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Stella del mattino
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Stella del mattino

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About this ebook

Roma, 2049. Elena è una giornalista d’assalto, impegnata nel suo lavoro, una donna tutta d’un pezzo che non ha mai ceduto alle emozioni. Un giorno, dopo un lungo turno al giornale, incontra tra le strade della Città Eterna un buffo personaggio, che le regala un romanzo cartaceo, ormai materiale raro in un’epoca in cui il digitale ha soppiantato la carta.

Elena si immerge subito nella lettura del romanzo.

Roma, 1991. Massimo è un fotoreporter che lavora per un giornale della capitale. La sua è stata fin dall’inizio una vita avventurosa. Tra una missione e l’altra per il giornale, Massimo incontra di nuovo la donna della sua vita, la sua Stella del mattino, Martina.

Tra di loro si sviluppa un vero amore oltre il tempo e i confini del mondo. In un momento sociale mondiale, dove il clima, l’economia, le politiche e la stessa pace sono in continuo mutamento. Due anime libere legate da un amore senza confini al di là della materia e del tempo.

Che cosa lega la vicenda di Elena a quella di Massimo e Martina?

“Stella del mattino” è un romanzo in cui si intrecciano due storie parallele che arrivano a toccarsi per far trionfare il vero amore.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 5, 2019
ISBN9788831613170
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    Book preview

    Stella del mattino - Marcello Massalin

    633/1941.

    Prologo

    Era una giornata come tante nella tranquilla e monotona routine giornaliera dell’ufficio dove lavoravo.

    «Anche questa giornata è terminata.»

    «Sì, finalmente è finita Elena. Oggi è stata dura. Ho dovuto scrivere due articoli noiosi. Uno sull’estate romana, e un altro di come le case vuote a Roma ad agosto siano una tentazione per molti topi d’appartamento. Ti va di andare a prendere qualcosa quando usciamo?»

    «Grazie Michele, ma questa sera voglio starmene tranquilla senza fare niente. Una passeggiata fino a casa, una doccia e magari la lettura di un buon libro, di quelli veri, dove sentirne la pesantezza, lo spessore, il fruscio delle pagine e il profumo di carta stampata, ti riporta indietro nel tempo quando il digitale non ci aveva ancora tolto tutto questo. Ci si vede domani.»

    Michele era un mio collega, e da diversi anni lavoravamo insieme nella redazione di un giornale romano. Una brava persona, distinta e ben educata. Sapevo che nutriva un debole per me, ma non era il mio tipo. Eravamo ai primi d’agosto e le mie ferie settembrine erano ancora lontane. Il caldo in quell’agosto 2049 si faceva sentire. I cambiamenti climatici avevano sconvolto da tempo il ciclo naturale delle stagioni. L’umanità del XXI secolo non era stata lungimirante nel gestire l’inquinamento. Idrocarburi, effetto serra, e gas di scarico di milioni di autovetture in tutto il mondo, avevano purtroppo modificato irreversibilmente il clima, e chissà cos’altro. Il mondo lo aveva capito troppo tardi.

    La costruzione di vetture elettriche fu rallentata per interessi petroliferi, e questo fu fatale: il clima della vecchia Europa divenne tropicale, con caldo umido e brevi ma intense precipitazioni, e Roma non faceva eccezioni.

    Non avevo nulla da fare quella sera. Volevo solo tornarmene tranquillamente a casa, farmi una doccia e rilassarmi, godendomi il fresco dei condizionatori accesi al massimo. La mia casa distava circa due chilometri dal giornale, così decisi di andare a piedi, una tranquilla passeggiata di quarantacinque minuti, curiosando qua e là nelle vetrine dei negozi che incontravo. Otto ore quasi sempre seduta alla scrivania non giovavano di certo alle mie non più giovani articolazioni, e un po’ di moto le avrebbe sicuramente rinvigorite. Vivevo da sola, e nessuno mi aspettava. Niente marito, figli, compagno. Avevo fatto le mie esperienze e se a cinquant’anni non ti sei sistemata, non lo fai più.

