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Il Tempio
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Ebook493 pages6 hours

Il Tempio

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“Il tempio” potrebbe essere definito un romanzo d'amore, perché è di questo che si parla.

L'amore tra padri e figli, tra amici e amanti. L'amore che lega, l'amore che trasforma, ma anche l'amore che pesa come un macigno, che diventa insopportabile, che si porta via ogni cosa, ogni prospettiva.

Al centro della narrazione, due personaggi: Francesco e Mario.

Francesco, in fuga dalla sua Sicilia e dalle ceneri della sua vita, all'affannosa ricerca di una seconda possibilità e Mario, un paziente psichiatrico dell'Istituto Santa Mirope di Milano, che si aggira per i corridoi e invecchia lentamente sulla sua panchina in mezzo al parco, tra l'indifferenza di tutti. Silenzioso e avulso dalla vita del centro.

Il paziente perfetto: trasparente, muto... sconfitto.

Le loro strade si incroceranno e le loro voci si mischieranno alla straordinaria umanità che, ogni giorno, da vita a quel mostro autoreferenziale che è l'istituto. Un luogo dove tutto è immobile ed uguale a se stesso e, soprattutto, dove nulla è come appare.

Le cose però stanno per cambiare.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 19, 2019
ISBN9788831612036
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    Il Tempio - Giancarlo Buratti

    Matto

    PARTENZA

    Certe volte non c’è la possibilità di scegliere, certe volte bisogna partire.

    Sul ponte del ferryboat due ragazzi innamorati e stretti l’una all’altro guardavano l’orizzonte, ridevano e sognavano, indifferenti ed impermeabili al mondo che si muoveva loro attorno; a pochi passi da loro un bambino con gli occhi affogati nelle lacrime ascoltava sua madre che, strattonandolo malamente, gli spiegava preoccupata quanto possa essere pericoloso correre sul ponte di una nave; un turista tedesco usciva dall’area coperta stringendo soddisfatto un arancino di riso, parlava al telefonino con una voce quasi impostata, mentre con lo sguardo malinconico tentava di strappare le ultime immagini alla costa che la nave stava abbandonando.

    Era il quattordici di settembre e a quell’ora del mattino spirava un’aria davvero fresca sullo stretto. Era il quattordici di settembre e per la prima volta, dopo anni di convivenza, ero tornato solo.

    Guardavo la costa calabrese avvicinarsi confusa nella foschia mattutina, le mani piantate in tasca, le braccia dritte come pali di una palafitta che tenta di resistere ad un uragano, lo sguardo perso e ogni neurone impegnato a non pensare, a non ricordare, almeno per qualche momento, almeno su quel ponte. Guardavo la costa avvicinarsi e quel pensiero mi entrò nella testa, scartò l’ostacolo della consapevolezza, seminò quel guardiano inflessibile che è la nostra volontà e si insinuò come fumo sotto la porta chiusa della negazione esplodendomi nel cervello: sì, certe volte non c’è possibilità di scegliere, certe volte bisogna partire, pensai.

    Non avevo ancora realmente capito cosa esattamente mi stesse portando via, via dalla mia terra e da tutto ciò che avevo in Sicilia. Non sapevo esattamente dove e se avrei potuto trovare una ragione per continuare, per poter dare un senso al mio futuro che in quel momento mi sembrava una parola vuota, senza significato, una tra le tante.

    Guardavo all’orizzonte, lo stomaco stretto come un pugno, gli occhi fissi sul nulla e la mente che non voleva, che non poteva smettere di pensare a ciò che era stato, a tutti i momenti belli che non si sarebbero più ripetuti, a ciò che avevo perso e che non mi sarebbe stato restituito.

    Il fischio del ferry-boat salutò la costa calabrese ed ebbe il potere di far fiorire sulle labbra del bambino un esilissimo sorriso.

    I ragazzi si incamminarono sempre stretti nel loro abbraccio verso la rampa d’uscita, il bambino lo accolse con un senso di liberazione, il turista con un po’ di tristezza.

    Io tentai di rilassare le braccia, di pensare che anche per me quel suono poteva segnare l’inizio di una nuova fase, di una seconda possibilità.

    Tentai, ma non mi riuscì.

    E allora, per la prima volta mi voltai ad ovest, a guardare quella striscia di terra all’orizzonte che un giorno era stata la mia terra, a vedere ciò che mi apprestavo a lasciare. Pensavo che il dolore sarebbe esploso immediato e crudele, e invece... niente.

    Non una lacrima, non un pensiero, l’isola era per me ormai solo ciò che avevo davanti agli occhi: una lingua anonima di terra all’orizzonte ammantata dalla foschia e niente più.

    Quello sputo d’acqua che la separava da me era divenuto un oceano, un abisso gettato tra il calore del passato e il gelo incognito del futuro, tra ciò che era stato e ciò che forse avrebbe ancora potuto essere.

