La cura
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I demiani sono pacifici. Hanno fatto dell’uguaglianza il faro guida della loro politica, attraverso un Sistema che garantisce una rigida selezione della specie ed una filosofia educativa finalizzata al controllo delle emozioni e alla salvaguardia del Bene comune, considerato di prioritaria importanza rispetto a quello individuale, causa dell’egoismo, dell’invidia, della rabbia, dell’odio…
Non solo. I demiani sono tecnologicamente molto avanzati, soprattutto nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale, il cui progresso ha reso possibile il raggiungimento dell’obiettivo più ambito da sempre: l’immortalità. Una volta ottenuta la mappatura cerebrale completa del funzionamento e dello stato neuronale, il file “coscienza” di un individuo può essere facilmente copiato all’interno di un corpo robotico, riparabile all’infinito. Ed è così che un U.N.R. (Unità Non Robot), dopo una serie di prove e di test ad hoc, diventa un U.R. (Unità Robot). Infatti il Passaggio è possibile solo se l’individuo, oltre a soddisfare tutta una serie di requisiti fisici e cognitivi, è psicologicamente sano. Per i demiani “difettosi” l’alternativa al Passaggio è l’ibernazione a tempo indefinito, in attesa della scoperta di una cura.
La conquista della “vita eterna”, ad ogni modo, non è stata garanzia di felicità e, nonostante gli straordinari progressi scientifici, c’è ancora una piccola percentuale di demiani affetta da alcune malattie mentali, in primis la depressione.
Anna, di fatto, è stata selezionata proprio in virtù della sua malattia e della sua struttura di personalità, sorprendentemente simili a quelle di Violet, la figlia del Presidente di Demia, il luminare dell’ingegneria robotica Richard Pitt. Poiché sul pianeta Demia la sperimentazione sugli U.N.R. è stata proibita, Anna diventa l’unica possibilità per testare la cura che il Dottor Antony Stevens, fedele amico di Richard, ha messo a punto in laboratorio, nella speranza di salvare Violet. Per la prima volta, il Presidente si è servito del proprio ruolo istituzionale per soddisfare un bisogno personale. La ricompensa promessa ad Anna: la cura che permetterebbe alla madre di guarire dalla SLA.
Ma, una volta arrivata su Demia, il destino della terrestre prenderà una piega inaspettata… L’incontro (clandestino) con Violet, l’instabilità politica sul pianeta (dovuta al malcontento che, dopo tanti anni di pace, comincia a serpeggiare tra i demiani), il controllo esercitato nell’Ombra dal Consiglio dei Sapienti (organo supremo di supervisione, garante della pace e dell’equilibrio) porteranno tutti i soggetti coinvolti a mettersi a nudo, trovando il coraggio di dare voce alle emozioni e riscoprendo, in un ingannevole e labirintico gioco di specchi tra fantasia e realtà, nella disperata, quanto archetipica ricerca di un Senso, il valore della diversità.
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Book preview
La cura - Felicita Dell'Aquila
Frontespizio
La Cura
di Felicita Dell’Aquila
Dedica
A tutte le mie creature fantastiche,
che animano quel magico micromondo,
che io chiamo casa
Prologo
PROLOGO
La stanza della riunione, la N. B3D5, era quasi completamente buia. I sensori di luminosità divennero sempre più soffusi non appena i membri del Consiglio si alzarono per sciogliere l’assemblea.
Ernest Davill, il più giovane dei Sapienti, si trattenne qualche istante, finché la sua voce non spezzò il silenzio, quasi spettrale, di quel lungo corridoio: «Maestro…».
L’uomo incappucciato, poco più avanti, si arrestò. Lasciò proseguire gli altri otto membri del Consiglio, salutandoli con un cenno ossequioso del capo, e si voltò verso il giovane, mostrando un sorriso consapevole, di chi attendesse quel momento.
«Maestro io…» cominciò Ernest.
«Hai bisogno di parlarmi, non è così?» lo anticipò l’altro.
«Come lo sa?» chiese il giovane, rimarcando, con quella domanda e la meraviglia dello sguardo un’ulteriore reverenza.