    Michele mi corteggiava. Era un bell’uomo simpatico e intelligente, anche lui oltre la cinquantina, e un po’ appesantito nel fisico. L’esperienza mi aveva insegnato che, se un uomo a quell’età non si era accasato, qualcosa non andava. Si sa che gli uomini, a differenza di noi donne, non riescono a stare soli, così scelgono il compromesso della donna cucina, lava e stira e altro, e io non volevo di certo fare quella fine. Ho sempre cercato l’amore. Forse resterò sola tutta la vita, ma non scenderò mai a compromessi, non mi trasformerò mai in una badante pur di avere un uomo. Non cerco la passione, o il turbine dei sensi, quelle sono cose da consumarsi in gioventù, alla mia età, quello che è fatto è fatto. Le mie occasioni le ho avute, ma non sono andate come speravo, o forse non sono stata brava a gestirle.

    Certo il grande amore è capitato anche a me, ma ero troppo giovane e ingenua. Così tutto finì. Forse avrò sbagliato per troppo orgoglio o presunzione nel cercare il vero amore, ma per amare bisogna essere in due, in egual misura e peso, e gli uomini che nel tempo poi ho incontrato sembrava volessero sempre stare un passo avanti a me, e questo non l’ho mai accettato.

    Non vedevo l’ora di arrivare a casa. Il traffico era caotico come sempre a quell’ora della sera. Il rombo dei motori. Lo strombazzare dei clacson, erano la quotidianità in una città di oltre sei milioni di abitanti. Roma aveva perso il fascino antico dei tempi della dolce vita. Il giorno stava spegnendo le sue luci e il sole del tramonto colorava di rosso pastello i muri delle case. Il caldo e l’umido appiccicoso erano insopportabili, e il mio unico pensiero era di farmi una doccia. Così assorta percorrevo la strada verso casa, quando vidi poco distante un carretto ambulante che vendeva dei libri.

    Una cosa insolita pensai.

    Nell’era digitale ogni libro era stato digitalizzato, e trovare libri di carta, era una cosa rara. Incuriosita, mi avvicinai. Il carretto, un parallelepipedo di legno, dalla forma e fattura era sicuramente artigianale. Poggiava su due piccole ruote di bicicletta, e aveva un manico per trainarlo. Le due ante superiori, che fungevano da coperchio, erano aperte lateralmente, e in una fila rigorosa ordinati per altezza e colore, vi erano poggiati diversi volumi. Mi avvicinai osservando anche il bizzarro ometto vicino al carretto, che seduto su di una sedia tipo quelle da regista, una vecchia tela montata su una struttura di alluminio ormai datato, era intento a leggere un libro. Notò subito la mia presenza.

    «Buonasera bella signora, desidera un libro?» disse con fare gentile.

    L’aspetto non era più giovanile, forse sulla settantina, o forse più. Il tono della voce e i suoi modi erano d’altri tempi. Sembrava uscito da un romanzo dell’Ottocento. Anche il suo abbigliamento un po’ retrò era singolare. Su un fisico asciutto spiccava una camicia bianca a maniche corte con collo alto. Pantaloni di lino chiari, abbinati a dei mocassini neri. A dare un tono di colore a tutta l’esile figura, un papillon rosso. Il viso era magro e allungato, incorniciato da una barba ben curata. Dietro piccoli occhiali da vista tondi, due occhi vispi mi scrutavano furbescamente immobili attendendo una risposta. Rimasi colpita da quella singolare figura. Esitai prima di parlare.

    «Il caso vuole che questa sera avessi proprio voglia di leggere un libro. Non pensavo che ci fossero ancora libri stampati. Non si usano quasi più.»

    «Io sono rimasto all’antica» rispose il simpatico ometto. «A me piace sentire tra le mani la consistenza della copertina. Il peso del libro, e sfogliandone le pagine, annusarne il profumo. Siamo nell’era degli e-book, e anche se un’azienda ha inventato un prodotto spray che simula il profumo della carta, un libro vero è un’altra cosa» rispose soddisfatto.

    «Forse questa mia piccola libreria potrebbe soddisfare il suo desiderio!»

