Adesso vieni qui
By Laura Parker
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About this ebook
In un’incantevole isola del Texas, Galveston, dove l’oceano scandisce la vita di molti dei suoi abitanti, Grace vive con sua nonna Rosemary in una grande villa e ha un sogno: trasformarla in una locanda dove poter accogliere i turisti che ogni anno si riversano sull’isola.
Un giorno, a Galveston, arriva Matthew. Viene da Houston e ha un pesante passato alle spalle, ma sembra pieno di entusiasmo e cattura l’attenzione di Grace sin dal primo istante. Tra i due si instaura un legame viscerale che, tra vecchie insicurezze e nuove paure, li porterà a vivere ogni giorno nell’unico modo che si addice all’amore vero. Almeno fino a quando il destino, con un colpo di mano imprevedibile, deciderà per loro.
Laura Parker
Multi-award winning author Laura Parker loves to travel. She's been part of ship christening in Norway, scuba dived on the Great Barrier reef, and climbed glaciers on two continents. Her spirit for adventure may have been born when she was. At only six weeks, she made her first trip from Texas where she was born to Arkansas where she grew up. She's lived in Washington D.C., Connecticut, New Jersey, with long stretches in between under the big sky of Texas. An avid traveler, she's logged miles in England, Ireland, Denmark, Norway, Germany, France, Belgium, Italy, and Australia. The Caribbean, Mexico and Canada? Of course! Just now, she's trying to finagle a trip to China. Married with three children, Laura began her writing career while taking time off from a degree in microbiology to take care her of personal biology experiments at home, two wearing diapers, and one in kindergarten. Two years later, she sold her first book, a historical romance Silks and Sabers. Always adaptable, she decided to see how far this enterprise would take her. Her thirty romance novels are now considered classics, and many are being re-released as e-books. A sought-after speaker and writing workshop leader, Laura puts her passion for the written word to good use. She is the President of the Board of Novelists, Inc (NINC), the only writers organization devoted exclusively to the needs of multi-published novelists. She is past President and current board member of the Writers Colony at Dairy Hollow, a working writers' residence program in Eureka Springs, Arkansas. Among her many honors is being named recipient of the Arkansas Writers Hall of Fame Award for 2005 and She recently was designated by Romantic Times as a "Legend of Romance" and won the "Pioneer" award for the Romance genre.
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Adesso vieni qui - Laura Parker
Prologo
Fossi stata una qualunque altra persona, sono convinta che gli eventi si sarebbero svolti in maniera diversa. La loro successione non avrebbe inciso sul resto della mia vita nel modo in cui invece ha inciso. Non mi sarei lasciata prendere da reazioni istintive e irragionevoli. Con il senno del poi, dopo aver raggiunto una certa maturità, mi rendo conto che non ho altre scuse se non l’imprevedibilità degli stessi eventi, l’incoscienza di fondo e quell’indole impulsiva con cui affrontavo all’epoca la vita. Avrei potuto negare a me stessa molte sofferenze se avessi permesso che il buon senso prevalesse sull’istinto. Se mi fossi posta il problema di quello che la gente avrebbe potuto pensare, se mi fossi minimamente preoccupata di dove mi avrebbero portato tutti quei giorni spesi nell’illusione di raggiungere una felicità che, nei rari momenti in cui ero lucida, mi appariva effimera e sempre più irraggiungibile.
Ma le storie d’amore intense, quelle vere, non sai mai dove ti porteranno. Non è forse questo il segreto? Il non conoscere la meta, limitandosi a percorrere una strada ignota, lastricata di ostacoli, a volte tanto stretta e contorta da non riuscire nemmeno a respirarci dentro?
Ascolto il tintinnio del ghiaccio nel bicchiere mentre lo rigiro tra le mani, misto al rumore delle onde del mare che mi arriva da lontano. Seduta sul mio vecchio dondolo di legno, sollevo lo sguardo al di là del portico, superando la vista degli scalini scuri consumati dalle termiti, arrivando al di là dell’erba alta del giardino. Ritrovo la sabbia gialla e fresca di questi giorni, arrivo fino alle onde che lambiscono gli scogli ammucchiati a qualche metro dalla riva per arginare la potenza del mare. Mi soffermo lì, nel mezzo di quel colore vivace, un azzurro carico e lucente, per tornare indietro nel tempo a un’estate di molti anni prima.