Il Maestro buttò giù il cappuccio, lasciando scoperto il volto metallico: «Lo so perché ti ho osservato e ho sentito il tuo tormento. Vieni…» gli disse, invitandolo con un gesto della mano ad avvicinarsi «Camminiamo… La tua mente è offuscata dal dubbio e dalla paura, mio giovane Sapiente».
Il ragazzo continuava a fissarlo. «È proprio così!» confessò, quasi sollevato.
«Cosa ti preoccupa?».
«La decisione presa!».
«… Che abbiamo preso… se non vado errato… il voto è stato unanime».
«Sì, sì…» si affrettò a rispondere Ernest, e, dopo un attimo di esitazione: «Temo, però, che il mio sì sia stato dato più per l’enorme fiducia che nutro nei confronti del Consiglio che per reale autoconvincimento».
Il Maestro si arrestò e il giovane fece altrettanto. «Ernest» gli disse, tenendo puntati i suoi occhi grigi su di lui «Soffermati a pensare: il problema sta nella natura della decisione o nella decisione in sé? Non è forse l’assunzione di responsabilità che grava sulle tue spalle come un macigno?».
Il ragazzo ingoiò, come per darsi coraggio, e rispose: «No, Maestro! Temo per il futuro di Demia…».
«Tutti noi temiamo per il futuro di Demia. Come ben sai, le nostre decisioni non hanno un indice di predittività del cento per cento, c’è sempre un margine di errore… Ma, i membri del Consiglio devono convivere con l’accettazione di fallibilità. Come chiunque, del resto.».
Ernest sentiva tutto il peso di quello sguardo. Uno sguardo che ammirava, ma che, in parte, temeva. Il Maestro l’aveva voluto con sé. E lui aveva paura di tradire la sua fiducia e le sue aspettative. Avrebbe voluto dimostragli forza e coraggio, non debolezza. Eppure, lui era un membro del Consiglio che aveva gli stessi diritti degli altri, e sentiva, forte, il dovere di parlare. «Non riesco a non pensare al valore di questa pace, così faticosamente conquistata… è come se» per un attimo distolse il suo sguardo «È come se… non mi sentissi pronto a correre il rischio di di…».
«… Di cambiare?».
«Maestro, qui non si tratta della mia tendenza al controllo. Questo cambiamento porterà alla Rivoluzione!».
«Sì. Lo sappiamo» affermò l’altro, riprendendo a camminare. «Avverrà da qui a un decennio. Presto tutto sarà compiuto.».
«È la cosa giusta?» domandò Ernest, continuando a seguirlo.
«Mi fai domande di cui conosci già la risposta! Solo il futuro potrà dircelo con esattezza. Lasciare tutto esattamente così com’è significa azzerare l’evoluzione.».
«Ma… mi domando: ci sarà un momento in cui l’evoluzione si arresterà e la stasi non sarà letta come una condanna, piuttosto come una conquista?».
«È il nostro obiettivo. E non è esente da rischi. La tentazione di lasciare tutto esattamente così com’è è forte e comprensibile. Come ben sai, la decisione è stata maturata nel tempo… Non possiamo fermarci Ernest… l’umanità non è ancora pronta. Dobbiamo migliorare. Ancora.».
I due Sapienti restarono qualche minuto in silenzio, come se, entrambi, per un tacito accordo, avessero voluto sancire la solennità di quel momento…
«Mi sarebbe piaciuto che tu avessi manifestato i tuoi dubbi a tutto il Consiglio…» commentò infine il Maestro. «La decisione richiede l’unanimità… hai ventiquattro ore di tempo per sottoscrivere il tuo dissenso. Se così dovesse essere, nulla di quanto auspicato accadrà.».
Questa volta fu Ernest a fermarsi. «Il destino di Demia dipende dunque da… da me?».
Il Maestro tacque.
«Come vede, il mio sentire, la mia paura, il mio dubbio, il mio differenziarmi non sono che motivo di patimento, se non di rovina…».
«… O di arricchimento! Per tutti noi!».
Ernest lo fissò per qualche interminabile secondo e poi capì. «Sono stato selezionato per questo, non è così?» domandò, sollevando appena il tono della voce. «Avevate bisogno della mia diversità!».
«La tua intuizione va oltre le mie aspettative. Sì, è così!» rispose il Maestro, in modo serafico.