    Annuii con un sorriso all’esposizione del misterioso libraio e diedi un’occhiata all’interno del carretto. I libri erano stipati con il dorso a vista. Il tempo aveva conferito alle pagine un odore di erba e vaniglia, risultato dell’invecchiamento della cellulosa. I volumi sembravano molto datati, e non credevo che avrei trovato qualcosa di mio gradimento. Ero un po’ indecisa, e scorsi con lo sguardo gli ordinati volumi. Anche se lo spazio era piccolo, erano divisi per categoria. Ne sfogliai alcuni. Vedendomi perplessa, e forse per paura di perdere una vendita, il simpatico ometto venne in mio aiuto.

    «Se mi dice quale genere preferisce, potrei aiutarla. Questi libri sono parte della mia collezione, li ho letti tutti. Purtroppo la mia magra pensione non mi è sufficiente per vivere, così giro con il mio carretto per la città, e cerco di venderne qualcuno.»

    Sentii una certa tristezza scaturire dalle sue parole. Mi fece tenerezza, così decisi di acquistarne uno.

    «Diciamo che preferisco le storie d’amore, miste anche con un po’ d’avventura e…» non feci in tempo a finire di parlare, che il simpatico vecchietto intervenne.

    «Bene, ho trovato quello che fa per lei» disse entusiasta.

    Diede una rapida occhiata ai volumi sul carretto e ne prese uno mostrandomi soddisfatto la copertina di un libro dal titolo Io.

    «Eccolo qui. Penso che questo possa fare al caso suo.»

    Quando lo ebbi tra le mani, avvertii una strana sensazione, come se una forte energia uscisse dalle sue pagine. Il libro non era come gli altri. Al tatto sembrava pesante. La copertina era prestampata ed era di colore azzurro. A caratteri bianchi vi era scritto il titolo: Io. Lo sfogliai. Le pagine erano di un color avorio e profumavano di nuovo. Sul frontespizio nessun dato tipografico, solo il nome dell’autore: Stella del mattino.

    «Originale» dissi.

    «È uno pseudonimo. Al suo interno troverà nelle note il suo vero nome. Sì, penso che potrà soddisfare la sua richiesta. Ho una certa esperienza nel capire i gusti delle persone. Dopo la laurea in lettere ho iniziato a lavorare in diverse librerie. Leggevo molto, anche perché il mio lavoro richiedeva la conoscenza di vari autori. Nel tempo ho maturato un’esperienza letteraria e una discreta conoscenza umana. Ho capito solo in seguito che era quello che mi sarebbe piaciuto fare: leggere e poi scambiare opinioni sulla lettura. Ho avuto modo di capire dai libri che vendevo, le personalità di molti clienti. Una scrittrice disse: Leggere, se fatto come si deve, è difficile tanto quanto scrivere, e io aggiungerei che leggere è un’abilità e un’arte.»

    Rimasi colpita dalla chiarezza delle sue parole, e dal semplice e incisivo pensiero. Il simpatico ometto sembrava essere più di quello che la sua bizzarra figura mostrava.

    «Lo prendo. Mi fido. Per curiosità, secondo lei io che tipo di persona sono?» dissi quasi per scherzo dando l’impressione di aver creduto poco alle sue parole. Mi guardò come se avesse percepito i miei pensieri.

    «Avverto nelle sue parole una lieve ironia, ma penso sia comprensibile, d’altronde non mi conosce. Mi permette d’essere franco nell’esprimere la mia impressione?»

    «Naturalmente» risposi accennando un sorriso.

    «Penso che lei abbia a che fare con le parole. Il suo corpo e il suo viso mostrano i segni del tempo, ma un tempo che ha dato esperienza e conoscenza come quella che acquisisce chi sta seduto a una scrivania. Il suo volto ha un’espressione intelligente, di chi è abituato a scrutare, a osservare la vita e metterla su carta. Non è elegante dire l’età di una signora, ma se mi è permesso osare direi che si trova nell’età di mezzo dove la strada percorsa le ha dato sia esperienza che dolore, ma lei le ha assimilate entrambe sfruttandole a suo favore. Anche la scelta del libro, amore e avventura, è un indizio rivelatore della sua personalità. Sono cose che forse ha sempre cercato ma che non ha ancora trovato. Penso che in questo volume le troverà entrambe.»

