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Il gioco degli dèi bambini
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Il gioco degli dèi bambini

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Fantascienza - racconti (167 pagine) - Sette affascinanti racconti dall'autore due volte vincitore del Premio Urania, nella migliore tradizione del racconto brillante e affilato che ha reso famoso Robert Sheckley


Se l'universo è la creazione di una specie di supercomputer, ci sono dei bachi? In regime di lotta agli sprechi come cambiano le funzioni funerarie? Quale miglior modo per sfruttare l'invenzione del secolo se non aprire una pizzeria? Se sei un dio del male, in quale settore economico dovresti operare per fare più danni? Chi può fermare un pericoloso terrorista se non un irresistibile cuoco? Si è legalmente responsabili per le azioni dei propri software? E se si può amare una bambola, una bambola può amare noi?

Brillante, arguto, capace di sollevare dubbi e domande che scuotono la coscienza e la visione del mondo, Piero Schiavo Campo dimostra di saper padroneggiare la lunghezza del racconto almeno altrettanto bene di quella del romanzo, che gli è valsa due Premi Urania


Nato a Palermo ma residente a Milano, Piero Schiavo Campo, laureato in astrofisica, insegna teoria e tecnica dei nuovi media all'Università di Milano Bicocca. Nel 2013 è stato pubblicato su Urania il suo romanzo L'uomo a un grado kelvin, vincitore del Premio Urania, premio che ha vinto di nuovo nel 2017 con Il sigillo del serpente piumato. Sempre nel 2017 ha vinto il Premio Robot col racconto La rotta verso il margine del tempo.

Collabora con Robot e ha un blog personale, The Twittering Machine, dove pubblica racconti e brevi saggi scientifici.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateMar 26, 2019
ISBN9788825408591
Il gioco degli dèi bambini

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    Il gioco degli dèi bambini - Piero Schiavo Campo

    9788825405934

    Backdoor

    1.

    Il momento era arrivato. Il dottor Michele Saltorius si aggiustò la giacca e diede un colpetto di tosse, prima di bussare discretamente alla porta della dottoressa Steffani. Dall’interno gli giunse la voce energica e melodiosa della direttrice del centro di ricerca.

    – Avanti!

    Saltorius si schiarì la gola e fece leva sulla maniglia di metallo. Anche se era terrorizzato, non aveva modo di evitare quell’incontro; da quando nel 2032 la ricerca italiana era stata di fatto trasferita a enti privati, quasi tutti coloro che se ne occupavano erano finiti sotto il controllo di organismi amministrativi che dipendevano dagli investitori. Costoro, inevitabilmente, chiedevano risultati. Raramente la pressione esercitata sui ricercatori era assillante. Chi investiva del denaro nella ricerca sapeva bene che la scienza ha i suoi tempi; che a volte imbocca vicoli ciechi che comportano sprechi di tempo e di denaro, che altre volte si affida alla serendipity, la straordinaria capacità che ha l’esistenza di farci trovare qualcosa quando stiamo cercando altro. Gli sponsor erano pazienti, tuttavia la loro pazienza non era infinita. Prima o poi qualcosa doveva saltare fuori dal lavoro dei gruppi di ricerca, altrimenti i fondi sarebbero stati tagliati. Purtroppo il caso di Saltorius sembrava senza speranza. Da due anni si stava occupando di un progetto che fin dall’inizio era stato classificato di classe D4, cioè con scarse probabilità di successo. I soldi gli erano stati dati con il contagocce: il primo anno potevano essere considerati quasi sufficienti, il secondo decisamente scarsi. Adesso si trattava di discutere il budget del terzo anno; per conservare il finanziamento avrebbe dovuto presentare qualche risultato, magari preliminare, magari da confermare, ma il bilancio della sua ricerca era di tutt’altro tipo: risultati zero. Non una sola volta la sua macchina aveva registrato un qualsiasi evento che potesse confermare la teoria su cui lavorava da tutta la vita.

    La grande stanza foderata di legno era illuminata da quattro lampade alogene che gettavano intorno una luce morbida, studiata apposta per fare sentire a proprio agio la dottoressa Steffani e i suoi ospiti, ma Saltorius non ci badò. Rimase in piedi come sull’attenti davanti alla scrivania, perfettamente sgombra, a parte il monitor su cui la dottoressa, con aria corrucciata, stava studiando i dati dell’ultimo trimestre. Quando finalmente la donna volse lo sguardo verso di lui, Saltorius si sentì ancora più piccolo e minuto di quanto non fosse in realtà. I suoi grandi occhiali con la montatura di tartaruga si appannarono leggermente, il suo volto si fece pallido.

    – Dottor Saltorius, ho appena finito di leggere il suo rapporto. Un fiasco completo, a quanto pare. Lei pensa che questo istituto le fornisca un assegno a titolo di sine cura?