Capitava spesso che con i miei amici mi spingessi al di là di quegli scogli, solo per mettere alla prova la paura, la nostra resistenza, la voglia di sperimentarsi in una nuova avventura. Sorrido ricordando gli sguardi soddisfatti, fieri, di chi riusciva ad arrivare primo, riemergere dall’acqua e puntare il dito verso di noi che eravamo rimasti indietro. All’epoca non sospettavo che la mia vita avrebbe subito un cambio di rotta, neanche lo desideravo forse. Come si può desiderare quello che non si conosce?
Forse cominciò tutto il giorno in cui mi spinse dolcemente in direzione degli scogli. Avvertii sulla schiena un improvviso calore, una mano poggiata proprio all’altezza delle scapole. Ero distesa nell’acqua, galleggiavo tenendo gli occhi chiusi intenzionata a godermi quella sensazione di libertà che solo l’acqua del mare era in grado di regalarmi. Appena consapevole degli schiamazzi dei miei amici, pochi metri più in là, me ne stavo in silenzio ascoltando il rumore dei miei pensieri.
Poi arrivò quella mano sulla mia pelle. Grande, ferma. Aprii gli occhi di scatto, agitandomi appena un po’. I suoi occhi furono la prima cosa che vidi. La sua figura si stagliava contro il cielo azzurro, quasi adombrata dalla luce del sole alle sue spalle. Colsi un lampo di divertimento in quelle iridi chiare, mi agitai ancora ingoiando un po’ d’acqua che sembrava volesse all’improvviso risucchiarmi.
«Calmati» lo sentii dire, la sua mano ferma sulla schiena.
Cercai di rimettermi a galla, muovendo velocemente le gambe. Lo guardai con aria interrogativa.
«Mi dispiace averti spaventato» si scusò subito.
Sentivo il rumore del mio respiro affannoso mentre non smettevo di fissarlo.
Dovette intuire la mia confusione perché aggiunse: «Temevo che la corrente ti spingesse via». Poi sorrise. «I tuoi amici nemmeno si sono accorti che sei arrivata fin qui».
Mi voltai in direzione degli scogli e realizzai con stupore quanto mi fossi allontanata dal gruppo. Un’ondata di panico mi travolse, sbarrai gli occhi. Mi voltai di nuovo in direzione dello sconosciuto. «Grazie» dissi ancora boccheggiando. «Non so come avrei fatto se non ci fossi stato tu».
Mi guardò stringendo gli occhi, poi fece spallucce. «Figurati».
Lo vidi avviarsi verso la riva a grandi bracciate. Si fermò all’improvviso e sorridendo in modo canzonatorio mi disse: «Sta’ attenta».
Gli rivolsi un cenno di assenso. Non riuscii a evitare di provare dispiacere al pensiero che sarebbe scomparso dalla mia vita all’improvviso così come vi era apparso. Sospirai e lentamente tornai dai miei amici.
O forse cominciò il giorno dopo quando lo vidi passeggiare sulla spiaggia, la testa bassa e le spalle leggermente piegate in avanti. Sembrava avere l’espressione di chi, vinto dalle circostanze, si sta per arrendere. E, in un modo che non so spiegarmi, da quella assurda distanza compresi di dover tornare indietro, a riva. L’andatura con cui procedeva, lenta, lentissima, mi aveva messo addosso un’urgenza che non mi preoccupai di analizzare. Seguii solo l’istinto, quasi una parte di me sapesse di dover cogliere l’attimo proprio lì, proprio in quel preciso momento.