    Rimasi ancora una volta stupita, e dovetti ricredermi su di lui. Stavo per pagare, quando…

    «No, chiedo scusa per la mia troppa franchezza. La prego di accettare questo libro come un mio piccolo omaggio. Le auguro di trovare tra le sue pagine ciò che sta cercando.»

    Rimase a guardarmi con fare compiaciuto, porgendomi il libro, e i suoi occhi furbetti mi fissarono con aria interrogativa. Lo ringraziai cordialmente e salutandolo mi avviai verso casa. Quel singolare incontro mi aveva messo di buon umore, stuzzicando la mia curiosità. Mi sembrò di aver vissuto un momento d’altri tempi, come nelle favole quando al personaggio accadono cose magiche. Non so quanto mi allontanai dal luogo del libraio, ma sentii il desiderio di voltarmi come se quell’incontro così intenso fosse stato solo un’illusione. Quando mi voltai il carretto e il libraio erano spariti.

    Non è possibile pensai tra me. Cercai di razionalizzare con la mente l’accaduto. Possibile che mi sia immaginata tutto? Forse essendo piccolo il carretto non ci voleva molto a chiuderlo e allontanarsi. Non ci poteva essere altra spiegazione. Poi mi ricordai del libro. Lo presi dalla borsa. Tirai un sospiro di sollievo. Non mi ero immaginata nulla, il libro era reale.

    Arrivata a casa, mi sistemai velocemente. Accensione dei condizionatori. Doccia. Un boccone al volo, un caffè, e via sul divano seduta a iniziare la lettura. Erano circa le diciannove. Diedi un’occhiata veloce alle note sull’autrice.

    Martina Ruconich, una giovane adolescente alla sua prima esperienza letteraria, narra in queste pagine una storia vera, dove il vero amore non conosce confini di spazio e tempo. Dove lottare per un ideale, sprigiona nell’essere umano qualità presenti in tutti, ma che sono assopite dalla mancanza di lotta. L’autrice, poco più che adolescente, presenta una dialettica narrativa inusuale per la sua età, dimostrando una sensibilità unica per la sua generazione ormai informatizzata e avvezza a un lessico essenziale che uccide e storpia la lingua italiana.

    Non c’è che dire, un bel biglietto da visita.

    Non rimaneva altro che iniziare la lettura. Ripensai alle circostanze che mi avevano permesso di avere il libro, misteriose e singolari. Giusto preambolo che predispone l’animo al fascino del mistero. Aprii la prima pagina ansiosa di immergermi in una nuova avventura letteraria.

    La mia storia

    La mia storia ebbe inizio in un fresco pomeriggio della primavera del 2043. Quasi alla fine del mio cammino su questo pianeta, accadde un evento che tolse molti veli ai tanti perché che fino a quel giorno non avevano mai trovato risposte. Il cielo era velato da nubi alte e sottili che diffondevano una luce soffusa, senza ombre né contrasti. Seduto su una panchina nel giardino antistante al luogo della mia definitiva residenza, una casa di riposo che io chiamavo la Stazione, mi godevo alcuni momenti di pace e di quiete.

    La casa era fuori Roma, immersa nel verde e lontana dai rumori della città. L’aria era intrisa del profumo dei fiori presenti nelle numerose aiuole che affiancavano e abbellivano il lungo e sinuoso viale della villa. Vi erano diversi alberi da frutta in fiore, specialmente d’arancio, dove spiccava il bianco dei germogli. Il tutto era ben curato e pieno di colori.

    Il cinguettare di passeri, fringuelli e merli, erano la colonna sonora di quel momento. Non conoscevo i nomi dei fiori, ma ne apprezzavo la bellezza. Solo di uno conoscevo il nome, il bucaneve, o come mi piaceva chiamarlo Stella del mattino.

