Giulietta deve morire: Fausto Bertolini
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La direttrice del ricovero, per ovviare alla monotonia delle lunghe giornate che obbligano gli artisti a vivere di soli ricordi, escogita di far rappresentare loro Romeo e Giulietta, l’opera più famosa di William Shakespeare. Inutile dire che ne succedono di tutti i colori. È un intrecciarsi di situazioni surreali, bizzarre e comiche.
Finalmente, dopo mille prove, gli attori sono pronti per la “Prima”, ma succede il fattaccio che innesca il giallo e il commissario Codilupo dovrà superarsi per riuscire a tirare le fila.
Un plot narrativo originalissimo, che l’autore ha congegnato in parte su sollecitazione e ispirazione della grande giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, in occasione di una loro chiacchierata nella mensa della R.A.I.
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Book preview
Giulietta deve morire - Fausto Bertolini
Lucifero)
1 - LIA TRASOGNATA (Il misfatto criminoso)
Lia aveva un’espressione trasognata. Era bellissima. Sembrava un angelo esile. Senza tempo, nonostante gli archetipi associati alla natura angelica. Fantasie da teologi? Codilupo, il commissario, non ci avrebbe trovato nulla di strano se tra le mani Lia avesse avuto un mazzo di rose che, di solito, le porgevano quando usciva in proscenio. A fine spettacolo.
Sorrideva. O quasi. Sembrava in posa per le foto mentre raccoglieva gli applausi degli spettatori, tutti in piedi per rendere omaggio alla sua bravura.
La pelle del suo volto era di alabastro. Quasi nivea se non fosse stato per un soffio di cipria col quale ogni giorno, anche ora che non recitava da tempo, amava ravvivare il pallore delle gote. Una vecchia abitudine di quando calcava le scene. La ripeteva sempre davanti allo specchio del bagno come quando si truccava il viso davanti allo specchio del camerino. Un soffio di cipria, mai troppo, mai troppo poco, qualsiasi fosse il personaggio che doveva interpretare. Un poco più intenso se c’era di mezzo Lady Macbeth. Per rimarcare la sua crudeltà. Se Ofelia, un tocco leggerissimo di cipria un poco sfumato verso gli occhi. Quasi svaporato come il cervello di quella ragazza così spaesata. Se invece toccava a Giulietta prendere forma sul volto di Lia, il soffio diventava appena più marcato. Per trasmettere le palpitazioni amorose di un’adolescente.
La mano sinistra era diafana. Poggiava sulla piccola mammella di destra, dalla forma ancora adolescenziale nonostante gli anni di Lia, come per proteggerla dalla vista di qualche impertinente. L’altra parte del seno era coperta da un lembo della vestaglia con fiori di campo. Ricopriva il corpo di Lia abbandonato a sé stesso. Le lasciava scoperta una coscia, appena sopra la rotula del ginocchio, fino al piede nudo.
La bocca era atteggiata ad un’espressione sorridente. Un poco sconcertata. Forse provava l’incubo di non ricordare una battuta di scena. Gli anni avevano ridotto la sua memoria ad un colabrodo. Come quasi tutte le memorie dei vecchi. Perché Lia era una vecchia attrice. Gli occhi fissavano il soffitto del bagno dove lei giaceva lungo distesa. Il collo esile era circondato da un livore bluastro. Lia, raggelata nel rigor mortis , era diventata solo il cadavere di una vecchia attrice. Strangolata.
2 - O ROMEO, ROMEO!
Da quando il Verbum Dei si è fatto Carne d’Uomo le parole sostanziano le idee e le comunicano mentre intrecciano il tessuto delle relazioni nella sintassi della vita. L’autentico significato del Lògos- Verbum è Relazione. La parola rende espressiva la relazione. In teatro, più che altrove, la parola suscita l’immagine che rappresenta il principio costitutivo dell’illusoria consistenza dei personaggi i quali, a differenza degli attori che li incarnano sulla scena, sono immortali proprio perché fatti di parole.
Oh Romeo, Romeo! perché sei tu Romeo? Le parole del grande Willy, più noto come Guglielmo Shakespeare, da secoli inducono Giulietta a sporgersi dal balcone per sussurrare a Romeo il proprio amore incandescente. Anche quella notte le verbilanguide parole del grande Willy fluivano dalla bocca di Ada.
Le frasi di Giulietta, così dure e accorate, rinnega tuo padre, ripudia il tuo nome, trasmettevano vibrazioni.
Calarsi nell’anima di Giulietta, uno dei più commoventi e sublimi personaggi di Willygenio, faceva rabbrividire Ada ogni volta che recitava quelle parole alate.
Da sopra il mitico balcone composto da una struttura lignea, Ada proseguiva nell’appassionato trasporto di Giulietta, giura di amarmi e io cesserò di appartenere ai Capuleti. Da sotto il balcone Romeo biascicava un a parte
, che rottura di palle! Tutte le sere questa solfa!
A questo punto Giulietta escogita quell’arguta disamina semantica che il Grande Willy le mette in bocca (doveva averla attinta da qualche trattato di filosofia medievale sulla questione del valore del nome col quale le cose vengono battezzate), … Che cosa c’è mai in un nome? Il fiore che chiamiamo rosa, anche se con un altro nome sarebbe sempre una rosa e riempirebbe l’aria di profumi. Ripudia il tuo nome e al posto di esso che non fa parte di te prendi tutta me stessa.