    Non era stato poi difficile abbandonare tutto, dopo essere stato abbandonato.

    Mi sentivo come Scilla alla quale l’acqua avvelenata dello stretto fece crescere mostri al posto delle gambe.

    Io i miei mostri li portavo con me.

    Qualunque futuro avessi davanti, qualunque lavoro mi attendesse, chiunque mi stesse inconsapevolmente aspettando per condividere il resto della mia vita, i miei mostri li portavo con me e non si sarebbero mai scrollati dalla mia schiena.

    Mario sostiene che è di quello che siamo fatti, che è quella la nostra sostanza.

    Un giorno sulla nostra panchina mi disse che siamo fatti di cicatrici.

    Forse non è esattamente così, non per tutti almeno, ma quel giorno, su quella panchina, capii esattamente cosa intendesse.

    Su quel ponte invece, i pugni stretti, la solitudine nell’anima, la rabbia che inondava la realtà, rendendo tutto uguale e senza senso, capii solo che era giunto il momento, che era tempo di scendere da quella nave.

    2

    lo scompartimento galleggiava in una strana atmosfera: innanzitutto l’odore, un misto tra il profumo troppo dolce della ragazza seduta alla mia destra, l’acqua di colonia della signora anziana che stava di fronte a me e qualcosa di commestibile, qualcosa tipo pane o dolci che sicuramente qualcuno aveva messo in valigia. Il treno era ripartito, dopo essere stato vomitato dalla pancia della nave, ed ora, al finestrino alla mia sinistra, un paesaggio brullo, quasi da film western, scorreva con una lentezza scoraggiante. Si respirava una tensione strana, quella tensione che spesso si trova nei luoghi stretti dove perfetti sconosciuti sono costretti a condividere il loro spazio vitale per un po’ di tempo, l’atmosfera che potevi trovare in ascensore, nella sala d’aspetto di un dentista, o in uno scompartimento da sei posti di un treno a lunga percorrenza, appunto.

    Certo un viaggio come quello sarebbe senza dubbio stato diverso a fianco di Angela, con lei quell’atmosfera non sarebbe durata a lungo.

    Alzai lo sguardo sulla signora che mi stava di fronte. Leggeva un libro voluminoso del quale non riuscivo a scorgere il titolo, aveva lo sguardo rilassato e sembrava completamente rapita dalla sua lettura. Portava i capelli grigi raccolti ordinatamente in uno chignon sopra la testa, due vistosi orecchini d’oro a forma di fiore con un pendente forse un po’ troppo impegnativo che dondolava al rollio sommesso del treno diventando quasi ipnotico. Era sovrappeso, per usare un eufemismo, molto sovrappeso e il vestitino di cotone blu scuro che indossava faceva di tutto per contenerla senza esplodere. Portava degli occhiali a mezzaluna, due spicchi di mandarino uniti da aste d’argento sottili sottili. Pensai che forse Angela si sarebbe rivolta proprio a lei per allentare la tensione di quello scompartimento, per rompere il ghiaccio, forse le avrebbe domandato qualcosa riguardo al libro, o avrebbe parlato del modello dei suoi orecchini mia madre ne aveva un paio uguale avrebbe detto, oppure sono molto belli, sono fatti da un artigiano vero? o magari qualche altro argomento, ma tempo cinque minuti e sarebbero state come due vecchie amiche in viaggio di piacere. Poi sicuramente avrebbe coinvolto anche me, consentendomi di entrare nel loro circolo privato. Faceva sempre così Angela, si preoccupava sempre che io fossi a mio agio, che stessi bene, era protettiva. A volte mi ricordava Enzo, mio fratello maggiore, che quando al campetto vedeva qualcuno giocare a pallone mi prendeva per mano e andava a chiedere ci fate giocare? e se quelli accettavano tutti e due si giocava, altrimenti... se non entra lui non entro neanch’io.

    Ma puntualmente si entrava in due.

    Anche Angela mi proteggeva, non perché fossi piccolo e deboluccio come allora, ma perché ero incapace di stringere nuove relazioni con facilità, ero un po’ orso, come diceva lei.

    Non avrebbe dovuto lasciarmi così, pensai, e...

    mi resi conto di essermi fissato per troppo tempo sulla mia compagna di viaggio, gli occhi nocciola della signora si alzarono lentamente su di me e un sorriso un po’ imbarazzato ma gentile affiorò sulle sue labbra.

    Distolsi lo sguardo.

