Aspettando il raggio verde
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“Sembra di andare a frugare fra le pieghe di una vita, voltando le pagine di Aspettando il raggio verde di Oscar Sartarelli.
La vita è quella di Greta Cerasi, vittima di questa storia che si dipana tra paesi e città delle Marche, donna e giornalista che viene trovata senza vita, uccisa per mano di qualcuno di cui si dovranno scoprire identità e movente.
Una storia che inizia con un dato di fatto: Greta è stata uccisa in modo violento e il suo corpo è riverso a terra sul vialetto davanti alla casa di campagna appartenuta ai suoi nonni, su uno dei colli attorno a Jesi.
Il passo con cui l’autore ci fa avanzare in questo mistero è quello di chi cerca, in parallelo agli inquirenti, ciò che ha accompagnato lo svolgersi dei fatti, con lo sguardo che solo un lettore può avere, molto più ampio di quello di coloro che hanno gravitato attorno alla vita e alla morte della protagonista.
Questo è il “frugare” che si intuisce andando avanti nella lettura, mentre a mano a mano ci si inoltra nelle perdute e nelle ritrovate felicità della protagonista, la cui vita è costellata di tutti quei trascorsi che rimangono spesso “intimi” e che proprio per questo nessuno conoscerà mai.
Oscar Sartarelli, con il suo tocco spesso poetico, ci accompagna in questa scoperta fino a farci diventare i soli custodi di quella speranza che fino all’ultimo istante ha sostenuto la vita di Greta, nella ricerca del misterioso raggio verde di cui le parlava suo nonno, riportato da Jules Verne in uno dei suoi libri.
Un giallo, un racconto di vita, un’esplorazione, un romanzo che racconta in modo preciso luoghi, sentimenti e persone, donne e uomini dei nostri tempi contraddistinti anche da lati oscuri, ognuno con le proprie vite mai raccontate, ognuno con le proprie speranze.” (Alessandra Buschi)
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Book preview
Aspettando il raggio verde - Oscar Sartarelli
Buschi
Capitolo I
Domenica 8 – Lunedì 9 gennaio 2017
I lampeggianti gettavano una sinistra luce blu sulle pareti bianche del casolare situato su uno dei colli più alti di Jesi.
Il commissario Antonio Caruso, stretto nel cappotto per ripararsi dal freddo pungente di inizio gennaio, era indaffarato a dare disposizioni ai suoi uomini. Lui, che aveva sangue e accento siciliani, soffriva il gelo; in più, si trovava ad affrontare un caso inusuale per quei luoghi.
I primi fotoreporter erano giunti fin lì con le auto in fila indiana, uno di loro a fare da apripista seguendo le indicazioni del navigatore per non perdere la strada.
I loro flash rischiaravano di tanto in tanto la scena: una donna era riversa sul viottolo di ghiaia che divideva in due il giardino e che terminava di fronte alla villetta di campagna.
«State lontani!» ordinò l’ispettrice Beatrice Valeri, che sapeva farsi sentire. «Non sappiamo nulla, quindi è inutile che facciate domande», aggiunse, nel vano tentativo di contenere il capannello di giornalisti che si era formato.
«Tutti fuori dal cancello!» intimò il commissario dandole manforte.
L’ispettrice cercò di far eseguire il comando, ottenendo la timida collaborazione degli astanti; lentamente, cronisti e fotografi uscirono dal cancelletto pedonale che fiancheggiava quello carrabile.
«È la casa di Greta, fatemi entrare!»
La donna, scesa da un’auto verde scuro che con il buio si distingueva appena e che aveva parcheggiata in malo modo sulla strada principale, prese a chiamare con voce allarmata: «Greta, Gretaaa!»
«Stia calma signora», fece il commissario avvicinandosi al cancello. «Ma lei è Silvia, Silvia Ulissi…» aggiunse.
«Commissario, commissario Caruso, la prego, mi faccia entrare! Questa è la casa di Greta, la mia amica Greta…»
«Ah, lei conosce la vittima?»
«Come la vittima? Ma allora… Allora…» e scoppiò in un pianto accorato.
Il commissario oltrepassò il cancello e le si avvicinò.
«Mi dica, è morta?» fu la domanda piena di apprensione della giovane.
«Senta Silvia, cerchi di calmarsi. Facciamo così: i suoi colleghi restano fuori, lei invece entra con me.»
Gli altri giornalisti provarono a ottenere lo stesso trattamento, ma il commissario fu inflessibile: «Voi restate qui.» Poi, rivolto a Silvia: «Se vuole e se la sente...»