    Saltorius cercò di rispondere, ma gli mancava il fiato. Finalmente riuscì a emettere un flebile: – No, dottoressa.

    – Bene. Sono contenta che le sue opinioni coincidano con le nostre. Adesso cerchiamo di capirci. Che cosa conta di fare? Dovremmo rinnovarle l’assegno anche per quest’anno a fronte di nulla? Vuole leggere insieme a me? Guardi sul monitor. Eventi significativi rilevati: zero. Probabilità di rilevazione di eventi significativi nei prossimi dodici mesi: meno di una su dodici miliardi. Meno potrebbe significare anche una su dodici trilioni, dottor Saltorius. Direi che siamo piuttosto lontani da una qualsiasi conferma della sua teoria. Adesso le chiedo: se lei fosse al mio posto, rinnoverebbe l’assegno o no?

    Essendo in piedi, Saltorius non riusciva a far tremare una gamba, com’era sua abitudine quando stava seduto e si sentiva nervoso. Si fissò la punta delle scarpe e rimase in silenzio.

    – Allora? Sto aspettando una risposta.

    La situazione era imbarazzante. Non aveva modo di difendere il suo lavoro, a meno di mentire sui risultati reali. D’altra parte, per nulla al mondo avrebbe voluto mentire alla dottoressa Steffani. Il motivo era che Saltorius era perdutamente innamorato della dottoressa. Ogni volta che la vedeva passare per i corridoi dell’istituto con quei tailleur grigi che ne fasciavano il corpo statuario lasciando scoperte solo le gambe lunghe e snelle, ogni volta che ne ammirava il volto perfetto, le sopracciglia diritte, gli occhi che sembravano gettare lampi di luce, sentiva montare dentro di sé qualcosa d’indefinibile, che di solito cominciava dalle parti dello stomaco, risaliva lungo la cassa toracica e si trasformava in un diffuso rossore sulle gote. La dottoressa Steffani gli toglieva l’unica cosa di cui fosse veramente fiero: la capacità di ragionare. Davanti a lei si sentiva come uno scolaretto. Tuttavia il caso era grave. Doveva per forza difendersi, quindi doveva per forza mentire. Se non gli fosse stato rinnovato l’assegno, tutti i suoi sforzi sarebbero stati vani. Anni e anni passati a riflettere, a meditare, a costruire formule matematiche troppo lunghe per essere scritte su una sola lavagna sarebbero definitivamente andati in fumo. Saltorius credeva nella sua teoria. L’aveva sviluppata, portata avanti come nessun altro. Adesso che si sentiva a un passo da una conferma sperimentale, lasciare tutto sarebbe stato la seconda cosa più terribile che gli potesse capitare. La prima sarebbe stata perdere il suo posto in istituto, e quindi non avere più l’occasione di ammirare la dottoressa Steffani mente si avviava a passo svelto lungo il corridoio, e qualche volta lo fissava dall’alto con lo sguardo di un’aquila. Mugolando, senza avere il coraggio di guardare negli occhi la sua interlocutrice, cercò di balbettare la menzogna che forse l’avrebbe salvato.

    – Dottoressa, quel rapporto non dice proprio tutto…

    – Ah, no? E come mai mi manda rapporti incompleti?

    – Perché io…

    – Coraggio, Saltorius. Non abbiamo tutta la giornata da spendere in questa conversazione.

    – Proprio ieri c’è stato un evento. Piccolo, per dire la verità. Piccolissimo. Quasi insignificante. Però io credo di essere sulla strada giusta. Nel giro di pochissimo tempo potrei confermare la cosa…

    – Saltorius, mi sta prendendo in giro? Sono due anni che questo istituto le passa dei soldi che la sua ricerca non merita affatto, secondo ogni evidenza. Adesso che ci siamo giustamente stancati, lei viene a dirmi che in pochissimo tempo potrebbe confermare un evento che a lei stesso è apparso quasi insignificante?

    – Mi lasci ancora un po’ di tempo, la prego.

    – Quanto? Altri due anni di denaro sperperato?

    – No, no. Una settimana. Se entro una settimana non avrò trovato una conferma, sono…

    – Saltorius, mi ascolti. Tra una settimana lei torna qui con un rapporto positivo. Altrimenti potrà scordarsi qualsiasi rinnovo di contratto. È chiaro?

    2.