    A esso erano legati molti ricordi della mia infanzia, e mi tenevano compagnia ora che non avevo più nessuno. Anche se avanti negli anni, ero ancora autosufficiente e consapevole, in attesa che passasse il mio treno per quel viaggio che al tramonto della vita tutti faremo. Sapevo che il mio tempo stava per scadere, ma non ci pensavo, vivevo le giornate affrontando sempre con pazienza i problemi che un corpo di novant’anni dava nella quotidianità. Mi trovavo bene alla Stazione. La casa era molto grande, eravamo in tutto quindici ospiti. Tutti superavano gli ottant’anni. Era da po’ che le mie stanche ossa trovavano conforto e rifugio in quel luogo. Non contavo più gli anni, non m’importava, e poi a cosa sarebbe servito? Sapevo che lì avrei passato il resto dei miei giorni. Conoscevo oramai tutti gli ospiti della Stazione, le loro storie, e il loro stato di salute. Ogni tanto qualcuno ci lasciava, e il letto vuoto era subito rimpiazzato. La casa era gestita dalla signora Lina, una vedova sui sessant’anni ancora giovane e piacente, senza figli, e con un bel patrimonio da gestire lasciatole dal marito. Dopo la lunga agonia dei suoi genitori aveva deciso di dedicare il resto della sua vita a confortare chi era ormai rimasto solo e non aveva più nessuno. In questo modo, diceva, donava amore e attenzione a chi soffriva, cosa che il buon Dio non le aveva permesso di fare con dei figli. Così alla morte del marito, aveva modificato la sua enorme villa in casa di riposo chiamandola Casa Speranza.

    A me quel nome non piaceva. A quale speranza poteva aspirare chi vi entrava se non quella di andarsene senza soffrire troppo? Lo chiesi i primi giorni del mio soggiorno alla proprietaria, e lei mi rispose:

    «La speranza di trovare amore, compassione e comprensione, cosa che molti ospiti della casa non hanno più.»

    Il personale che ci assisteva tra infermieri, dottori e addetti ai servizi di manutenzione e cucina, era composto da tredici persone. Due dottori, cinque infermieri, e sei per i servizi, comprese le cucine. Erano persone buone, pazienti e comprensive. Gestire la casa di riposo era un bell’impegno, che la signora Lina portava avanti con grande amore e pazienza.

    Avevo legato in particolar modo con un’infermiera volontaria che veniva due volte la settimana. Si chiamava Azzurra, sui quarant’anni o poco più. Una donna ancora piacente. Sempre garbata e paziente con tutti. Un trucco leggero nascondeva i primi segni del tempo. Diceva sempre che avere una figura gradevole era d’aiuto ai suoi pazienti, ed era vero. Aveva una bambina che si chiamava Martina. Un nome che mi dava sempre emozione e ricordi lontani. Quel pomeriggio Azzurra arrivò prima del solito.

    «Ciao Massimo. Come stai?»

    «Ciao Azzurra. Come vuoi che stia? Come un combattente che non si arrende mai, che reagisce come può, sostenendo un corpo che ha fatto molto cammino e a volte è un po’ stanco.»

    «Bene, vedo che oggi ti senti un po’ filosofo. Mi sembra un buon segno.»

    Azzurra era sempre premurosa e gentile con me. Tra noi era nato qualcosa di speciale che lei diceva di non avere con gli altri ospiti della Stazione. Anch’io avvertivo una strana sensazione quando ci incontravamo, un’intesa particolare, che con altri non avevo. Mi faceva sempre piacere vederla.

    «Sei arrivata prima del solito oggi.»

    «Sì, avevo un po’ di tempo. Così ho pensato: chissà se a Massimo oggi va di raccontarmi un po’ della sua vita? Ed eccomi qua. Che ne pensi?»

    La proposta di Azzurra non mi colse di sorpresa. Mi fidavo di lei, anzi era da un po’ che volevo raccontargli di me. Avevo paura che forse la vita di un vecchio non le interessasse. Anche se vi era tra noi una certa simpatia, avevo timore che la sua gentilezza facesse parte della sua professione.

    «Vuoi davvero conoscere la mia storia?»

    «Sì, mi piacerebbe.»

    Mi guardò dritto negli occhi come non aveva fatto mai. Ebbi come un sussulto. Vidi in quello sguardo tenerezza e amore. Ricordi di un tempo passato e mai dimenticato. Rimasi per un attimo turbato. Azzurra se ne accorse.

