La vita dentro
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La vita dentro - Sergio Lucchetti
Einstein
Capitolo primo
Tiro giù le gambe dal letto, guardo le mattonelle del pavimento. Sono consumate nel punto dove ogni mattina appoggio i piedi, quando comincia una nuova giornata.
Gaetano mi ha portato il solito caffelatte con i soliti biscotti; sa che ho difficoltà a camminare e allora è così cortese da portarmi la colazione qui. Il rituale non cambia. Puntuale come un capostazione si presenta alle otto con il suo ‘ Buongiorno Piero, dormito bene?’, il cabaret nelle mani e il viso sorridente. A queste tre cose non saprei più rinunciare.
Sulla parete, al lato del letto, ci sono attaccate varie fotografie, sempre le stesse. Sono quelle dei miei due fratelli, Danilo e Tito, quella dei miei genitori il giorno delle loro nozze, era il 1941, quelle di tutti i nipoti, dal più grande, Roberto, al più piccolo, Davide, e quella del mio amico Santino.
Devo urinare. Il pensiero, come accade ogni mattina, mi infastidisce e mi deprime perché probabilmente ho la prostata che assomiglia a tutto fuorché a una prostata. Tiro la tenda e incomincia il supplizio. Un filo sottilissimo di piscio esce dal coso e quest’operazione è capace di durare cinque interminabili minuti. Mi siedo al tavolino e guardo il cielo.
Potrebbe piovere. I temporali estivi li ho sempre detestati, ti colgono di sorpresa e mai nessuno che abbia con sé un ombrello.
Immergo i biscotti nella tazza e accendo la TV. Passano le notizie, le televendite, vecchi telefilm, il discorso del Papa, un cartone animato di Hanna e Barbera, poi spengo e butto un’occhiata al giornale. È quello dell’altro ieri, ma non importa; il mondo non sarà certo cambiato in due giorni. Due giorni, se guardati meglio, se paragonati a un’intera esistenza, sono un attimo, il tempo di un sospiro. Io avevo incominciato a contarli i giorni, e prima ancora le ore e i minuti; poi iniziai con i mesi e gli anni. Alla fine ho smesso di contare. Quando lo osservi scorrere il tempo non passa mai, come quando faccio la pipì. Una volta un prete mi disse che il tempo aveva come unico scopo quello di preparare un individuo all’incontro con Dio.
- Se muori da giovane ti è bastato poco tempo, se muori da vecchio allora te ne è servito di più. -
Io obiettai. - E quando muoiono i neonati? -
- Adesso non cavillare, cazzo! - fu la sua risposta.
Poi parlerò di don Evandro. Ho dimenticato di dire che fra le ventuno fotografie c’è anche quella di Elisa. È una foto del 1970, aveva ventisette anni. I capelli lunghi color rame erano la cornice del viso più dolce e angelico che una donna possa mostrare. Non era ‘bella’. Lei era la bellezza. Sì, è più corretto dire così.
I pranzi e le cene ormai sono diventati una pericolosa incognita: da otto mesi sono cambiati i cuochi. Patrizio e Rashid non ci sono più: il primo è andato in pensione, il secondo ha aperto un bar con suo fratello. Li hanno sostituiti due sardi che pare sappiano cucinare solo il maialino, per il resto sono un vero pianto. Quindi ogni giorno alberga in tutti la speranza che i due isolani non si avventurino nella preparazione di piatti troppo elaborati e sofisticati, che vorrebbe dire saltare il pasto a piè pari per evitare ulteriori guai. Non che a settantaquattro anni io pretenda di mangiare chissà che cosa; anche a tavola mi sono sempre accontentato, ma non vorrei arrivare a nutrirmi solo di mele e caffelatte con biscotti. Come diceva non ricordo chi, - quando sarà il momento vorrei arrivarci in buona salute. -
Il pomeriggio, per quelli non più giovanissimi, è dedicato allo scopone. Io e Vincenzo siamo la coppia da battere. Anzi, lo eravamo. Ormai da un anno e mezzo non scendo più con gli altri, troppa confusione, troppo fumo. Preferisco starmene nel nido a leggere, a guardare la televisione e a dormire. Sono un anziano anomalo: dormo tanto. Mi piace dormire anche se da molti anni ho smesso di ricordare i sogni. Quando lo facevo il sogno era quasi sempre lo stesso: Elisa che mi sorrideva e mi baciava, poi mi prendeva la mano e mi trascinava nell’acqua del fiume.
Ho privilegi che tanti altri non hanno. Sarà per l’età. Qui sono solo, ormai da quasi un decennio, e posso disporre delle mie giornate come più mi piace. Con l’avanzare della vecchiaia ho imparato che le piccole comodità fanno bella la vita. Certo, la compagnia fa bene al morale, allo spirito. - La compagnia fa compagnia. - diceva il vecchio Tarev, che era specializzato nel coniare detti. Io devo ringraziare la fortuna che mi ha fatto sempre incontrare bella gente. Quando entrai, ricordo che avevo solo il terrore per compagnia, ci mangiavo e ci dormivo. Ero giovane. Molto giovane. Era tutto più grande di me. La vita era di colpo diventata una montagna troppo difficile da scalare. Mi sentivo una foglia portata via dalla corrente. Una zattera nel mare in tempesta. Schiacciato dalla rabbia del mondo che mi aveva affibbiato l’etichetta di ‘nemico’. Anche ribellarsi era come urlare contro vento, la mia voce non arrivava a niente e a nessuno. Neanche a Dio. Eppure mia madre mi aveva educato alla religione e mi aveva garantito che Dio la mia voce, seppur flebile, l’avrebbe ascoltata.
