La figura di Eloisa nello “Scito te ipsum” di Pietro Abelardo – Una tesi storica
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Il sentimento d’amore vissuto da due anime straordinarie può prendere strade inconsuete, dolci ma a volte anche tragiche. Il rapporto d’amore tra il filosofo Pietro Abelardo e la combattiva Eloisa trascende anche la morale, dando vista all’etica dell’intenzione. Abelardo ha amato Eloisa; successivamente ha definito il suo comportamento con lei come lussurioso, tuttavia, per mezzo dell’etica dell’intenzione, quasi si auto-giustifica, sostenendo che: “Dio tien conto infatti non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito e la lode di colui che agisce non consiste nell’azione, ma nell’intentio.” Riconducendo al suo caso specifico, lo Scito te ipsum testimonia: “… così l’intenzione ispirata all’amore scusa colui al quale il comando è rivolto.”
L’Epistolario fra Abelardo e Eloisa testimonia questa leggendaria storia d’amore, e costituisce le basi dell’opera filosofica “Scito te ipsum”.
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La figura di Eloisa nello “Scito te ipsum” di Pietro Abelardo – Una tesi storica - Valtero Curzi
secolo
Introduzione
Abelardo è al contempo debitore e promotore del fermento del XII secolo¹
Se in pochi decenni si è passati dalla dimensione chiusa del mondo monastico al dinamismo espansivo e creativo della città, tanto da poter parlare di rinascita del XII secolo
- che la critica storica ha visto come un progresso - nel senso di ripresa e sviluppo, ciò significa che la società del XII secolo ha operato in sé grandi e fondamentali cambiamenti e trasformazioni.
Afferma a questo proposito p. Chenu: (…) Ora, nella misura in cui si spostano i nodi vitali, si costituiscono economicamente e politicamente le città, si creano mercati con una classe di commercianti, una circolazione permanente, un numero maggiore di uomini sfuggono ai legami feudali, la cultura si sviluppa al di fuori delle antiche scuole monastiche, si risveglia, con le solidarietà fraterne delle confraternite, il gusto della libertà, le vie e i mezzi d’influenza dei monasteri non incontravano più i bisogni delle anime mentre contemporaneamente prelati e abati si rivelavano per la maggior parte insensibili ai capovolgimenti che stavano avvenendo, dolcemente o violentemente, sotto i loro occhi.
²
Tuttavia il nuovo che emerge in ogni settore economico e culturale della società ha un collegamento diretto e naturale con ciò che lo ha preceduto. Infatti: (…) la nuova rinascenza del secolo XII sarebbe inconcepibile se fra essa e quella carolingia non vi fosse stato questo lungo e oscuro periodo di conservazione, di approfondimento e, sotto certi aspetti, anche di innovazione.
³
Pietro Abelardo è al centro di questo mutare
. Gli eventi compresi tra il 1050 e il 1150 rappresentano proprio i momenti determinati dello sviluppo del mondo medievale. A questo proposito, per quanto concerne le istituzioni e gli strumenti di formazione culturale, basterà fornire qualche dato generale: tra il 1000 e il 1150 circa il primo posto lo tennero i monasteri, dal 1000 al 1200 assunsero una certa importanza anche le scuole annesse alle cattedrali; dal 1050 al 1150 svolsero un loro ruolo i precettori o maestri individuali mentre, dal 1150 in Italia e dal 1200 in Francia, prevalsero le Università. Questi diversi tipi di educazione erano funzionali ai vari ceti sociali che se ne servivano⁴.
Abelardo, vissuto a cavallo tra l’XI e il XII secolo - era nato infatti nel 1079 e morì il 21 aprile del 1142 - ha unito in sé la nascente cultura dei magistri di città, con il loro sapere e insegnamento privati staccati dalla scuola monastica, con la nuova dimensione sociale e culturale della società del XII secolo. Abelardo, scrive Le Goff: "(…) è la prima grande figura di intellettuale moderno - nei limiti della modernità del XII secolo. Abelardo è il primo professore."⁵
Partito dalla dialettica e approdato alla teologia, la sua influenza fu immensa⁶. Abelardo ha rappresentato l’affermazione della ragione come agente speculativo della conoscenza anche nella teologia, mediante l’indagine scrupolosa e dialettica del sapere stesso. Egli ha opposto il conoscere per credere
al credere per conoscere
di san Bernardo, il sapere delle scuole al sapere del chiostro. Tuttavia, come afferma ancora p. Chenu: (…) È tutto il corpo sociale della Chiesa che, nel XII secolo, entra nel mistero cristiano con una lettura rinnovata del Vangelo; è tutto il popolo dei chierici che, attraverso lo sforzo inaudito delle scuole urbane, elabora dottrinalmente e moralmente il contenuto della Parola di Dio, con più cosciente impiego del simbolismo, fondamentale anche nell’ermeneutica biblica e nella tradizione patristica.