    «Massimo, ti senti bene? Sei impallidito.»

    «Sì, mi sento bene, è solo un po’ di stanchezza. Questo mio vecchio cuore a volte fa i capricci.»

    Naturalmente avevo mentito. Come avrei potuto spiegare che il suo sguardo mi aveva ricordato una donna importante della mia vita?

    «Devi sapere Azzurra, che il mio nome in principio non era Massimo ma Io.»

    «Io? Molto originale.»

    «In effetti lo è stato per un po’ di tempo. Questo nome me lo diede mia madre, quando, sola in un ospedale in un paesino della Toscana, il 31 maggio 1953, venni alla luce su questo pianeta. Un giorno chiesi a mia madre il perché di quel nome… Mi disse che poco dopo il parto, che fu molto difficile e faticoso, l’infermiera di turno le chiese in una lingua che lei ancora poco conosceva, (mia madre era una profuga della Croazia), che nome volesse dare alla sua creatura. Rispose a stento tra fatica e dolori, Io... , come per dire io… vorrei chiamarlo.... Così quell’infermiera poco paziente e frettolosa scambiò quella fatica nel parlare per il nome. E quello mi rimase. Allora, una ragazza madre, per lo più straniera, non era vista di buon occhio, e quell’ospedale non faceva eccezioni.

    Non fu un parto naturale ma cesareo. Avevo il cordone ombelicale avvolto tutto intorno al collo, e rischiai di morire ancor prima di nascere. Era già un segno dell’avventurosa vita che mi attendeva. Mio padre non volle riconoscermi. In quell’Italia bigotta degli anni cinquanta un figlio fuori dal matrimonio, concepito con una profuga, chissà chi era, e da dove veniva, era una cosa inconcepibile. Del resto non mi sento di biasimare nessuno. Le difficoltà della ricostruzione di quegli anni non davano certo spazio alla cultura.

    Mia madre, come molte migliaia di altre persone, che vennero in Italia nel dopoguerra, dove fame, miseria e ignoranza erano la quotidianità, cercava di rifarsi una vita, di ricominciare, di cambiare quel destino che fino allora l’aveva costretta a vivere di fatica, di sofferenza e di speranza. Vivevamo in un campo profughi a Laterina, in Toscana, in un lungo capannone, dove le stanze erano delimitate da una coperta, un letto e un fornelletto da cucina.

    Il letto aveva un materasso formato da foglie di granturco. La cosiddetta privacy era una parola ancora non inserita nel vocabolario italiano, e tanto meno lo era nel suo significato reale. Le coperte, sottili pareti di lana grezza, davano una riservatezza visiva, ma non sonora, all’ambiente.

    I servizi igienici erano pessimi, soprattutto durante il periodo invernale, e ciò andava a svantaggio delle persone anziane che male si adattavano alla situazione. Il cibo era ritirato alla mensa, ma non era buono. Mia madre si arrangiò con lavori saltuari. Quel poco che guadagnava, unito allo scarso sussidio della prefettura, lo usava per acquistare alimenti.

    Così una donna sola, con un figlio piccolo, in un paese straniero, viveva le sue giornate nella preoccupazione giornaliera di dar da mangiare alla sua creatura.

    Questi furono gli anni della mia prima infanzia. Nei racconti di mia madre percepivo sempre una grande sofferenza nel ricordare quei momenti di difficoltà, dove il poco sussidio che riceveva, bastava per comprare il necessario per mangiare, e molte volte lei saltava il suo pasto per darlo a me.

    Furono anni molto duri per la povera gente. Era un sopravvivere, non un vivere, ma si sa l’animo umano nelle avversità della vita tira sempre fuori il meglio di sé. Quand’ero piccolo avevo i capelli biondi e una vivacità fuori dal comune. All’epoca noi bambini non avevamo giochi, solo la fantasia e la semplicità che erano naturali a quell’età. Non ricordo molto di quel tempo, ma dai racconti di mia madre ero proprio un discoletto. Mi piaceva molto l’acqua, tanto che un giorno fui sorpreso con un amichetto sulle rive del fiume Arno a giocare vicino alla corrente. Eravamo piccoli e non ci rendevamo conto del pericolo. Un passo falso e saremmo finiti nella corrente del fiume. Fu grazie alla prontezza di spirito di mia madre e di una sua amica, che prendendoci alle spalle, forse ci salvarono. Un altro fievole ricordo che ho di quegli anni, è la televisione. Con la mia sediola andavo in un altro capannone ad ammirare una scatola da dove uscivano immagini e suoni.