- Mamma perché devo sempre fare quello che non mi va di fare? -
- Perché sei il più grande e perché te lo dico io! -
- Io non voglio andare a messa tutte le domeniche. -
- E invece tu ci vai. -
- Perché Tito e Danilo non ci vanno? -
- Perché almeno uno della famiglia ci deve andare e questa domenica tocca a te. -
- Papà non ci va mai. -
- Tuo padre non sa neanche dov’è la chiesa. -
- E se non ci vado? -
- Dio ti vede, viene a dirmelo e io ti riempio di sganassoni. -
Quindi non smisi mai di pregare, né quando un signore in toga nera pronunciò la parola ‘colpevole’, né quando varcai la soglia di questo istituto di pena.
Il 9 gennaio 1972 alle dieci e quaranta del mattino Elisa Fontanesi, la mia allora fidanzata, e un tale, Michele Cirrincione, commissario di Pubblica Sicurezza, furono trovati morti nell’appartamento di lui. L’uomo vicino alla porta d’ingresso, lei in camera da letto. I corpi erano nudi. Le indagini accertarono che il duplice omicidio era avvenuto la sera prima, intorno alle 23, nonché il calibro della pistola che li aveva uccisi. Dall’abitazione non era stato sottratto nulla. Fu soltanto trovata l’agenda di lavoro del Cirrincione dove ricorrevano sovente le parole ‘Nove dita’: nomignolo col quale, molto probabilmente, veniva indicato un uomo, sicuramente un informatore della polizia, che ovviamente non venne mai trovato. Ma la piazza voleva un colpevole, quindi, come unico indiziato, il 17 gennaio venni prelevato dalla mia abitazione e arrestato. Gli inquirenti non trovarono alcuna prova che potesse inchiodarmi se non la presenza di un foglietto nella borsa di Elisa con su scritte le parole ‘Fino alla morte’ e la testimonianza di un vicino che sosteneva di avermi visto entrare e poi uscire da quel palazzo a quell’ora. Naturalmente non avevo un alibi, un alibi convincente, in grado di smentire la sua testimonianza. Quindi in estate fui processato. Il pubblico ministero sostenne la sua accusa nei miei confronti sulla base di quei pochi elementi, ovviamente mettendo l’accento sul movente della gelosia. Fui condannato all’ergastolo per duplice omicidio volontario premeditato. Per me si erano aperte le porte dell’inferno e la mia vita venne buttata nella spazzatura come carta straccia.
Quando quel pomeriggio entrai nella 321 Santino stava dormendo. Posai lo zainetto che era stato attentamente perquisito al primo piano e mi sedetti sul letto. Avevo l’urgenza di telefonare al mio avvocato e mi rivolsi al secondino.
- Mi scusi, io dovrei… -
- Comincia col chiamarmi ‘superiore’, stronzetto. -
- Sì, superiore. Io dovrei chiamare il mio avvocato per… -
- Adesso non puoi chiamare nessuno! -
E chiuse il portoncino.
Rimasi immobile a lungo. Era capitato tutto troppo in fretta e ora la rabbia e la paura mi paralizzavano. Mi chiedevo se fossi proprio io o se fossi, come in un incubo, precipitato nella vita di qualcun altro. Forse quelle mani, quelle gambe non erano mie, non era mio il respiro.
Invece quella era la realtà. Ero stato sbattuto fuori a calci dalla mia casa, dal mio letto, dalla mia vita. Adesso mi sentivo lontano dal mio passato più recente e lontanissimo dal mio futuro. Avevo lasciato i miei genitori in cucina. Piangevano. Chissà per quanto tempo ancora l’avrebbero fatto. Io non ci riuscivo a piangere. Se lo fai hai comunque un rapporto stretto con il tuo corpo, con i tuoi occhi, sei presente a te stesso. Io non c’ero dentro di me, non ero in nessun’altra parte.
Provai a chiudere gli occhi. Si sentivano solo le voci e i rumori del braccio. Invece nella 321, abitata da un ragazzo che dormiva e da un uomo di trent’anni terrorizzato, regnava il silenzio.
Di lui vedevo solo il corpo e i capelli e si capiva che era molto giovane.
Dopo parecchio, non saprei dire quanto, si svegliò.
- Ciao. -
Io risposi con un cenno della testa. Si alzò, si tolse la maglietta e si sciacquò il viso.
- Ti va del caffè? -
Non risposi.
Si mise a preparare la macchinetta, accese il fornello e rimase immobile a guardarla aspettando che il liquido uscisse.
Quando fu pronto ne versò un po’ in una tazzina.
- Sicuro? -
- No. No, grazie. -
Si venne a sedere di nuovo davanti a me. Lo guardai.
Aveva gli occhi di un bambino ma si intuiva che i suoi pensieri, come in un adulto, sapevano quali strade seguire, dove e quando fermarsi. La compostezza dei suoi movimenti m’impressionava, la lucidità del suo sguardo m’intimidiva. Non avrei saputo dire da quale classe sociale provenisse: il suo aspetto era indefinibile, non aveva né i tratti del rampollo di buona famiglia, né quelli di un ragazzo che avesse provveduto da sé alla propria educazione. Il suo aspetto, come i gesti, erano discreti.
Dopo qualche minuto azzardai:
- Mi chiamo Piero. -
- Piacere.