Vitaliano Brancati: oltre il buio
By Edy Lanza
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Va inteso in questo senso come un approccio non freddamente analitico, ma partecipe, al mondo interiore di un artista la cui grandezza, fin oltre la metà degli anni Ottanta del secolo scorso risultò spesso ingabbiata nello spazio angusto di un “genere”, il comico, sentito come limite di una peculiarità artistica a sua volta segnata e condizionata dalle tematiche dominanti dell’erotismo e della provincia.
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Book preview
Vitaliano Brancati - Edy Lanza
ESSENZIALE
NOTA INTRODUTTIVA
A Iris, Emma e Luca
Il presente lavoro su Vitaliano Brancati non è propriamente un saggio di critica letteraria, ma uno studio sulle motivazioni ideali che in riferimento al vissuto dello scrittore hanno ispirato con lo stesso grado di incidenza le sue scelte di uomo, di intellettuale, di artista.
Va inteso in questo senso come un approccio non freddamente analitico, ma partecipe, al mondo interiore di un artista la cui grandezza, fin oltre la metà degli anni Ottanta del secolo scorso risultò spesso ingabbiata nello spazio angusto di un genere
, il comico, sentito come limite di una peculiarità artistica a sua volta segnata e condizionata dalle tematiche dominanti dell’erotismo e della provincia.
Al pieno riconoscimento del valore dell’opera brancatiana concorse ampiamente nel 1987 la pubblicazione del primo volume dell’opera omnia dello scrittore da parte dell’Editrice Bompiani con prefazione di Leonardo Sciascia, seguita nel 1992 dalla pubblicazione del secondo volume con postfazione di Domenica Perrone. Ciò non ha tuttavia impedito che la pregiudiziale su di lui, di un provincialismo imbevuto di comicità sostanzialmente caricaturale, pesi ancora in parte sulla sua opera, almeno per il grande pubblico dei lettori.
Sull’auspicabile superamento di questo cliché è incentrato questo breve lavoro, che sintetizza i contenuti di un saggio iniziato molti anni fa e per varie ragioni a lungo interrotto.
Il mio viaggio all’interno dell’universo artistico brancatiano si è svolto sulle orme da lui lasciate nel suo peregrinare incessante fra un buio
riconducibile a un sentimento di vuoto metafisico dovuto in buona parte alla tetraggine
socio-culturale e politica dell’epoca fascista e post-fascista e la luce
generata dal sorriso della ragione, inteso come arma di emancipazione intellettuale e morale in grado di vincere l’oscurità del male
.
L’umorismo (il caustico quanto sofferto sorriso brancatiano) è qui considerato non come dato acquisito della poetica dello scrittore, ma come elemento costitutivo di un atto di coscienza che nascendo e sviluppandosi all’interno di un’esperienza personale traumatica, quella fascista, non può prescindere dalle intenzioni dello stesso Brancati, riconducibili al contenuto di una sua famosa lettera del 11 novembre 1937 a suo padre: Caro papà, ho ricevuto il tuo espresso. Non pensavo di pubblicare la novella, che avevo scritto solo per me. Comunque, avrei capito che tu mi avessi mandato la lettera per raccomandarmi di non pubblicare quel piccolo lavoro che conosci. Ma tu non ti contenti di una parte affettuosa e paterna; vuoi farmi la lezione sul valore delle cose che scrivo e giudicarle
caricature frivole" ecc. (…) In ogni modo quelle che tu giudichi frivole non sono alcune mie cose, ma tutto me stesso, nel punto a cui mi hanno portato la coscienza finalmente emancipata, la maturità dei miei anni e la rinunzia ai facili successi. Frivole sembrano a me tutte le cose che tu chiami serie (…) Nelle corti di taluni re, i buffoni erano i soli che dicessero cose profonde. (…) Non continuare a insultarmi col definire capriccio quello che è un mio serio e profondo sentimento. Mi offendi in quanto ho di più sacro. Ma io non dispero, perché sono d’accordo con la mia coscienza, e ho fiducia che quello che tu dici delle mie cose, sia ripetuto in seguito da un numero sempre più esiguo di miei detrattori. Ti abbraccio (…) Vitaliano
Nel tentativo di cogliere nella sua profonda ragion d’essere il significato del comico
brancatiano, ho dunque seguito la traccia suggerita dallo stesso scrittore, che rivendicava la sua scelta in nome di valori per lui fondamentali e irrinunciabili, riconducibili a un’idea di impegno
morale e civile assai diffusa nell’ambito dell’intellighenzia italiana ed europea dell’epoca, ma da lui declinata in modo del tutto originale.