Salutai in gran fretta i miei amici, radunati vicini agli scogli. Mi lanciarono occhiate interrogative senza però farmi domande. A grandi bracciate percorsi al contrario quel tratto di mare che mi separava dalla riva. Boccheggiai, una volta arrivata, e sollevai lo sguardo per capire che fine avesse fatto quel ragazzo. Sentivo il cuore battere forte in petto, non tanto per lo sforzo fisico a cui avevo sottoposto il mio corpo, quanto per l’eventualità che fosse sparito nel nulla. Con entrambe le mani sugli occhi per proteggermi dal sole cocente di quella mattina, cercai con lo sguardo la sua figura tra decine di villeggianti incalliti che prendevano il sole, chiacchieravano animatamente, si concedevano una passeggiata con i piedi in ammollo sul bagnasciuga. Ansimando, lo individuai a circa una decina di metri dal punto in cui mi trovavo. Fu il modo particolare in cui si muoveva ad aiutarmi, avrei potuto riconoscerlo senza problemi. Mi asciugai il viso passandomi i palmi delle mani sulle guance, tirai indietro i capelli bagnati e mi diedi una veloce scrollata lasciando che gocce luccicanti di acqua atterrassero un po’ ovunque intorno a me. Non sapevo bene come avvicinarlo, come spiegare quell’urgenza che avvertivo, ma decisi che l’avrei scoperta una volta che lo avessi avuto di fronte. Desideravo parlargli, volevo guardarlo negli occhi, capire l’origine del suo evidente malessere, soprattutto dare una spiegazione a quell’irrefrenabile desiderio di intervenire che mi aveva investito senza scampo.
Quando lo raggiunsi, allungai piano una mano verso di lui. Quel contatto mi provocò un brivido inaspettato. Chiusi gli occhi, poi li riapri in fretta. «Scusa» dissi con un filo di voce.
Era di spalle, non poteva vedermi. Ma udì la mia voce. Si voltò piano lanciandomi uno sguardo carico di stupore. «Per cosa?» mi chiese subito accennando un sorriso.
Provai un grande imbarazzo a trovarmelo di fronte. Non sapevo bene cosa dire, sentivo l’agitazione aumentare a dismisura. «Io…» tentennai.
In tutta risposta, corrugò la fronte e in un gesto istintivo sollevò la mano scostandomi un ciuffo di capelli bagnati che mi era caduto sulla fronte. Sorrisi, visibilmente compiaciuta.
«Grazie» dissi guardandolo dritto negli occhi.
«A te» fece lui.
«Io sono Grace».
«Ciao, Grace» rispose senza aggiungere il suo nome, particolare che mi lasciò con l’amaro in bocca. «Avevi bisogno di qualcosa?» si informò a quel punto. E sorrise. Fu uno di quei sorrisi genuini, un po’ imbarazzati ma tremendamente seducenti.
Ormai da qualche estate mi rintanavo in quella piccola cittadina di Galveston in Texas. Arrivavo da Amarillo alla fine dell’anno scolastico con la mia pesante valigia in tessuto e mi sistemavo a casa della nonna Rosemary, un’arzilla vecchietta intenta più a giocare a bridge con le sue amiche vicine di casa che a preoccuparsi di star dietro a una nipote istintiva e passionale.
A Galveston, durante le tante estati passate lì, avevo conosciuto persone provenienti da tutto il mondo. Grazie alla mia innata capacità di catturare l’attenzione di chiunque con la mia verve e la sfrontatezza con cui affrontavo ogni giorno, avevo fatto amicizia con chiunque passasse sull’isola. Galveston era un crocevia di razze, una cittadina dinamica e affascinante, un piccolo paradiso sferzato dalle correnti degli implacabili uragani che ritmicamente si abbattevano sull’isola, disseminato di incantevoli edifici storici in stile vittoriano, ristoranti in cui si mangiava dell’ottimo pesce fresco e vecchie case in legno punteggiate in autunno da assi trasversali per proteggersi dalla potenza inesorabile del mare, abitazioni per lo più abbandonate al proprio destino. C’erano pochi abitanti che risiedevano sull’isola per tutto l’anno, in gran parte si trattava di famiglie che avevano prenotato una vacanza per qualche settimana per staccare dalla routine e concedersi giornate di relax, mare e sole. Conoscevo quasi tutti i residenti, recandomi lì ogni estate sin da bambina. Ma quel ragazzo, no. Non l’avevo mai visto prima.
Mi soffermai a osservare il suo viso, il mento appena pronunciato, gli occhi piccoli e stretti, la bocca ben delineata incurvata in un mezzo sorriso.
«Mi stai fissando» disse senza darmi l’impressione che questo potesse dargli fastidio. Tutt’altro. Sembrava quasi provare un sottile piacere ad essere al centro delle mie attenzioni.
«Non è vero!» protestai.
«Oh, sì» fece con un cenno di assenso, «lo stai facendo, eccome!»
Scoppiai a ridere più per un velato nervosismo che per divertimento. «Forse solo un po’» ammisi scrollando le spalle.
Questa volta fu lui a ridere.