    Accanto a lei un pretino molto giovane e impacciato fingeva di consultare il suo breviario lanciando ad intervalli regolari occhiate sempre più interessate alle gambe della ragazza che mi sedeva accanto. Aveva i capelli cortissimi, come un marine bambino, un visino imberbe e liscio come una pesca matura, mani affusolate e candide e occhi spaventati. Mi sarebbe piaciuto entrare nella sua testa per capire se quello sguardo riflettesse poca convinzione rispetto a ciò che stringeva tra le mani o troppo desiderio di ciò che rubava con lo sguardo. Sembrava schiacciato da qualcosa di più grande di lui, forse dalle rinunce che avrebbe dovuto accettare, da una vita appena cominciata e già da restituire in qualche parrocchia lontana, tra la puzza d’incenso e il gelo della castità. Quegli occhi mi fecero anche capire che non ero il solo a viaggiare verso l’ignoto, accompagnato da un mare di paure e con un senso di sconfitta pesante dentro alla valigia.

    Ancora una volta mi trovai a fissare altri occhi sconosciuti e, quando quel ragazzo incrociò il mio sguardo, dopo un attimo di imbarazzo, divenne paonazzo e si rituffò letteralmente tra quelle pagine tanto importanti.

    Nell’ultimo sedile, infine, quello accanto al corridoio, sedeva un signore sulla settantina che viaggiava con la moglie seduta davanti a lui e un numero imprecisato di valige, anche lui attratto dalle gambe della mia vicina, attrazione che manifestava in maniera più spontanea e disinibita di chi gli stava accanto, tanto da farsi venire il torcicollo. Ogni tanto la moglie lo apostrofava con frasi rapidissime espresse in un dialetto calabrese strettissimo che non riuscivo a comprendere con esattezza e che non sembravano comunque fungere da valido deterrente al genuino interesse dell’anziano marito.

    Avevamo lasciato Villa San Giovanni da quasi un’ora e mezza quando quell’uomo decise di rompere il silenzio che fino ad allora aveva segnato il nostro viaggio. Si stiracchiò rumorosamente ed iniziò ad impartire ordini alla moglie perché si decidesse finalmente a tirar fuori qualcosa da mangiare, poi si rivolse a noi come ci si rivolge ad una scolaresca

    - Lorsignori non si incomodino, se permettete al pranzo vorremmo pensare noi. Abbiamo un sacco di roba buona, tutta roba delle nostre campagne e dei nostri animali.

    E così dicendo iniziò a mettere nelle mani del suo povero vicino un paio di panini da cui debordava ogni bendiddio.

    Il giovane raggiunse un preoccupante colorito rosso pompeiano e, in evidente imbarazzo, fece un impercettibile cenno di ringraziamento con il capo iniziando a scartare la pellicola trasparente di uno dei due panini.

    - Padre ma cheffà si mangia tutto!?

    La moglie gli assestò un calcio su una caviglia che lui neanche avvertì e il prete aumentò l’escalation cromatica

    - Ve lo insegnano già da piccoli eh, in seminario intendo, a non lasciare niente agli altri eh?

    L’imbarazzo nello scompartimento era palpabile, ma l’uomo non sembrava accorgersene e continuava, pensando di essere divertente, a prenderlo di mira con un sorriso beffardo sulle labbra

    - Faccia scorrere no! Madonna il vizietto... – e rivolto alla moglie - oh Maria non fare la pesante, vedi che il padre qui ha capito che scherzo. Dico bene giovanotto? Che poi forse era già sazio

    Il sacerdote lo guardò con fare interrogativo in bilico tra una crisi di nervi e la curiosità

    - Sazio? – chiese con una vocetta gentile, quasi rotta, che mi fece intenerire immediatamente

    - Ebbeh – e gli diede una gomitatina da compagnone – se l’è mangiata con gli occhi fino a un minuto fa alla signorina!!!

    Nello scompartimento calò un gelo immediato, la ragazza fece finta di non aver capito, tutti noi facemmo finta di non aver capito e lui, non soddisfatto, cercava invano lo sguardo di qualcuno per poter spiegare la battuta, perché se nessuno rideva, doveva per forza esserci alla base un’incomprensione.

    Pensai che non esiste peggiore sventura di imbattersi in quel particolare tipo di persone, in quelli che pensano di aver avuto in dono un incredibile simpatia, quelli schiavi delle battute ovunque e comunque, quelli che ti perseguitano per raccontarti l’ultima barzelletta e si arrabbiano se non ridi, se non partecipi, se non li ammiri mentre se ne stanno sotto i riflettori, al centro dello show. La moglie si alzò di scatto, gli prese nervosamente la borsa dalle mani e gli disse tutto d’un fiato

    - finiscila ca a sta facendu lorda. Chiuri sta ucca e mangia!!

    Poi con calma prese a distribuire i panini a tutti i presenti, con gentilezza, quasi a tentare di ricostruire un’atmosfera vivibile.

    Il pretino tentò invano di aprire il suo involto, ma le mani gli tremavano troppo, e allora si alzò educatamente e facendo un mezzo inchino disse quasi tra se

    - Scusate, scusate devo uscire un attimo

    Scavalcando le ginocchia del vecchio aprì la porta e si perse nel corridoio pieno di gente.