Romeo deglutisce. Non capisce più da che parte stia la verità delle cose. Da quella dei nominalisti o dei realisti? Ma chi se ne frega. Chiamami amore, sbotta Romeo tutto infervorato. Potenza della fragolina.
Ada si era svegliata con un trasalimento nel respiro giusto un attimo prima che Romeo pronunciasse la sua battuta ingenua e appena un poco allusiva, … fossi io quell’uccellino.
3 - LIA RUSSAVA IN DO DIESIS
Ada aveva acceso l’abat-jour. L’onirodramma, detto comunemente sogno, le aveva lasciato la scia di una piacevole sensazione mescolata ad un certo sapore di inadeguatezza. Da una vita sognava di interpretare Giulietta. Un personaggio immortale.
Era rimasta un attimo soprapensiero per far decantare le vaghe impressioni che il sogno le aveva lasciato. Poi si era girata un attimo per dare una rapida occhiata a Lia, la sua compagna di stanza. Russava in do diesis.
Ada si era alzata dal letto senza fare rumore per dare un’occhiata fuori dalla finestra. E farsi un goccio.
Sorseggiava il vino dal bicchiere. Aveva nascosto la bottiglia in fondo all’armadio.
La finestra dava sul cortile interno della casa di riposo. Il cortile era immerso in quella sottospecie di luminosità incerta, di riverberi tenui e levigati. Sta a mezzo tra la notte in uscita di scena e il giorno in entrata per fare la sua parte sulla scena del gran teatro del mondo. È un momento irripetibile. Troppo fugace. L’alchimia di quel bagliore diafano e ambiguo come il limbo, si sarebbe spappolata per lasciare il posto alla luce di un’altra giornata che, come tutte le altre, si agganciava ai vagoni del treno merci che trasportava gli anni. Ada sapeva fin troppo bene dove, dentro il cortile dell’ospizio, sarebbe andata a finire tutta quella magia che sembrava il pallore verginale della luce. Nella coloritura sbiadita di un bistro che colava dallo sguardo stanco di una vecchia puttana incipriata che recitava la parte di Ofelia, le vergine stralunata.
L’aurora era già sbucata dal buio col suo muso di faina. Ada aveva nascosto bottiglia e bicchiere nell’armadio. Era Lia, non lei, che avrebbe dovuto sognare Giulietta, aveva pensato Ada con una sottile punta d’invidia.
Lia che aveva goduto di una certa fama al tempo della sua carriera attorale. Come si dice nel giro, aveva avuto un nome
. Il nome aveva ancora il suo peso nel ristretto e ammuffito mondo della repubblica dei vecchi attori ricoverati nella casa di riposo. Gente quasi tutta sull’ottantina, piena di acciacchi, catarri, ricordi sfilacciati, dolori alla schiena, di urine perdute nel letto, di tranquillanti e di flebo.
Di farfugliamenti che avrebbero dovuto essere i ricordi di qualche monologo famoso. Essere o non essere…
4 - LA BELLA PENSATA (L’antefatto)
La bella pensata si era accesa nella testa della Direttrice con il bagliore improvviso di una lampadina durante una giornata grigia e piovosa. Quello stupido grigiore umido si ripercuoteva nell’umore dei vecchi ospiti della casa di riposo. Li immalinconiva.
Era anche un poco stramba e velleitaria considerato il contesto nel quale avrebbe dovuto attuarsi considerato tutto il ciarpame che la vecchiaia costringeva quegli uomini e quelle donne a portarsi sul groppone.
Solo i ricordi più lontani sembravano possedere un certo diritto di cittadinanza dentro l’armilla sfilacciata della loro logora memoria attorale.
La Direttrice si era soffermata sulla soglia. Osservava in silenzio i vecchi attori raccolti nella Sala Grande.
Geo gioca a scacchi con Renato. I due fissano i pezzi da un pezzo. Dario, accanto alla scacchiera, regge il sacchetto che raccoglie la sua orina torbida. Genziana, appiccicata alla vetrata, contempla la malinconia del grigiore. Poco più in là, Mara ricopre quasi tutto lo spazio del divano con la sua corpulenza da balenottera. Sbuffa qualcosa a Tina. Tina è uno stecco. Pino gironzola incastrato in quella specie di girello deambulatorio. Le gambe non lo reggono. Una rotellina cigola. Rita stenta a tenergli dietro col treppiedi che guida i suoi passi ingobbiti. Ada, Leo, Laura e Fulvio fanno un ramino. Ada scombina le carte. Leo si incazza. Lei gli scarica un soffio asmatico sul muso. Si spara in bocca uno spruzzo di antidispnea. Fulvio seguita ad annuire. Il delirium tremens. Laura si agita sulla carrozzina. Clara guarda Osvaldo. Lui guarda la parete. Vittorio guarda Lia. Lia sfoglia l’album delle foto, qui facevo Ofelia, qui facevo Nora, qui Giulietta… Alvise sonnecchia. Vito e Gastone, detto Gas perché molla certe botte improvvise e sonore, fissano la tele. E Aldo, ovvero la Contessa. Col foulard di seta al collo, è seduto sulla solita poltrona con le gambe accavallate. In disparte. Biascica Molière. Era stato un grandissimo interprete di Don Giovanni. Nonostante la sua indole femminile.
… Leporello, mélange ton esprit avec le silence. A che atto apparteneva quella battuta?
E poi tutto il resto più scalcinato della repubblica dei vecchi attori, quelli in carrozzina. Lo sguardo perso nello