    Uscito dall’ufficio della dottoressa Steffani Michele Saltorius si diresse verso la caffetteria, il grande locale dove a quell’ora, per tradizione, gli scienziati del centro si ritrovavano tutti insieme per una pausa di relax. Lungi dall’essere un semplice rito sociale, quel momento d’incontro serviva ai ricercatori per scambiarsi opinioni utili per il loro lavoro. Molte idee brillanti erano nate da chiacchiere alla caffetteria. In quel momento, però, Saltorius non cercava un confronto scientifico con qualcuno dei suoi colleghi. Sperava solo di incontrare il professor Serbelloni, che era stato il relatore della sua tesi ed era uno dei pochissimi che prendessero sul serio la sua idea. Serbelloni aveva quasi sessant’anni e un grande prestigio scientifico. Era stato lui a spingere per fargli ottenere un assegno di ricerca, ed era l’unico che potesse tentare di convincere la dottoressa Steffani che valeva la pena di dargli ancora un po’ di tempo.

    Il locale era pieno di gente. Gli scienziati sorseggiavano i loro caffè, e mordicchiavano brioche e croissant raccolti in piccoli gruppi sparsi in giro. Nessuno badava alla sua presenza. Restando sulla soglia, Saltorius gettò un’occhiata circolare all’ambiente, scrutando i volti dei suoi colleghi con espressione corrucciata. Il dottor Mattei stava parlando con il suo collega Rossi; si accalorava, agitava le braccia mentre il suo interlocutore lo fissava con un’espressione indecifrabile. Il professor Martini rideva di qualcosa che l’inglese Thomas Richard gli stava raccontando a voce bassa. Marta Salviati, biologa di fama internazionale, sembrava persa nella contemplazione del mattino autunnale, oltre la grande vetrata che dava sul parco. Alberi neri si perdevano nella foschia lombarda, carichi di foglie dai colori caldi.

    Serbelloni era seduto a un tavolo appartato. Sorseggiava un caffè mentre leggeva con aria attenta un articolo di rivista. Teneva gli occhiali da presbite sulla punta del naso, e si accarezzava con la mano la barba bianca e corta. Saltorius gli si avvicinò, e rimase in piedi finché il suo più anziano collega si accorse di lui.

    – Caro Michele! Siediti, ti prego. Com’è andata con la direttrice?

    Saltorius gli rivolse un sorriso mesto, che valeva più di una risposta esplicita. Serbelloni lo fissò accigliato.

    – L’ho sempre detto: la ricerca non dovrebbe essere vincolata a ragioni di business. Nessuna speranza?

    – Ho una settimana di tempo per produrre dei risultati, altrimenti mi cacciano via.

    – Uhm… brutta faccenda. Ma tu a che punto sei?

    Saltorius fissava Serbelloni con gli occhi sgranati, che gli occhiali da ipermetrope rendevano enormi.

    – Sono come uno che sta cercando uno spillo perso nell’erba di un campo da calcio. Negli ultimi due anni ho esplorato il dischetto del centro campo, mi manca tutto il resto.

    Serbelloni scosse la testa, e rimase per un attimo in silenzio a fissare la giornata grigia, oltre la vetrata.

    – Hai fatto progressi con la teoria?

    – Non molti, per la verità.

    – Prova a ricapitolarmi il tutto. A volte parlando ci chiariamo le idee.

    La ricerca di Saltorius partiva da alcune teorizzazioni della seconda metà del secolo precedente, note nel loro insieme come fisica digitale. Sul tema avevano lavorato alcuni scienziati di grande valore tra cui Stephen Wolfram, Edward Fredkin, Seth Lloyd e perfino il premio Nobel Gerard 't Hooft. Dal punto di vista della fisica digitale, in sostanza, la realtà in cui viviamo potrebbe essere descritta come il risultato di un processo di calcolo. L’universo sarebbe un computer, un immenso, sofisticatissimo elaboratore, e alla base di tutto ci sarebbe soltanto informazione allo stato puro. Nel corso degli anni quell’idea aveva affascinato molta gente, ma non era mai riuscita a trasformarsi da interessante speculazione a teoria scientifica verificabile.

    – Il punto di partenza è sempre lo stesso: se l’universo può essere equiparato a un calcolatore digitale, allora da qualche parte dovrebbero esserci dei bachi.

    – Questa è solo un’ipotesi…

    – Naturalmente. Tuttavia è difficile immaginare un processo di calcolo complesso che tenga conto di tutti i possibili input.

    Saltorius era rimasto affascinato dalla fisica digitale da quando, al primo anno di università, aveva letto per caso un libro sull’argomento. Aveva riflettuto a lungo su quell’idea; il problema, a suo giudizio, era quello di trovare una verifica empirica. Non era semplice. Un giorno, mentre stava scrivendo sul suo computer una tesina che doveva presentare di lì a due giorni, la tazza di caffè che teneva in mano gli era scivolata dalle dita cadendo sulla tastiera. Il computer era vecchio, aveva intenzione di cambiarlo quanto prima e non gli importava molto che si rovinasse, ma la tesina era quasi finita e lui non ne aveva salvato una copia! Quando attivò i comandi per memorizzare il file, si rese conto che il programma di scrittura era andato in errore.