La ragazza raccolse tutte le proprie forze e fece cenno di sì con il capo. «Chiedo solo», aggiunse con un filo di voce, «che possa entrare anche Filippo», e indicò l’uomo baffuto che l’affiancava con una macchina fotografica a tracolla.
Dopo un attimo di perplessità, il commissario acconsentì. «Purché non scatti foto», disse in tono deciso.
Il trio percorse il vialetto fino ad arrivare in prossimità del cadavere.
La donna era riversa su un fianco, con la gamba destra piegata e il volto rivolto a terra, quasi stesse mordendo la strada. La ghiaia era rossa, intrisa di sangue quasi del tutto coagulato.
Un pastore maremmano stava accucciato, con il muso appoggiato a terra, a un passo dalla vittima. Solo quando vide Silvia alzò la testa, come per chiedere aiuto a una persona conosciuta. Era stato lui, con i suoi incessanti guaiti, a dare l’allarme ai vicini, che lo accudivano quando la proprietaria era assente. Quando erano arrivati avevano trovato il cane rinchiuso nel garage ma, da tanto strazianti erano i suoi latrati, si erano trovati costretti a liberarlo. Da quel momento s’era accucciato vicino alla padrona e non s’era più mosso, tranquillizzando così anche gli inquirenti, che avevano provato un iniziale timore.
Caruso fece un cenno a un agente, che voltò il viso della donna. La parte sinistra era massacrata al punto da essere irriconoscibile. Solo l’occhio destro, rimasto aperto, dava un’opalescente immagine di quella che era l’espressione di Greta.
«Nooo, non può essere! Perché? Perché?»
Silvia si rifugiò tra le braccia del fotografo che l’aveva accompagnata.
Gli agenti aspettarono che si fosse calmata prima di farle qualche domanda.
«Quindi era sua amica...» chiese conferma il commissario. Silvia fece cenno di sì.
«Che lavoro faceva? I vicini non hanno saputo dirmi molto.»
«È una giornalista, mia collega, lavora… lavorava con noi a La Voce
.»
«Non la conoscevo…»
«Era da poco alla redazione di Jesi; non faceva la nera, si occupava di politica, di faccende comunali, per questo non l’ha mai vista alle conferenze stampa. Povera Greta… Stava passando un periodo difficile, anche con il marito…»
«Ah, era sposata. E come mai il consorte non c’è?»
«Non lo so commissario, lui non abita qui. Forse è fuori città, o all’estero; ultimamente viaggia spesso, non saprei cos’altro dirle.»
«Capisco. E dove aveva lavorato la sua collega?»
«Quando si è trasferita dalla sede di Ancona, prima di venire da noi, ha trascorso un periodo alla redazione di Macerata; all’epoca abitava lì, in una vecchia proprietà lasciatale dai nonni materni. Da quando era entrata in crisi con il marito, veniva spesso in questa casa. Mi ha raccontato di esserci stata anche un pomeriggio prima di Natale per abbellirla con addobbi e luminarie. Era l’abitazione dei suoi nonni, c’era cresciuta e ci teneva. Alloggiava da sola, a pianoterra. Ci abbiamo passato momenti spensierati, direi quasi felici, qui, ma anche ore piene di ansia quando mi raccontava quasi disperata del complicato rapporto che aveva con suo marito.»
«Le risulta ci siano altri occupanti la villa?»
«Sopra è disabitata, forse non è neanche ammobiliata. Non so dirle, non ci sono mai entrata.»
«Ha parlato di crisi: sa qualcosa di più sulla vita privata della sua amica?» provò a chiederle ancora il commissario. «Voglio dire, qualcosa che crede possa tornare utile alle indagini.»
«Non lo so, adesso non sono lucida… Ho solo tanta voglia di piangere e di non pensare…»
«Capisco», riprese Caruso con accento siciliano. «Bene, forse domani pomeriggio, quando si sarà un po’ ripresa dallo choc, potrà venirmi a trovare in ufficio. Che ne dice? Se la sente?»
Silvia annuì. Diede un’ultima occhiata al corpo inerte dell’amica, quindi si avviò verso il cancello, abbracciata a Filippo.
«Fai sgombrare la strada, Valeri; tra poco arriveranno il medico legale e il sostituto», comandò poi il commissario.
Il tutto finì che albeggiava.
Le luci intermittenti delle feste natalizie appena trascorse continuavano a lampeggiare beffarde da uno dei pini del giardino. Le garzette iniziavano a spostarsi come nubi bianche sospinte dal vento, dall’Oasi di Ripa Bianca verso ovest, dove c’erano pecore al pascolo e campi coltivati, e il cibo era abbondante.