«Un emotivo nel Consiglio!! Come ho fatto a non pensarci prima?».
«Un emotivo che si difende dalla sua emotività.».
«Non posso uscire da questo paradosso! Non voglio sentirmi controllato! Lei… voi… mi avete manipolato!». Ernest sentiva che, nonostante anni di addestramento, avrebbe potuto perdere il controllo in qualunque momento e, per la prima volta dopo tanto tempo, sentiva crescere in lui un sentimento molto simile alla rabbia.
Il Maestro, invece, sembrava inamovibile. «Tutto è manipolazione! La tua ingenuità è disarmante! La differenza sta nello scopo!».
«Dovremmo essere tutti concordi nella condivisione dello scopo, non trova?».
«È esattamente quello che vogliamo. Il tuo dilemma ci sarà di aiuto, indipendentemente dalla decisone che prenderai.». Un attimo di pausa e: «Ma non è solo questo che ti tormenta… non è così?».
«Cosa vuole dire?».
«Lo vedo da come mi guardi. Il fatto che io sia un U.R. ti preoccupa… forse ti ha sempre preoccupato… stai pensando che potrei aver acquisito abilità comunicative tali da persuadere gli altri membri del Consiglio, non è così? Tu non ti fidi di me! E il fatto che io me ne renda conto è un aggravante, perché rinforza il tuo dubbio!».
Il ragazzo si sentì come messo a nudo. «Io so solo che sono stato incastrato in un gioco che non ho scelto!».
«Ernest! Ernest!» continuava a ripetere il Maestro, scuotendo la testa. «Ancora non l’hai capito?! È vero l’esatto contrario! È la tua libertà a essere il tuo tormento! Sei condannato a essere libero! Sei condannato a scegliere!».
Capitolo I
CAPITOLO I
Giornata nera.
Giornata buia.
Giornata vuota. Anzi no. Giornata piena di merda! Non dovrei usare questa espressione?! Be’, la uso lo stesso, perché è esattamente così che è stata la mia giornata di oggi, di ieri, dell’altro ieri e mi sembra di sempre da un anno a questa parte, come sarà di merda quella di domani, dopodomani e così via, fino a che campo…! Non c’è niente che vada bene! Niente! Anzi, diciamo che non c’è niente di discretamente accettabile o normale (Dio, odio questa espressione!) in questa mia vita… di merda! Sì, ribadisco! Di merda anche lei!
Basta, non voglio più scrivere! Tanto a che servirebbe? La realtà è questa! Gli uomini sono cattivi! Nulla di diverso e di nuovo! Molto semplice. E no, non credo di essere sbagliata io, né tantomeno paranoica.
Sa cosa è successo stamattina in classe? Il mio otto in matematica ha fatto sì che Viviana, la mia borghesuncola ‘compagna’ di banco, non mi rivolgesse la parola per ben cinque ore!! Ma come si fa a essere così?! Si stanno tutti organizzando per la festa di Halloween e ne parlano davanti a me, come se io fossi invisibile o venissi da un altro pianeta e, ciliegina sulla torta, ho trovato uno scarafaggio morto nel mio zaino!! Ma io cosa dovrei fare?! Che razza di crimine ho commesso per meritare questa tortura?!
E se, tornando a casa, mio padre non mi guarda nemmeno in faccia perché lui ha scelto di ‘affrontare’ la malattia di mamma buttandosi a capofitto nel lavoro e mia madre, come ben sa, è mezza morta in un letto da un anno a questa parte, me lo dice lei, dottoressa, come potrei io non essere depressa? A me, paradosso dei paradossi, sembra alquanto normale (e ritorna sempre questa parola!) che io lo sia... depressa dico!
Niente amici.
Niente ragazzo.
Niente famiglia.
Perfetto. Una vita magnifica. E ho appena quattordici anni!! Fortuna che non mi manca l’ironia!!
Ecco, questo è il mio diario di bordo di oggi. Ventuno ottobre duemiladiciotto. Compito assolto. Questo è quanto.