⁷
La cultura di Abelardo invece, pur all’interno della teologia cristiana - perché egli rimane e rimarrà un chierico del suo tempo - ha una dimensione diversa, caratterizzata da una avidità smodata di conoscenza che lo pone in molti casi contro i suoi stessi maestri. Se da una parte la mistica di san Pier Damiani e san Bernardo pone Dio in una dimensione non raggiungibile dalla ragione umana, Abelardo vuole entrare in quel contesto teologico con la ragione, vuole percorrere quella dimensione spirituale con l’indagine della ratio. Conoscere per credere
, quindi, perché, come sostiene, non è possibile insegnare senza prima aver compreso ciò che si va insegnando. In altre parole, Abelardo non si pone come contestatore o critico del suo tempo, ma come severo giudice della cultura a lui contemporanea.
In questo secolo la cultura, prima relegata ai chiostri e alle biblioteche delle abbazie, ora si concentra nelle città e nelle scuole private, dove gli intellettuali - i chierici, di cui Abelardo è il rappresentante più illustre - esercitano il mestiere di insegnare
anche in merito a questioni religiose. Sono gli anni in cui la teologia da solamente monastica diviene teologia scolastica⁸. Conoscere, quindi, non è accettare la parola dei Padri, tramandata dalla cultura monastica - che pur aveva trasformato e conservato la cultura classica dall’inizio del cristianesimo fino al medioevo - ma significa porsi in maniera critica e dubitativa nei confronti delle questioni teologiche, affinché la ratio ne riconosca i limiti e confini e agisca entro di essi per indagare
. Proprio perché agisce per conoscere e superare le certezze acquisite, l’indagine necessita del dubitare, del porre in dubbio ciò che appare evidente e certo.
La ragione, quindi, e non la fede, è lo strumento adeguato per questo percorso, perché essa indaga
, mentre la fede, ferma nei suoi dogmi e assiomi teologici, non agisce per conoscere perché sa di sapere. Tale atteggiamento, però, non deve far vedere nell’opera di Abelardo il desiderio di distruggere il principio di autorità opponendo l’un l’altro i Padri della Chiesa
ma, al contrario, come dichiara esplicitamente, egli ha raccolto queste contraddizioni apparenti per sollevare dei problemi ed eccitare negli spiriti il desiderio di risolverli.
⁹ Abelardo, dunque, logico prima che teologo, che con la logica ripercorre la teologia prima e la morale poi: "(…) è stato prima di tutto un loico e, come tutti i grandi filosofi, ha cominciato con l’apportare un metodo. Egli è stato il grande campione della dialettica. Con il suo Logica Ingredientibus e principalmente col suo Sic et Non del 1122, egli ha offerto al pensiero occidentale il suo primo discorso sul metodo."¹⁰
Questa propensione all’analisi e al discernimento di ogni aspetto della fede lo ha inevitabilmente condotto a scontrarsi e poi a sottomettersi alle autorità della Chiesa, che vedevano in lui un pericolo per l’ordinamento religioso. Nel 1121, poco dopo aver terminato la Theologia Summi boni, Abelardo fu citato da due vecchi allievi di Anselmo di Laon, Alberico e Lotulfo di Novara, davanti al concilio di Soissons. Condannato, fu costretto a bruciare personalmente il suo libro e quindi rinchiuso nel monastero di San Medardo¹¹.
Sarà la divulgazione, nel periodo 1136-1139, della sua opera morale Scito te ipsum che porterà prima Guglielmo di Saint-Thierry e poi proprio san Bernardo all’attacco frontale contro le sue teorie e convinzioni morali. Invitato a difendersi al concilio di Sens nel 1140, sorprenderà tutti i presenti rinunciando a difendersi, non riconoscendosi imputato da quel consesso.
Sotto la spinta delle accuse di san Bernardo, vengono quindi condannate le sue opere ma non la sua persona. Nel tentativo di cercare l’aiuto del Papa, Abelardo si mette in viaggio per Roma. Ormai stanco e provato, trova ospitalità nell’abbazia di Cluny, accolto da Pietro il Venerabile. Vi morirà il 21 aprile del 1142 e sarà proprio Pietro il Venerabile a comunicare con una lettera la sua morte a Eloisa, colei che è stata la figura fondamentale della vita di Abelardo, la donna che ha amato e poi, travolto da un atroce destino, tentato di convincere ad abbracciare una nuova dimensione dell’amare, in cui l’oggetto d’amore non è più lui stesso, ma il Signore. Tuttavia, come si vedrà, Eloisa terrà una posizione diversa, più umana e meno mistica. Non rinnegherà la sua esperienza di donna e rimpiangerà quel che non ha potuto avere.
L’ipotesi della mia ricerca parte proprio da Eloisa per tentare una particolare lettura dello Scito te ipsum. Essa si basa sulla convinzione dell’autenticità delle Lettere, perché, come scrive Beonio Brocchieri Fumagalli: "Quale falsario avrebbe potuto costruire un personaggio così autentico e continuo come l’autore delle lettere e così congeniale a quello che vien fuori dall’opera abelardiana? Solo Abelardo stesso. O un genio letterario di cui non conosciamo il nome e del quale non possediamo altre opere di pari livello. Un’ipotesi dunque gratuita."¹²
Un’ulteriore ipotesi sull’autenticità o meno dell’Epistolario è stata avanzata da Peter Von Moos e, se confermata, avvalorerebbe la mia tesi sulla natura di opera re-interpretativa e di ripresa e rivalutazione di un