«Non mi hai detto come ti chiami» gli ricordai a quel punto con una sfacciataggine che sorprese me per prima.
Ogni volta che avrei ripensato all’attimo prima che mi dicesse il suo nome, avrei sorriso, colta da un leggero senso di beatitudine. Un nome, un solo nome, poteva portare a galla tutta quella felicità?
«Io sono Matthew» disse. Di nuovo quel sorriso e quello sguardo diretto che mi fecero venir voglia di non lasciar andare mai più la mano che nel frattempo mi aveva teso e che stavo stringendo. Pelle su pelle.
Non sognavo quando quel giorno intravidi uno strano luccichio nei suoi occhi. Non sognavo mentre realizzavo che lì in quell’istante rimasto immutato nel tempo e nello spazio, tra tutti i luoghi possibili al mondo e le innumerevoli vite che avremmo potuto vivere o persone che avremmo potuto incontrare, Matthew stava stringendo proprio la mia mano. Che cosa mi stava succedendo?
«Ciao, Matthew». Mi piacque immensamente pronunciare il suo nome. Mi riempì la bocca, investendomi con un’ondata di calore inspiegabile, lasciandomi per un attimo stordita.
Avrei voluto aggiungere qualcosa, ma quei suoi occhi piantati nei miei, quella mano che pure lui si ostinava ancora a stringere, mi avrebbero fatto solamente balbettare. Evitai allora di parlare, continuando a fissarlo in silenzio.
«Va bene» esclamò. «Vuoi farmi compagnia? Stavo passeggiando» mi propose staccandosi infine da me.
Lo vissi come un piccolo tradimento, avrei voluto ancora la sua mano nella mia. Le sue parole, però, riuscirono ad attutire l’impatto della delusione. «Dove andavi?» mi informai.
Con un’alzata di spalle rispose: «Non ho una meta».
Senza aggiungere altro, ci incamminammo l’uno di fianco all’altra lungo il bagnasciuga. Sentivo la sabbia intrufolarsi tra le dita dei piedi, l’acqua arrivarmi fin sulle caviglie mentre l’aria accarezzava le nostre spalle riscaldate dal sole. C’erano file irregolari di ombrelloni colorati, un vivace chiacchiericcio a far da sottofondo misto al gracchiare di vecchi successi degli anni novanta provenienti dai lidi disseminati sulla spiaggia, immancabili colonne sonore di estati memorabili.
1
Mi ci volle un po’ per comprendere quali fossero i miei veri sentimenti, con quanta sottile astuzia e precisa determinazione quell’amore, che mi stavo negando e che consideravo folle, mi avesse occupato il cuore. Impiegai settimane, che lo volessi o meno, ad accettare il fatto che Matthew facesse ormai parte della mia vita, dei miei pensieri più nascosti, dei miei respiri quotidiani.
Passeggio lentamente in Seawall Boulevard, accanto a me solo i ricordi e una dolce nostalgia che non mi abbandona mai. Il vento freddo e salmastro che arriva dal mare sferza il mio viso, le onde arrivano a lambire una grande porzione di spiaggia e qualche goccia d’acqua mi ferisce come un ago. Rabbrividisco stringendomi nella giacca a vento che ho indossato in tutta fretta prima di uscire. Non so perché abbia deciso di fare questa passeggiata. O forse sì, lo so bene.
Un passo dopo l’altro, decisa, proseguo verso il punto in cui si trova la Great Storm Statue, tra la Quarantacinquesima e la Cinquantatreesima. Voglio raggiungerla, restare immobile ad ammirarla come mi accadeva spesso in passato. Installata nel 2000 in occasione del centenario della Grande Tempesta del 1900, che aveva causato seimila vittime oltre che ingenti danni all’isola di Galveston, è a mio avviso una delle opere più emblematiche della storia dell’intero Texas.
Mi asciugo il viso con il palmo della mano, intravedo la sagoma della statua. Mancano pochi metri, accelero il passo in modo appena percettibile fino a quando me la ritrovo di fronte.
Diventata con gli anni un’irrinunciabile attrazione turistica per chiunque arrivi sull’isola, la statua di bronzo mi osserva in tutta la sua fierezza. Fisso lo sguardo della donna che sembra trattenere in sé tutto il dolore della perdita, dell’insicurezza e della devastazione che un uragano comporta. Fisso il modo in cui stringe il suo bambino, in un disperato