    3

    Il silenzio era finalmente calato e ognuno era intento a mangiare il proprio panino. Io mi guardavo intorno e ripensavo a ciò che era appena successo. Chissà cosa stava passando per la testa dei miei compagni di viaggio? La signora davanti a me aveva uno sguardo impaziente e ad ogni morso lanciava un’occhiata fugace al libro che aveva riposto, il vecchio era imbronciato e guardava la moglie con lo sguardo di chi ha subito un’umiliazione, di chi è stato vessato senza avere colpa. La ragazza alla mia destra diede non più di tre morsi al suo panino, poi lo riavvolse con cura e lo posò riprendendo la lettura della sua rivista.

    Mi era sempre piaciuto tentare di sintonizzarmi sui pensieri degli altri, tentare di entrare nelle loro menti. Angela sosteneva che era per quella mia passione che mi ero laureato in psicologia, e forse era proprio così. A pensarci bene, forse era proprio perché sapeva quanto era forte la mia passione per la psicologia che non mi perdonò mai di avervi rinunciato per andare a lavorare in ufficio da suo padre.

    Suo padre, che il diavolo se lo porti quello stronzo!

    Ma io non mi ero affatto venduto, o perlomeno, non pensavo di averlo fatto. Semplicemente volevo piacergli.

    No, a dire il vero, ero ossessionato dal fatto di dovergli piacere.

    Non lo sopportavo e certamente lui non sopportava me, ma volevo dimostrargli che sbagliava, che io valevo quanto lui, più di lui! E così quando, quasi per provocazione, con quella faccia da schiaffi mi aveva proposto di andare a lavorare da lui e di lasciare quella miseria di consultorio, con un’aria di sfida, quasi a dire so che rifiuterai, che non ti ritieni all’altezza gli dissi di sì, che ci sarei andato volentieri. Non so perché, forse davvero mi ero venduto per quattro soldi, forse lo avevo fatto solo perché vendere immobili rende di più e impegna meno la mente che arrovellarsi la testa sui problemi degli altri, o forse perché finalmente avrei potuto sentirmi parte della famiglia, la famiglia del cavalier Losignore. Avrei potuto partecipare al loro seguito la domenica mattina, mettere il vestito buono e passeggiare con loro lungo corso Garibaldi, benvestito e profumato, salutare la gente dall’alto in basso, poter dire lei non sa chi sono io. Non so, sta di fatto che per un po’ di anni non fui più Francesco Grosso, figlio di Onofrio, il panettiere del paese, ma il genero del cavalier Losignore. E tutte le domeniche si andava a pranzo da papà, che coi suoi modi gentili e la sua sensibilità non mancava di ricordarti che la famiglia Losignore ti aveva raccattato per strada, con le pezze al culo, come un gatto randagio, e come un gatto rognoso, appunto, ti trattava. Quante serate perse, buttate via a litigare con Angela ma come fai a non accorgertene! Come si può non vedere il disprezzo che prova per me lei si incupiva, piangeva e diceva che ero prevenuto, che suo padre amava fare battute e che sì, a volte potevano anche essere fuori luogo, magari anche pesanti, ma non lo faceva con cattiveria, lui era così.

    Lui era così...

    Sì a pensarci bene, non era poi tanto difficile capire perché, dopo essere stato mollato lì tutto solo da Angela, avessi aggiustato due cose velocemente e mi fossi imbarcato in quel viaggio a testa bassa.

    Mario dice che quando capitano certe cose, ognuno ha il diritto di scegliere il proprio castigo. Lui a suo tempo scelse il suo, ed io forse stavo andando incontro al mio.

    Il treno decelerò e si fermò alla stazione di Sapri, guardai l’orologio, erano quasi le tre del pomeriggio, viaggiavamo con mezz’ora buona di ritardo. Non sarebbe stato un grosso problema perché a Napoli avrei avuto più di un’ora per la coincidenza, pensai.

    4

    ... muoviti Mimma che restiamo su

    ci sono ci sono, non andare in paranoia mamma che tanto deve stare fermo almeno cinque minuti...

    voci lontane, rumore di valige trascinate, passi affrettati, una voce meccanica che urlava da un altoparlante a mille chilometri di distanza.

    Aprii gli occhi, mi ero appisolato.

    Eravamo fermi ad una stazione. La ragazza di colore che avevo di fronte continuava a dormire, di fianco a me la bambina che era salita a Napoli strapazzava con cattiveria il suo Game Boy, mentre sua madre nel sedile accanto era ancora ferma sul cruciverba iniziato ore prima. L’orologio sulla banchina segnava le sei e un quarto e sul marciapiedi un formicaio di persone si muoveva disordinatamente. Nella folla dei passeggeri in salita, una ragazza bionda e molto carina con mille treccine raccolte in una coda di cavallo, trascinava due pesanti valige tenendo il biglietto stretto tra i denti. Qualche metro dietro la fila dei passeggeri in salita, un universo di persone in attesa di amici e parenti. Ogni tanto qualcuno si riconosceva e allora si abbracciavano, si baciavano e puntualmente ingaggiavano una finta lotta di convenevoli per chi doveva occuparsi delle valige le porto io... non ti preoccupare, sono stato seduto fino a mo’, le porto io, non c’è problema...