Mentre per buona parte degli artisti didatti
europei l’ engagement nei confronti della società e del mondo esprimeva infatti un netto pensiero ideologico, per lo più di impronta materialista, spesso rientrante nel campo della lotta di classe, per Brancati si spostava invece all’interno di una realtà fenomenica non riducibile ai dati della pura dialettica sociale e politica, ma più fragile e sofferta, idealisticamente concepita come momento di attuazione dello Spirito e al contempo, sul piano effettuale, subita
nelle sue inevitabili cadute con incoercibile sentimento di ribellione.
In relazione a questa realtà in bilico fra un assoluto
- vagheggiato come luce - e la sua assenza nel contingente, che genera buio , noia , tetraggine , l’opera di Brancati, pur intesa come rielaborazione costante del suo vissuto personale, del suo sentimento di appartenenza alla Sicilia, (terra luminosa e numinosa dominata tuttavia dalla parte luttuosa della luce ), delle drammatiche vicende storiche della prima metà del Novecento, mi è sembrata soprattutto espressione dinamica e fedele di un percorso artistico-esistenziale costantemente segnato da un conflitto fra sentimento della finitezza e pulsione verso l’infinito, su cui - per necessità interiore - nacque e si sviluppò, nel particolare contesto storico del regime fascista, la vocazione
al comico.
Questa interpretazione è coerente anche al contenuto della già citata lettera al padre, in cui l’idea di frivolezza
viene accostata significativamente da Brancati ad espressioni gravi come tutto me stesso , coscienza finalmente emancipata , maturità dei miei anni , rinunzia ai facili successi , serio e profondo sentimento, sfocianti nel lapidario e accorato rimprovero rivolto al padre: mi offendi in quanto ho di più sacro .
Su questa traccia il presente saggio tenta dunque di cogliere in fieri le ragioni di una scelta morale e artistica nata in pieno regime fra il 1934 e il 1937 e destinata ad essere declinata nel comico attraverso il tratto provocatorio di un linguaggio anti-eroico atto a stravolgere beffardamente - e a travolgere - quello enfatico e tronfio dei mostri
prodotti dal sonno della ragione: sia la dittatura nella sua contingenza storica, sia nel periodo post-bellico, con valenze storiche ma soprattutto metastoriche, il pensiero massificato, sentito come uno dei tanti travestimenti dello Spirito all’interno del conflittuale rapporto posto da Brancati fra il buio (il vuoto del presente e della coscienza) e la luce (la pienezza dell’essere).
A lavoro ultimato, posso dire che indagare le sue opere attraverso l’analisi delle tematiche dominanti, ma soprattutto attraverso le fessure lampeggianti del sotto-testo (le parole-chiave, le espressioni ricorrenti, le dichiarazioni marginali, le brevi confessioni, i momenti di ribellione, che ne permeano incessantemente il tessuto narrativo) mi ha dato modo di compiere un viaggio con
Brancati appassionante e chiarificatore quanto inevitabilmente incompleto: il viaggio, circoscritto al tentativo di comprendere ed evidenziare le motivazioni che stanno alla base della sua poetica e delle costanti tematiche che attraversano la sua intera produzione, resta aperto sull’ orizzonte lontano della sua grandezza e della sua complessità.
Un paio di precisazioni sull’impostazione data al presente lavoro: 1) per esigenza di essenzialità e di chiarezza, avendo focalizzato il mio interesse specifico sul pensiero di Brancati, ho rivolto la mia attenzione ai dati culturali e biografici che ho ritenuto illuminanti a riguardo, evitando invece – in quanto estranei al tema - quelli attinenti alla diversità dei linguaggi
usati dallo scrittore nei vari campi della sua attività. Ho evitato soprattutto di far riferimento a linguaggi come quello cinematografico e quello teatrale, la cui specificità richiede un discorso a parte. Si è trattato di una rinuncia non facile, dal momento che questo lavoro è nato dall’interesse per un testo teatrale inedito (depositato presso gli archivi dell’Università del Sacro Cuore di Milano) intitolato L’anello dei Nibelunghi , scritto a quattro mani da Vitaliano Brancati e da Leo Longanesi presumibilmente negli anni in cui entrambi collaborarono alla rivista Omnibus (1936-1938/9). Ma considerando che nel teatro la parola (per il drammaturgo, ancor prima che per l’attore e per il pubblico) è parte di un universo complesso che ne protegge – coprendolo - l’embrione, ho ritenuto che qualsiasi riferimento alla drammaturgia - in quanto appunto parte di un linguaggio sistemico
che non può essere ignorato - fosse inevitabilmente inadeguato e fuori luogo. La stessa considerazione vale ovviamente per l’attività svolta da Brancati in campo cinematografico. 2) Il ricco apparato di citazioni e di note – queste ultime sistemate in blocco unico in appendice per una più agevole consultazione all’interno di una pubblicazione on line - risponde da un lato al bisogno di cogliere dall’interno, fedelmente, le connotazioni e le sfumature del suo pensiero, dall’altro ad offrire varie occasioni di approfondimento dei temi trattati (ad esempio alcune significative attinenze fra il pensiero di Brancati e quello di Orwell) a chi, avuta la pazienza di seguirmi nella breve tappa da me percorsa, volesse poi completare il viaggio in modo del tutto personale.