    Con i computer ci sapeva fare, e in qualche modo riuscì a recuperare gran parte del lavoro. Ancora terrorizzato all’idea del rischio che aveva corso, si allungò sulla seggiola e improvvisamente, senza nessun preavviso, gli venne un’idea folgorante. Perché, si domandò, l’impatto fisico della tazzina sulla tastiera aveva bloccato il programma? Qual era la connessione? Evidentemente si era attivata una combinazione di tasti che nessun utente di buon senso avrebbe mai utilizzato: un input del tutto inatteso, non previsto dai programmatori.

    – Come sai – proseguì Saltorius – la mia idea è di creare una situazione fisica verificabile, sotto controllo, e modificare i parametri in gioco nel modo più graduale, per controllare se certe combinazioni di tali parametri producono effetti osservabili sotto forma di anomalie.

    Serbelloni sorrise.

    – Sai che ho sempre trovato interessante la cosa, anche se non mi è chiaro che tipo di anomalie pensi di trovare.

    – Non ho modo di saperlo – rispose Saltorius – potrebbero essere qualsiasi cosa. Ne abbiamo già discusso a lungo. Da sempre il mondo scientifico nega ogni valore a eventi soprannaturali, miracoli, apparizioni e cose simili. Sono eventi che tendono a non ripetersi, e chi li osserva, ammesso che sia in buona fede, non ha modo di confermarne la realtà. Tuttavia può darsi che almeno qualcuno, tra gli innumerevoli fatti soprannaturali di cui restano tracce nei documenti del passato, sia avvenuto davvero. In realtà, se la mia idea funziona, ciò potrebbe dipendere semplicemente dal verificarsi casuale di condizioni fisiche che portano a un’anomalia. Che eventi simili si verifichino più volte non è impossibile, ma estremamente improbabile, ed ecco perché gli eventi stessi non si ripetono.

    Saltorius aveva indagato a lungo negli annali della stregoneria e del paranormale. Con grande pazienza aveva stilato un lungo elenco di quelli che lui chiamava eventi, e aveva sottoposto ciascuno di essi ad accurate verifiche. Quasi tutti erano risultati nient’altro che fantasie prive di fondamento, tuttavia era riuscito a isolarne un gruppo di cui si poteva credere che fossero avvenuti davvero. A quel punto aveva cercato di capire se, tra questi eventi possibili, ci fossero circostanze fisiche comuni: la stagione dell’anno in cui si erano verificati, il clima, la temperatura eccetera. Nel fare ciò, si era convinto che un certo insieme di parametri ambientali potessero effettivamente influire sul verificarsi degli eventi stessi.

    – Il tuo vero problema – riprese Serbelloni – è quello di escludere il maggior numero possibile di condizioni fisiche in cui fare i tuoi esperimenti. Altrimenti non fai che brancolare nel buio.

    – Su questo ho fatto dei progressi. Credo di avere trovato delle correlazioni.

    Afferrò uno dei tovagliolini di carta che trovavano posto sul tavolo, in un erogatore di metallo, estrasse una penna dalla tasca della giacca e cominciò a scrivere formule con una scrittura minuta e ordinata. Serbelloni lo ascoltava con interesse. A volte faceva dei cenni di assenso con la testa, mentre continuava ad accarezzarsi la barba stringendosi il mento tra il pollice e l’indice.

    – Capisci? – diceva Saltorius – il trucco in fondo è proprio questo. La fisica tende a semplificare gli esperimenti, non a complicarli, e uno scienziato assomiglia a un programmatore che esegue i suoi test immaginando che l’utente si comporti in modo razionale.

    Serbelloni scuoteva la testa.

    – Va bene, ma anche così il campo di ricerca è sterminato. Potresti riuscirci in un giorno, in un mese, in un anno, oppure in un tempo confrontabile con la vita dell’universo…

    Saltorius sentiva che Serbelloni aveva ragione. Il tempo necessario per osservare qualcosa poteva essere dell’ordine di molti anni, o di qualche secolo. Rispetto alla vita dell’universo sarebbe stato comunque poco, ma troppo per la dottoressa Steffani. Dio, com’era bella! E quando si arrabbiava, era ancora più bella. Che cosa avrebbe fatto una volta fuori di lì?

    Uscito dalla caffetteria, raggiunse il suo laboratorio. Fuori dalla porta, su un appendiabiti, c’era una pesante giacca a vento di piumino d’oca. Saltorius guardò a destra e a sinistra, per assicurarsi che nel corridoio non ci fosse nessuno: non voleva che i suoi colleghi ridessero dei suoi esperimenti. Dopo avere controllato che nessuno lo osservava, indossò la giacca a vento e s’infilò svelto nel laboratorio, chiudendo la porta dietro di sé. Per un attimo rimase a fissare quel posto

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