    Non avevo idea di dove ci trovassimo e stavo per consultare l’orario che mi ero portato quando la voce meccanica irruppe nello scompartimento Roma Termini, stazione di Roma Termini. Treno Eurostar Italia 9450 Frecciarossa proveniente da Napoli Centrale e diretto a Milano Centrale è in partenza dal binario 13, ferma nelle stazioni di Firenze Santa Maria Novella, Bologna Centrale, Milano Centrale, si rammenta a i signori viaggiatori... ascoltando quella voce mi sfuggì un sorriso. Ormai ci si era fatta l’abitudine, ma quelle voci meccaniche erano davvero mostruose. E non perché, come avrebbe detto Massimo che avrei incontrato tra qualche ora a Milano, avevano rubato il posto di lavoro a persone vere, in carne ed ossa, non solo per questo almeno, ma per la spersonalizzazione, per la freddezza e l’assenza di una qualsiasi inflessione, per i cambi di tono incoerenti che quel mosaico di registrazioni ti obbligavano a subire.

    Iniziai la seconda fase di quel viaggio, e come al solito mi apprestai a studiare i miei compagni. La ragazza di fronte a me doveva essere senegalese, l’avevo sentita parlare al telefono in francese con un accento molto strano, era molto bella, ben vestita e molto curata. Aveva capelli lunghi e un foulard rosso sulle spalle per proteggersi dall’aria condizionata che da quando eravamo partiti da Napoli dava in effetti un po’ di fastidio. Appena ripartiti si era svegliata ed ora stava studiando un libro d’arte che ogni tanto chiudeva per poter scrivere degli appunti su un quadernetto blu che teneva appoggiato sul tavolino. Di fianco a lei, in quel posto che nell’altro treno era occupato dal giovane prete, era seduto un ragazzotto sui venticinque anni. Da quando era salito, non aveva fatto altro che parlare con l’amico che stava alla sua sinistra. Era un bel ragazzo, atletico, occhi azzurri e un accento che più milanese non sarebbe stato possibile. Era sicuramente un Ingegnere. Sì, non un ingegnere qualsiasi, ma di quelli con la I maiuscola, quelli convinti di appartenere ad una razza eletta.

    Quando, quasi mille anni prima, mi trasferii a Milano per studiare psicologia, avevo conosciuto un sacco di persone, tra le quali Massimo che all’epoca studiava filosofia alla Statale. Con lui mi ero subito trovato a mio agio, avevamo gli stessi interessi, la stessa passione per la musica, ma soprattutto avevamo sviluppato una straordinaria capacità di analizzare il prossimo. Durante le nostre serate di chiacchiere a ruota libera ci era capitato più di una volta di soffermarci sulla tipologia di persone etichettabili come Ingegneri. Attenzione l’Ingegnere non è una professione, ma un modo di intendere la vita, per cui gli appartenenti a quella categoria non devono necessariamente aver frequentato il Politecnico, ma possono essere pianisti, maniscalchi, trapezisti, peracottai...

    La caratteristica dell’Ingegnere è la convinzione autentica di appartenere ad una razza eletta e, a corollario di questa convinzione, c’è la certezza che tutti coloro i quali fanno un lavoro diverso dal loro, non lo fanno perché attratti da altre discipline, da altri interessi, ma solo perché non sono stati in grado di fare ciò che gli Ingegneri fanno. Massimo definì questo soggetto come Ingegnere, perché in quella facoltà non era difficile imbattersi in qualche esemplare del genere, gente convinta che Leopardi avesse ripiegato sulla letteratura perché spaventato dalle funzioni di secondo grado, o che Mozart dovette per forza darsi alla musica (la musica, esiste qualcosa di meno necessario?) solo perché respinto due volte all’esame d’ammissione di ingegneria meccanica.

    Il ragazzo intanto stava spiegando al suo vicino perché la monorotaia è più veloce rispetto ad un treno qualsiasi, è solo questione d’attrito, disse con fare professorale, e probabilmente più quell’altro dimostrava di non sapere, più il suo ego smisurato riusciva a fare tacere quel senso di inadeguatezza che pervade gente del genere.

    In questo, pensai, mi ricordava un po’ il Cavalier Losignore, anche lui aveva sempre bisogno di rinfrancare il suo ego malato, per mettere a tacere le ansie derivanti dall’aver costruito una fortezza su un sottilissimo strato di ghiaccio, una vita di apparenze senza grosse sostanze alle spalle.