Quando Greta andava ad assistere alla tiratura del giornale e faceva l’alba, si divertiva a contarle: il numero di uccelli in ogni stormo era quasi sempre dispari, e ogni volta se ne chiedeva il motivo.
L’indomani Caruso convocò nel suo ufficio l’ispettrice Valeri, ancora assonnata per la nottataccia in bianco, e il suo vice Michele Marchetti, per i colleghi Emmemme, uno scapolone sui cinquant’anni che, essendo il più attempato della squadra, aveva avuto quella promozione più per anzianità che per merito.
Al contrario della Valeri, Marchetti aveva un aspetto fresco e riposato perché la notte prima era rimasto in caserma a svolgere quei compiti di sovrintendenza che gli competevano in assenza del capo.
«Bene ragazzi», fece Caruso quando ebbe di fronte i colleghi. Il suo fare paterno preludeva, come ormai tutti sapevano, a una richiesta di impegno eccezionale. «Cosa ne pensate? Abbiamo davanti giorni di duro lavoro. C’è da aspettarselo, no?»
E certo! sembrarono dire le espressioni di Marchetti e della Valeri.
«Bene», ripeté Caruso. «Vi siete fatti una prima impressione? Avete notato qualcosa? Non so, un particolare che vi ha colpiti, qualche stranezza… Insomma, qualcosa di stonato. Mmm, bene», continuò con quello che per lui era un consueto intercalare. «Pensateci, poi mi riferirete.»
«Beh, è evidente che la signora Cerasi stesse aspettando qualcuno», prese la parola l’ispettrice. «La tavola era apparecchiata per due con uno stile che sa di cenetta intima. Chissà se invece di una serata piacevole, l’uomo che attendeva le abbia regalato la morte…»
«Ancora non sappiamo nulla e qualsiasi ipotesi sarebbe affrettata», puntualizzò Caruso.
«Se non le sembra prematuro», continuò la Valeri, «vorrei sapere quando pensa avremo riscontri sugli esami della Scientifica relativi all’auto di Greta e il referto medico.»
«L’auto è stata messa sotto sequestro, al massimo tre giorni e sapremo qualcosa; per il referto, speriamo che i colleghi di Ancona, che mi risulta siano oberati di lavoro, riescano a farcelo avere entro breve.»
«Commissario, ha detto che convocherà la Ulissi; sarà senz’altro molto utile sentire la testimonianza della collega della vittima», aggiunse il vice Marchetti. «Anche le analisi mediche saranno rivelatrici; poi, e solo poi, potremo fare le debite considerazioni.»
Sempre sottile, Emmemme, pensò la collega.
«Certo», riprese il commissario. «Alla Ulissi ho già telefonato, alle quindici sarà qui. Anche voi siete convocati per quell’ora, d’accordo?»
I due annuirono.
«Dopo il colloquio con la dottoressa Ulissi, stabilirò a chi affidare le indagini. È ovvio che tutti dovranno collaborare, ma solo uno di voi vi si dedicherà in modo specifico e dovrà sviscerare ogni minimo particolare, ogni aspetto della vita della Cerasi. Intanto ponderate se ve la sentite, semmai dovesse toccare a uno di voi. Forse ci sarà da muoversi, forse per qualche tempo dovrete lasciare Jesi, o fare i pendolari… Comunque ne riparleremo.»
Marchetti e la Valeri stavano per congedarsi, quando Caruso aggiunse: «Nel frattempo, naturalmente, occhio e intuito! Intendo: cercate di sapere tutto il possibile riguardo alla vittima, anche su Internet. Social, auto, telefono fisso e mobile, colleghi, amici, articoli e ogni particolare sul marito. Insomma, quando dico tutto, è tutto.»
«Già, il cellulare…» fece pensierosa l’ispettrice. «Non è stato ancora ritrovato e invece sarebbe importante…»
«Certo, sarebbe essenziale recuperarlo», commentò Emmemme.
«Ho già spedito due agenti al casolare; con la luce del giorno e un po’ di fortuna, magari lo troveranno. Bene, ci si vede nel pomeriggio. Intanto, al lavoro!»
La combriccola si sciolse.
Mancava mezz’ora alle quindici e Silvia Ulissi già era seduta su una panca nel corridoio del commissariato. Le era capitato molte altre volte, in veste di giornalista, di aspettare che il commissario rientrasse, preparandosi nel frattempo alle conferenze stampa che il responsabile convocava.
