglie dorate, garofani meravigliosi e grandi viole dalla faccia di donnine invecchiate; e poi rose e rose: rose in tutte le sfumature dell’avorio che si arrampicavano fin sotto la ringhiera del balcone del verificatore di pesi e misure, e che lui contava ogni sera nel timore che le bimbe ne strappassero qualcuna.
Era geloso delle sue belle piante. Pure, se qualcuna delle ragazze del piazzale veniva sotto i balconi a domandare un fiore, egli non sapeva rifiutarsi di cogliere una viola o un garofano.
— Datemi una rosa, piuttosto! – diceva Luisa guardandolo con aria birichina.
— E una anche a me! – aggiungeva Lucia, col riso sulle fresche labbra.
Una rosa! Il signor Bàrtoli osservava perplesso gli snelli rami spinosi; poi guardava dentro, per timore che la moglie vedesse, infine tagliava le rose delicatamente, un po’ a malincuore, e le buttava giù in fretta alle fanciulle che paravano i grembiuli, stendendo le belle braccia rosee a metà nude.
Certo, se la moglie si fosse accorta, gli avrebbe rimproverato di sciupare le piante.
Nei due appartamenti del secondo piano, non c’erano fiori. Molte bambine si facevano sentire.
Le bimbe, che gridavano e ridevano forte, che camminavano battendo i piedini, e trascinavano le seggiole facendo cadere una pioggerella di intònaco dal soffitto, erano mal sopportate tanto dalla signora Bàrtoli – che aveva l’abitudine di levarsi tardi, la mattina, e di dormire un’oretta, dopo desinare – quanto dalla moglie dell’usciere – che soffriva di emicrania. Ma l’impiegato della Banca d’Italia, era felice che al secondo piano ci fossero molte bambine.
Poi che egli amava la giovinezza, così come amava gli uccelli, i fiori, l’aria limpida e fresca delle mattinate di primavera.
Quando si alzava, aveva a pena il tempo di annaffiare i fiori, accudire alle molte gabbie, fare colazione e vestirsi per andare in ufficio.
Passando per il pianerottolo guardava in su. Vedeva la piccola Nerina, l’ultima bimba dell’ispettore scolastico o pure l’Antonietta, la terza del verificatore di pesi e misure – che lo aspettavano – e diceva:
— Addio. Vado a prendere il «trattieni».
E se ne andava, col cappello duro in mano, un cappello fuori moda, e pure nuovo fiammante, che nessuno gli aveva mai veduto mettere in capo una volta sola, anche se pioveva. Tenendo il cappello in mano, facendo girare il bastone nell’aria, come un giovanotto, attraversava soddisfatto il gran piazzale pieno di monelli, dove qualche bella ragazza si affacciava a salutarlo.
Le piccine, l’una aveva due anni appena e l’altra cinque, sedevano ognuna nel suo terrazzo, sdegnando di fare il chiasso con le sorelline. Tenevano fra di loro tanti discorsini, guardandosi tra i ferri delle ringhiere, coi rosei visetti pieni di gravità.
Aspettavano il «trattieni» del crudele Cucù che sapeva bene di non potere tornare prima delle quattro del pomeriggio.
Sul principio stavano buone; poi, stancate, piagnucolavano.
— Vi chiamerò io a pena griderà Cu… cù… – assicurava Mariuccia che non andava a scuola, dalle monache, come le sue coetanee.
Così le piccole tornavano ad essere buone e qualche volta, facendo il chiasso, finivano col dimenticare il «trattieni».
Le giornate erano così lunghe!
Nelle ore calde del dopopranzo, le bimbe – anche Irene e Giulia venute di scuola – si riunivano tutte in uno dei terrazzini: le piccole con le bambole e col libro a figure colorate di Cappuccetto rosso, le più grandicelle con qualche lavoruccio che andava avanti lento lento. Anche le due mamme, avendo finito di sfaccendare, prendevano i cestini da lavoro e si facevano buona compagnia.
Ed ecco, verso le quattro, si leva il solito grido, roco ed allegro:
— Cu… cù! Cu… cù!
È venuto!
Le bimbe posano in fretta balocchi e lavoro, inginocchiandosi lungo la ringhiera, tutte in fila per vedere meglio.
— Brave! Brave! – dice il signor Bàrtoli salendo le scale col naso in su e gli occhietti scuri e vivaci che luccicano come quelli d’un topo. – Ora verrà il «trattieni».
Il signor Bàrtoli deve desinare, poi deve leggere il giornale mentre la moglie prepara il caffè – con molta cicoria – sulla macchinetta a spirito. Egli non ha fretta. Alcuni giorni non legge neanche il giornale: sdraiato sul seggiolone sembra di malumore. Si passa una mano sui capelli ancora abbondanti ricciuti e nerissimi – i vicini maligni e senza scrupoli affermano che se li tinga – e brontola qualche cosa che la moglie non afferra.
— Che dici?
— Otto ore d’ufficio mi hanno stancato, mi hanno vuotato il cervello. Son vecchio, ora mai.
E socchiude gli occhi, profondamente addolorato di esser vecchio.
Perché, il buon Dio, ha voluto infliggere la vecchiezza alle sue creature?
Le bimbe sul terrazzo, aspettano impazienti, frementi. Le mamme borbottano sottovoce:
— Vecchio matto antipatico! Farle soffrire così!
Ma le bimbe non soffrono. I piccoli cuori palpitano di gioia.
È pur bello aspettare.
Ecco che sentono aprire la bussola, sotto lo sporgente terrazzo.
È lui!
Vedono la cima della canna, tutta la canna, poi la testa di Cucù.
Ecco il «trattieni»!
Oggi, in cima alla canna c’è un racimolo di uva.
Cucù allunga la canna e la ritira subito; l’offre a destra e a sinistra, senza cederla; avvicinandola, allontanandola, senza pietà. Le bimbe – dai vivaci grembiulini colorati – si agitano dietro la ringhiera, come uccelli che tentino la fuga; dodici manine di tutte le grandezze – quelle macchiate d’inchiostro delle grandicelle, quelle rosee di Nerina, la più piccola – si tendono fuori dai ferri.
Ma qualcuna ha afferrato la canna; un grido di trionfo erompe da un piccolo petto…
Chi è oggi la vittoriosa? Irene. Ma non mangia l’uva smeraldina: l’offre all’Antonietta e a Nerina.
La bellezza è tutta nella conquista, non nella cosa conquistata. Le bimbe l’hanno imparato, sebbene non sappiano dirlo.
Così ogni giorno il signor Bàrtoli faceva gran baccano col suo «trattieni».
Una ciocca di ciliege, un confetto, un pezzetto di torta – e in mancanza d’altro anche un dado di zucchero o due baccelli – tutto era accolto con la stessa allegria e la gara si faceva con lo stesso entusiasmo.
Certi giorni di festa venivano anche le bambine dell’avvocato, la Titì e l’Esterina.
Titì, benché frequentasse il ginnasio, si divertiva un mondo col «trattieni».
Se capitavano altre piccole visitatrici erano invitate: – Venite! C’è il «trattieni»!
Il gioco diventava allora più rumoroso. Dieci, dodici bambine dietro la ringhiera di uno dei terrazzi, rallegravano il vecchio impiegato della banca che saltellava goffamente da destra a sinistra, avanti e indietro, facendosi venire l’affanno. E se la signora Bàrtoli chiudeva la bussola, indignata, e se la moglie dell’usciere si mostrava, tappandosi le orecchie col cotone per il pandemonio, il signor Bàrtoli, invece, godeva, superbo della