    ***

    Un giorno, poco tempo dopo il matrimonio, mi convocò nel suo ufficio per parlarmi di alcune procedure di vendita. Dopo aver parlato per qualche istante l’interfono gracchiò e la segretaria gli comunicò che il signor Nicolosi dell’impresa di pulizie era arrivato.

    - Lo faccia entrare

    Mi guardò con fare sornione e disse

    - Ci metto un attimo

    Nicolosi entrò nell’ufficio intimidito, come un bambino convocato dal preside della scuola per qualche oscuro motivo. Era un omone eccezionalmente alto e robusto, con due occhi tristi e spenti, due occhi buoni.

    Mio suocero non lo salutò neppure, non gli chiese di sedersi per metterlo a suo agio, ma lo aggredì immediatamente accusandolo di avergli perso un documento importante, di averlo gettato tra la carta straccia. A nulla valsero le sue giustificazioni, anzi più quell’uomo negava e più nel Cavaliere aumentava l’aggressività. Le urla si sentivano in tutti gli uffici, in tutto il palazzo.

    - Ma come minchia fa a non ricordarselo! Un documento con una scritta Giudecca alta tanto così, e un’immagine di pupi stampata in alto adestra. Dico non saprà leggere ma i pupi li sa riconoscere no? O mi sbaglio Madonnuzza Santa!

    Alla fine Nicolosi, con le lacrime agli occhi per la rabbia e i pugni stretti nelle tasche ammise che forse, senza accorgersene, avrebbe potuto averlo buttato, lo vidi umiliarsi come mai avrei pensato per mantenere il suo posto di lavoro, per poter continuare a spezzarsi la schiena per noi, per il suo stipendio da fame, poi abbassò gli occhi e se ne andò.

    Mio suocero lo guardò allontanarsi lungo il corridoio seguendolo con uno sguardo colmo di disprezzo, poi mi guardò coi suoi occhi da vincente, aprì il cassetto della scrivania, mi mostrò il documento e mi strizzò l’occhio.

    - Hai visto dottore? Giudecca! Fa rima con scecca, come scecca doveva essere la madre di quel cristone. Chi è disperato non ha dignità, o per lo meno non se la può permettere. Ricordalo. – disse tronfio e divertito, convinto di dispensarmi un’impagabile pillola di verità

    ***

    Forse fu proprio quella volta che i miei sentimenti nei suoi confronti iniziarono a mutare, ad evolversi. In quello sguardo vidi arroganza, violenza, onnipotenza, insomma, vidi il Cavalier Losignore. Ma per un attimo, un misterioso attimo, mi riuscì di vedere ciò che c’era veramente dietro quegli occhi, dietro quell’atteggiamento, vidi qual era il motore, la struttura, l’armatura che reggeva l’intera esistenza di mio suocero: la paura.

    Sì, la paura.

    Una paura che gli imponeva ogni giorno di cercare conferme, gli imponeva di umiliare gli altri per sentirsi forte, di costringere chi gli stava intorno a perdere per sentirsi vincente.

    Con Massimo non eravamo mai arrivati a queste considerazioni, ritenevamo semplicemente un po’ patetici quei giovanotti pieni di sé, ma non avevamo ancora avuto dimostrazione di quanto potesse essere nocivo, perfino pericoloso, uno stupido con un minimo di autorità. Forse dovrei essere riconoscente al Cavaliere per avermelo dimostrato.

    Un giorno Mario mi disse che non conta tanto ciò che una persona sa fare quanto ciò che è disposta a fare, penso si riferisse proprio a questo.

    Mario... quanto tempo ancora sarebbe passato prima di conoscerlo. È possibile provare nostalgia per una persona che ancora non si conosce? Se è possibile, penso che parte del mio malessere di allora fosse proprio questo.

    Guardai ancora quel ragazzo, ora stava facendo degli schemi sul retro del biglietto, lo guardai e questa volta però mi scaldò il cuore. Era quasi tenero lì a sforzarsi, a mettercela tutta per dimostrare di essere bravo, di essere intelligente. La mia compagna di viaggio lo guardò di sottecchi, poi mi rivolse uno sguardo furbo ed emise un piccolo sbuffo sorridendo e infilandosi la penna tra due file perfette di denti bianchissimi.

    5

    c’era molta meno gente sul treno, e alla stazione di Bologna scesi a fumarmi una sigaretta in santa pace. L’aria sulla banchina era piacevolmente tiepida, erano le ventuno e trenta e il cielo era già buio.

    Mentre cercavo di rilassarmi, nella mia testa scorrevano una serie infinita di pensieri disordinati, facce, luoghi, sensazioni: come avrei trovato Massimo? Sarei stato d’impiccio a casa loro con Laura all’ottavo mese? Come sarebbe stato tornare a Milano dopo più di dieci anni di assenza? Come avrei risposto alle loro domande, perché di certo avremmo parlato di Angela...

    - Ne hai una anche per me?