    Gli anni passarono tra varie difficoltà che in quei tempi di ricostruzione certo non mancavano. Mia madre un giorno si ammalò di tubercolosi e stette in ospedale per molto tempo.

    Nel frattempo la vita mi portò in un paesino di nome Sappada in provincia di Belluno. Avevo sei anni. Era un collegio per profughi Giuliano-Dalmati. In quel luogo molti figli di profughi trovarono un po’ di regolarità nella vita di tutti i giorni. Ci stetti circa tre anni. Una signora vestita di nero veniva qualche volta a trovarmi: era mia madre. Le precarie condizioni economiche non le permettevano di affrontare le spese di un viaggio, così quando arrivava, quasi non la riconoscevo. Non si può mai immaginare la sofferenza di una madre separata dal proprio figlio. Ci sono dolori che non si possono condividere, né raccontare, ma solo vivere.

    Sappada era un posto di montagna dove la mia cagionevole salute, e le condizioni economiche di mia madre, avrebbero avuto un po’ di tempo per rimettersi. Ho un bel ricordo di quel periodo. Alla fine di novembre, alle prime nevicate, era una festa per tutti. Affacciati alle finestre tutti osservavamo il lento e silenzioso scendere di quelle stelle bianche, così le chiamavamo noi bambini, e tra grida di stupore e gioia, si faceva a gara a chi vedeva il fiocco più grande. Il nostro collegio agli occhi di un bambino di sei anni sembrava enorme. Al piano terra vi erano le aule di scuola, il refettorio e le cucine. Al primo piano le camerate. Non ricordo quanti eravamo in ogni stanza. Due sono le cose che ricordo bene. Il lungo corridoio che si estendeva in tutta la lunghezza dell’edificio, dove con altri miei compagni facevamo delle lunghe corse solo con le calze ai piedi, che poi finivano in una lunga pattinata finale; e la caldaia del riscaldamento, dove venivo rinchiuso per punizione quando ne combinavo una delle mie. Mi dicevano che quella era la casa del diavolo. Ancora adesso ripensandoci rivedo il bagliore ardente del fuoco, e sento il rumore tipico di una caldaia quando è accesa. Non ricordo se m’incuteva paura, ma sicuramente per un bambino di sei anni non era il posto migliore per giocare. Così tra boschi e cime innevate, parte della mia infanzia consumava il suo tempo. In quei tre lunghi anni passati in quel collegio tra montagne, e valli verdi, la mia ancora viva passione per la montagna trovò la sua naturale genesi.

    La mia storia inizia proprio in quel piccolo paesino tra le montagne bellunesi. Oltre al nostro collegio, poco distante, ve ne era un altro femminile, sempre per figli di profughi, ma ospitava anche bambini orfani. Una volta la settimana venivamo tutti portati, maschi e femmine, nella parrocchia del paese gestita da diocesani, gente del posto con animo montanaro sempre allegra e disponibile. Giocavamo tutti nel giardino dell’oratorio, poi nel teatrino della parrocchia si vedeva uno spettacolo o un film proiettato per noi.

    Era un pomeriggio di aprile, e il sole di primavera faceva sentire il suo calore. La neve si stava sciogliendo lasciando grandi chiazze verdi nei prati dove apparivano i primi fiori chiamati bucaneve. Il nome deriva dal fatto che è uno dei primi fiori ad apparire alla fine dell’inverno, bucando letteralmente il manto nevoso oramai sottile. Quando il bucaneve sboccia, è di colore bianco crema e dalla bellezza semplice e discreta. Il suo lungo gambo finisce con un fiore a campana rivolto verso il basso. Al suo interno vi sono delle striature che dal bianco vanno verso il verde. Il bulbo è di colore arancione intenso. È un fiore molto forte, riesce a resistere a temperature

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