Edy Lanza
Il primo capitolo di Paolo il caldo: vestibolo dell’opera brancatiana.
È noto che il capitolo d’apertura dell’ultimo romanzo di Brancati, Paolo il caldo , si configura come una sorta di diario dell’anima in cui paradigmi esistenziali, estetici e morali convergono e si intrecciano con nodi tematici fondamentali della produzione dello scrittore, fino a fondersi in una sorta di testamento artistico e spirituale.
Ma il primo capitolo di Paolo il caldo è anche altro: è un prologo, che travalicando la funzione consueta di elemento di collegamento fra l’opera letteraria e il lettore, si costituisce come soglia
¹ dell’intero universo brancatiano. E’ parte integrante del romanzo, imposto dallo scrittore come varco d’accesso ineludibile per addentrarsi nel corpo vivo dell’opera, vestibolo di una scena mentale dislocata in cui il vissuto brancatiano tende a realizzarsi in rappresentazione coniugando due componenti fondamentali del sentire dello scrittore attinenti alla dimensione temporale della realtà: la sofferta consapevolezza di sé nel presente e la problematica concezione di un tempo-rettilineo, di impronta agostiniana, di cui però è impossibile cogliere il senso e la direzione. Dal punto in cui mi trovo – scrive Brancati – guardo la mia vita trascorsa con l’emozione che proverei se alla vigilia di reincarnarmi e viverla, la vedessi, dal principio al suo termine, tutta distesa sul pianeta terra, nelle cui leggi e vicende non fossi ancora entrato. Salvo che vedendola così, la più grave domanda umana avrebbe avuto già una risposta nella parola reincarnazione, e la mia vita mi apparirebbe diminuita di mistero, mentre quella fila di giornate già vissute, l’una dietro l’altra, non so cosa vogliano dire, e il loro progresso, e quel lampo di freccia che le attraversa, non capisco dove miri . ²
Nel primo capitolo del romanzo il sentimento del tempo affiora senza sosta, permeando fortemente anche le tematiche considerate canoniche come la provincia e il sesso, fino a precisarsi come un leitmotiv dominante, talora intercettato da un’interpretazione soggettiva che lo dispiega con intenso afflato lirico, altre volte richiamato con piglio cronachistico, al fine di contestualizzare una situazione decretandone l’oggettività.
Il secondo modo, che consente di ridurre il messaggio a informazione, trasferendolo su un livello puramente denotativo, è quello scelto da Brancati per aprire il prologo, nello stile asciutto ed essenziale di un giornale di bordo, che alla luce di una data, di un’ora, sia utilizzato per registrare eventi degni di nota. E il dato degno di nota, fornito da Brancati nella prima pagina come punto di partenza di tutto il discorso seguente e collocato – si direbbe spazialmente
, se non anche strategicamente - sulla soglia d’accesso al vestibolo vero e proprio, è la registrazione di un importante cambiamento interiore: un sentimento calmo e quasi lieto ³ che ha scalzato l’impressione di vertigine e di nausea ⁴ provocata da un particolare sentimento della vita e del tempo, che lo ha accompagnato fino a tre mesi prima.
Su questo dato, che indica in un particolare sentimento del tempo una costante di vita contrassegnata da uno stato di precarietà interiore, mi pare individuabile la soglia stabilita da Brancati come punto d’accesso al proprio universo.
Scrive dunque Brancati nella prima pagina del prologo: 23 giugno 1952. Mi trovo seduto sulla terrazza dell’albergo Baglioni, innamorato di mia moglie. Sono le dieci di sera (…) fra pochi giorni avrò compiuto quarantacinque anni. Sino a tre mesi fa, quando pensavo alla vita, mi pareva che, tra i miei piedi e la testa, ci fossero tutti gli anni che avevo vissuti. Io, così basso di statura, mi sentivo alto