    Quella voce profonda, con quell’accento così particolare mi fece tornare coi piedi per terra. Mi girai e vidi che anche la mia dirimpettaia se l’era data dallo scompartimento. Non dissi nulla, mi limitai a tirar fuori il pacchetto, dargli un colpetto e fare uscire una sigaretta. Poi misi una mano in tasca, estrassi l’accendino e gliela accesi. Fece conca con le mani attorno alla fiamma toccando le mie. Aveva le mani gelate.

    - Grazie – disse con la bocca mezza chiusa e occupata a stringere il filtro della Camel

    Espirò nervosamente ed indirizzò un cenno al nostro finestrino

    - Sono dovuta fuggire, quel ragazzo mi ha fatto scoppiare la testa. Ma esiste qualcosa su cui non abbia una sua opinione? Sa tutto!

    - O pensa di saperlo

    - Sì, o pensa di saperlo – ripeté lei, poi allungò la mano energicamente – sono Marèm... e sono esausta da questo viaggio

    Gliela strinsi, aveva una stretta davvero decisa

    - Francesco, sono stanco anch’io... vengo da Castelvetrano

    - E dove è?

    - Conosci Selinunte?

    - Selinus?

    - E’ lì che abito... abitavo almeno fino a ieri.

    - Ma è fantastico, la Mallophoros, l’acropoli, il parco. Ho dato due esami di archeologia su Selinunte, è davvero un sogno. E da quel paradiso te ne scappi a Milano?

    Evidentemente ce l’avevo scritto in faccia che stavo scappando

    - Non sto scappando – mentii – e poi Milano è qualcosa di più della nebbia, è una città molto viva, interessante. Ci ho vissuto tanto tempo fa e mi ci sono trovato bene.

    - Ma sì, scherzavo – abbassò gli occhi – è a me che non piace, lì la gente mi guarda con sospetto, capirai nera e musulmana, esiste qualcosa di peggio?

    Beh, no. Non per certe persone almeno. Oppure sì, avrei potuto dirle, se tu fossi omosessuale potresti fare l’en plein. Ma non le dissi così, mi limitai ad indicarle con lo sguardo lo squarcio sul muro della stazione, quella ferita rimasta lì, fossilizzata, monumentalizzata per continuare a ricordare.

    - La vedi quella?

    - Sì, cos’è un terremoto?

    - No, una bomba. Ottantacinque morti e duecento e passa feriti. Uomini, donne, bambini, anziani. Italiani, stranieri, bianchi e neri, gialli e blu. Quella è la lapide – gliela indicai – leggi, leggi le età, ci sono bambini di sei anni e vecchi di ottantasette.

    - È terribile

    - Sì è terribile e vedi cosa c’è scritto ... vittime del terrorismo fascista. Non avevamo bisogno di al-Qaida per ammazzarci tra noi, e neanche per aver paura degli altri. Quelli che hanno fatto questo avevano nomi italiani, facce italiane, famiglie italiane, forse perfino buone famiglie italiane – buttai il mozzicone sui binari sotto al treno fermo – ma forse questo è inaccettabile, fa troppa paura. Vedere il male in qualcuno fatto come noi è come ammettere che il male ce lo portiamo dentro, e allora è tranquillizzante poter dire che i cattivi sono fatti diversi, non credi?

    - L’uomo nero?

    - L’uomo nero.

    Un ferroviere con il cappello rosso ci invitò a salire e subito dopo soffiò nel suo fischietto. Marèm gettò con un gesto meccanico la sua sigaretta consumata solo a metà e mi precedette. Non avevo nessuna intenzione di rientrare nello scompartimento e così le dissi

    - Ti va un caffè? La carrozza ristorante è oltre quella porta.

    - Ok, ti seguo.

    Certo a definirlo vagone ristorante ci voleva una buona dose di immaginazione. Prima di pigiare il pulsante di apertura delle porte avevo nella mente una serie di immagini da film in cui, nella carrozza ristorante, ci sono i tavolini al lume di candela, qualcosa tipo assassinio sull’Orient Express, invece lì tutto si risolveva in un bancone lungo sommerso da dispenser di caramelle, cicche e tortine. Il resto della carrozza era attrezzato con tavolini piccolissimi arroccati su steli sottili e alti, come fiori di plastica usciti male dalla fabbrica, su cui ci si poteva appoggiare restando in piedi. La delusione fu totale.

    Appena entrati potei constatare coi miei occhi cosa intendesse Marèm quando sosteneva di essere guardata con sospetto. Due ragazzoni che stavano parlando e ridendo tra loro ci diedero un’occhiata veloce, poi uno disse qualcosa schermandosi la bocca e l’altro, senza badare troppo alla figura da imbecille che si apprestava a fare, iniziò a ridere sputando briciole ovunque.