La dottoressa Frangipane sospirò profondamente, lentamente poggiò sulla scrivania d’ebano decorato a intarsi il diario che aveva appena letto a mente, e sollevò su di Anna uno sguardo apprensivo, spingendo con l’indice della mano il ponticello degli occhiali di celluloide rossa, sopra il naso perfettamente aquilino. La fissò per qualche istante, finché quel silenzio, che ad Anna apparve infinito, fu rotto da un laconico: «No! Non ci siamo!», accompagnato da un ritmico movimento del capo da sinistra verso destra, che rendeva quella persona più simile a un robot, programmato per reagire nello stesso identico modo, se posto di fronte a un dato input. L’input era: Paziente depressa, rompicoglioni e recidivante, a cui non può che far seguito una negazione, nel senso freudiano del termine, comunicata sia verbalmente che non. Vietato essere depressi sembra essere lo slogan che a caratteri cubitali lampeggia nella mente delle persone (psichiatri inclusi!) in modo simile alle scritte rosse dei campanelli di allarme, che si accendono a intermittenza per segnalare un pericolo: lo scoppio di un incendio, l’irruzione di un ladro in banca, la fuga di materiale radioattivo…
Radioattivo… Scateno queste reazioni perché sono contaminata? si chiese con amara ironia Anna, raggomitolata, immobile, su una sedia di velluto blu avion, immersa, non per sua volontà, ma del padre, in quella realtà surreale, fatta di quattro mura bianche, una scrivania con un portapenne di pelle marrone scuro, un orologio ovaloide di argento e legno di noce, col suo inesorabile e odiatissimo ticchettio, una copia di Guernica sulla parete di sinistra e la sfilata dei titoli di studio della Frangipane, esposti in barocche cornici dorate, a sottolinearne la magnificenza, che giganteggiavano sulla parete centrale, proprio al di sopra del caschetto rossiccio, mirabilmente liscio, della dottoressa.
Una distanza enorme sembrava dividerla da quella donna, una distinta e ancora attraente cinquantenne, fasciata nella sua camicetta di seta avorio, trincerata nell’ego tipicamente narcisistico delle persone di successo… «Anna» la richiamò una voce melliflua, distogliendola da quel flusso di idee, «Anna», altro profondo respiro, «Credo proprio che il dosaggio che ti ho dato finora non sia più sufficiente» sentenziò l’esperta plurilaureata e addottorata! Nessuna emozione. Zero empatia. Sembrava vuota. Anche lei. Un manichino. Un involucro. Senz’anima. Per un attimo Anna ne ebbe quasi pena. I lineamenti marcati del volto triangolare sembravano sottolineare l’espressione severa dello sguardo. Piccoli occhi cerulei, che indagavano al di sotto di una lunga frangia compatta, continuavano a fissarla, mentre due labbra sottili si muovevano ritmicamente, liberando inutili parole a proposito dell’importanza della cura farmacologica. Il ‘bla bla bla’ durò circa due minuti di tempo, forse meno, e in tutto il colloquio, se colloquio si può definire un incontro di questo tipo fra due esseri umani, un totale di cinque minuti scarsi.
L’esile corpo di Anna scivolò via dalla sedia di velluto blu, via dalle quattro mura bianche, via da quello sguardo lontano anni luce dalla sua persona… (o dal suo Sé, o dalla sua coscienza, o dalla sua anima, o da quell’incomprensibile, e, al tempo stesso, a tratti a noi così noto, qualcosa, comunque lo si voglia definire, che fa di una persona, quella persona. Unica.) e si trascinò fino a casa, con solo un ulteriore carico di amarezza sulle spalle, centocinquanta euro in meno nel portafoglio, e una pasticca aggiuntiva di benzodiazepine da mandare giù…
Capitolo II
CAPITOLO II
Come si può accettare la morte? si chiedeva Anna, scrutando l’immensità del cielo dalla finestra della sua cameretta, con il naso schiacciato contro il vetro, che si appannava col suo respiro, formando buffe nuvolette di vapore. Amava il momento del tramonto, perché l’azzurro terso del cielo si colorava di striature rosa, talmente irregolari da sembrare gli scippi involontari di un pittore distratto. Quando si muore si va in cielo così le avevano detto i ‘grandi’ quando la nonna materna era morta cinque anni fa. In cielo… Ma in cielo dove?! Anna amava la fisica e l’astronomia. Le piaceva l’idea di poter dare una spiegazione logica alle