Intanto Marchetti le aveva portato un caffè preso al distributore automatico; lei lo sorbiva a piccoli sorsi, con gli occhi sbarrati, fissi su un quadretto con l’effige di San Michele Arcangelo, patrono della polizia di Stato, con sotto, a caratteri cubitali, la preghiera del poliziotto a lui rivolta. Ne scorse qualche riga: Oh! San Michele Arcangelo, nostro celeste Patrono, che hai vinto gli spiriti ribelli, nemici della Verità e della Giustizia…
Che hai vinto gli spiriti ribelli, nemici della verità e della giustizia… si ripeté mentalmente Silvia, poi volse lo sguardo a un punto indefinito sulla parete bianca a poco più di due metri da lei.
«Buongiorno Ulissi», irruppe nell’atrio il commissario, anche lui in leggero anticipo. «Mi segua pure.» Poi, rivolto a un agente: «Chiama la Valeri e Marchetti. Di’ loro che li aspetto nel mio ufficio, e che facciano presto.»
Quando furono entrati, disse in tono gentile: «Si metta pure comoda, Silvia. Come va? Dormito, stanotte?»
«Quasi nulla, commissario. Ho sempre davanti agli occhi l’immagine di Greta… Non riesco a realizzare, non mi sembra ancora vero. Non riesco a seguire alcun filo logico che porti a una sola spiegazione per quello che è successo.»
«Eccoci.» Marchetti fece il suo ingresso, seguito dalla Valeri.
«Bene, accomodatevi anche voi.»
«Debbo verbalizzare?» chiese Emmemme.
«No, è una chiacchierata informale; la dottoressa Ulissi non è sospettata di alcunché, si è solo dichiarata disposta a scambiare due parole con noi», replicò il commissario con tono un po’ seccato.
Marchetti e la Valeri si sedettero affiancati dietro un tavolinetto posto di fronte alla scrivania di Caruso, come due scolaretti attenti all’interrogazione che il maestro sta facendo a una loro amichetta.
«Bene, Silvia; allora, che ci dice della sua collega? Cosa ricorda? Vada possibilmente con ordine.»
«Non saprei da dove iniziare… So che Greta era cambiata, dopo la sua vacanza estiva a Marcelli.»
«Marcelli…» fece Caruso con tono di chi non conosce il luogo.
«Marcelli, sì, un posto di mare vicino a Numana.»
«Conosco io, commissario», si intromise la Valeri.
«Anch’io», le fece eco Emmemme.
«Bene allora.» Guardando Marchetti, rafforzò il concetto: «Anzi, benissimo! Comunque, Numana è nota anche a me.» Poi, rivolto di nuovo alla giornalista: «Era cambiata in che senso?»
«Sì, cambiata, un po’ trasformata nel modo di atteggiarsi: a tratti appariva più sicura, sembrava finalmente sapere cosa fare del suo matrimonio, come muoversi con suo marito. Greta però era un tipo abbastanza chiuso, e non è che mi abbia raccontato molto. Teneva le cose più intime per sé. Altre volte, invece», continuò Silvia, «l’angoscia l’attanagliava e sembrava precipitare di nuovo nel limbo dell’incertezza, in quell’inferno fatto di dilemmi che la logoravano da tempo. So che dopo una lite più grave delle altre si era stabilita nella casa dei nonni. Erano molti anni che non ci andava più, ma era rimasta sempre molto attaccata a quell’ambiente. Da due, forse tre mesi, era poi tornata in città dal marito. Ho saputo solo ieri, sì, solo dopo la sua morte, che si era di nuovo trasferita nella casa di campagna.»
«E negli ultimi tempi le sembrava più serena?»
«Mah, non direi; appariva sempre combattuta, tanto che in redazione si cercava di evitare il discorso. Ogni volta che si accennava a suo marito, sembrava incupirsi. Dei suoi ultimi giorni, però, non so dirle nulla; non l’avevo neanche più vista. Stava ancora godendo del suo periodo di riposo natalizio e ci siamo scambiate due, forse tre telefonate. Per l’appunto, non sapevo neanche che fosse tornata nella casa dei nonni; non ha fatto in tempo a dirmelo.» Silvia si interruppe, in preda all’emozione. Seguì un lungo silenzio.
«Quanto si è trattenuta a Marcello?» ricominciò poi Caruso.
«Marcelli, commissario», lo riprese la Valeri, titubante.
«Va bene: a Marcelli! Sa dove alloggiava, se avesse conosciuto qualcuno o fatto amicizie, che ambienti abbia frequentato? La sera dell’omicidio stava senza dubbio aspettando qualcuno, diciamo pure un uomo. Sa chi potrebbe essere?»