    L’addetto al bancone si rivolse a noi con un fare strano, non lo so spiegare, ma aveva un modo di fare fuori luogo, un sorriso ammiccante sulle labbra e l’atteggiamento condiscendente di chi si rivolge ad un ragazzetto non troppo intelligente. Lì per lì non gli diedi troppa importanza, pagai i due caffè e ci spostammo su uno dei tavolini. Non pensavo neanche che Marèm avesse notato quel tipo e invece

    - Hai visto cosa intendevo?

    - Cosa scusa, non ti seguo – dissi facendo finta di cascare dalle nuvole

    - Ma sì, non hai visto come ci ha parlato quello stronzo, non hai visto il suo sguardo! E sai perché?

    - Perché è stronzo? – Feci quella battuta per fermarla, perché non dicesse quello che anch’io avevo intuito, perché mi aveva fatto male, mi aveva messo in imbarazzo, come uomo e come italiano

    - Anche – sorrise, poi si rabbuiò – no, è convinto che io sia una puttana, di quelle che rimorchiano sui treni e nei locali pubblici. Mi vede, vede che sono nera, sono in compagnia di un uomo, e allora fa due più due. Una volta riuscivo a sbattermene, ma è difficile, perché capita sempre. E quando sono sola è ancora peggio, perché vengo abbordata, guardata come un animale strano, a volte perfino insultata.

    - Deve essere insopportabile

    - Terribile, davvero terribile. La gente si rivolge a me dandomi del tu, quasi nessuno pensa che meriti rispetto, e se tenta di essere gentile mi tratta come un bambino deficiente. Ho trentacinque anni e ho vissuto per dieci anni a Parigi, parlo quattro lingue, lavoro da sette anni in una galleria d’arte importantissima! Ma da quando sono in Italia, poche volte mi è capitato di essere trattata con rispetto.

    Gli occhi le si stavano inumidendo, era tutta tesa, stringeva la tazzina del caffè con tanta forza da farsi ingiallire le nocche. Non doveva essere facile sopportare tutto quello.

    Mi faceva venire in mente le nottate passate con Massimo a parlare di politica e di integrazione, le litigate in università durante l’occupazione con i gruppetti di leghisti. Le litigate con Marco Belleri, il rappresentante dei Giovani Padani, che quando era in difficoltà, quando non sapeva più ribattere (e vi assicuro che capitava molto spesso) allora concludeva sempre con frasi del tipo tornatene a casa tua terrone di merda oppure ci vorrebbe ancora Hitler per rimandarvi alle vostre case a mangiare sapone in un carro bestiame e tante altre belle battute edificanti.

    Ora toccava ai neri e ai musulmani, prima era toccato ai meridionali, poi agli albanesi e qualche anno dopo, ma ancora non lo sapevamo, sarebbe toccata ai rumeni la parte dell’uomo nero.

    - È una ruota che gira – le dissi – non finirà mai, l’asse di quella ruota è la paura e l’ignoranza

    - due cose di cui l’umanità dispone in abbondanza!

    - Certo, non ne rimarremo mai senza!

    Fuori dai finestrini si iniziavano a vedere le prime luci di Milano, ci incamminammo verso lo scompartimento per recuperare i bagagli e prepararci a scendere. Marèm mi precedeva, era davvero molto bella, pensai che se ci fossimo incontrati in un altro momento forse le avrei chiesto il numero di telefono, per provare ad uscire assieme qualche sera, ma era davvero troppo complicato. Prima di entrare, si girò, socchiuse gli occhi e mi rivolse un sorriso sincero

    - Grazie della sigaretta, del caffè e... grazie della compagnia.

    Le restituii il sorriso e feci un passo indietro per lasciarla entrare.

    6

    appena mi affacciai al marciapiedi della stazione di Milano venni travolto dai ricordi, era come se non me ne fossi mai andato. Certo in quei quindici anni la stazione s’era fatta il lifting: nuovi monitor, tapis roulant, e cantieri ancora aperti ovunque, ma la sensazione fu davvero quella di ritrovarmi a casa. In effetti è strano a pensarci, sì perché a Milano c’avevo passato solo pochi anni e a Castelvetrano il resto della vita, ma forse erano stati gli anni più significativi, o forse semplicemente tra i più felici. Appena sceso dal vagone iniziai a sudare, c’era un’umidità molto pesante e quasi insopportabile se paragonata al fresco dello scompartimento, mi guardai subito intorno per tentare di individuare Massimo e mentre ero tutto concentrato sentii una mano poggiarsi delicatamente sulla mia spalla, mi voltai ed incrociai gli occhi scuri di Marèm.

    - È stato davvero un piacere – mi disse, poi mi allungò un biglietto da visita – vienimi a trovare alla galleria se ti va, così ricambio il favore e ti offro una tazza di caffè

    Finsi di guardare il biglietto, lo misi in tasca e le sorrisi

    - Grazie, verrò senz’altro – ma sapevo che

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