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Tenda 8 Speranza. Da Bruco a Farfalla
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Ebook305 pages4 hours

Tenda 8 Speranza. Da Bruco a Farfalla

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About this ebook

Attraverso la storia dell'adozione di un bambino sieropositivo è tutta la storia dell'AIDS ad essere ripercorsa.

È una storia di lotta giornaliera, di voglia di vivere in un modo alternativo, è la storia di un periodo di trasformazione da cui prende nome il libro: Da bruco a farfalla, opera di sensibilizzazione all'AIDS che per la sua portata mondiale è entrata a fare parte della storia dell'umanità.
LanguageItaliano
Release dateJan 7, 2016
ISBN9788893062640
Tenda 8 Speranza. Da Bruco a Farfalla

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    Tenda 8 Speranza. Da Bruco a Farfalla - Nadine Léon

    https//www.facebook.com/tenda8speranza

    CAPITOLO I

    Anno 2001, 4 luglio : Nascita del libro.

    Sto un male cane. Con crampi di stomaco.

    Luca e io siamo appena tornati dall’incontro del gruppogenitori guidato dal dottor Ambrosini, il nostro psicologo. Di corsa sono scappata e mi sono barricata in bagno per  piangere tutte le mie lacrime, di nascosto. I bambini da basso chiedono:

    "Dov’è la mamma?, urlano, Maammaaaa!

    Mica posso farmi vedere in questo stato disperato. Dalla finestra chiusa grido:

    – Chiamate il Papà!"

    Questa scena, dico quella di piangere chiusa in bagno, me ne ricorda un’altra, di circa dieci anni fa. Anni 90. Quando abbiamo saputo della malattia di nostro figlio Jared. Distrofia muscolare, ci dissero, quella di Duchesne, la peggiore. Quell'anno il mondo mi crollò addosso.

    Oggi non è proprio la stessa cosa, ma ci sono delle similitudini. Stesso dolore che mi toglie il respiro e mi fa sprofondare dietro a un impenetrabile mutismo. Tanto, anche se tentassi di proferire qualche parola, verrei subito sopraffatta dal pianto. Quando è troppo grande il dolore non riesce più a stare nelle parole e allora, più che nel dire, si rivela nel tacere. Tra le radici del silenzio, il dolore parla da sé.

    Devo però ammettere che, mentre scrivo, mi sento meglio, leggermente più distaccata. È da tanto tempo che ho il famoso progetto di scrivere un libro sulla nostra storia. Mi dispiace presentarmi così, dico così interiormente malconcia. Dell’aspetto esterno, non parliamone. Meno male che sulla carta non si vede che ho il viso disfatto. Avevo in mente di scrivere un qualcosa di un po’ romanzato, ma questo, mi sa che parte con uno stile un po' come cavolo gli pare. E forse questo è proprio il primo capitolo.

    Ora mi sono rifugiata in mansarda, sto scrivendo sopra il tavolo di legno tinta miele nella stanza degli ospiti. Dalla finestra spalancata s’apre il paesaggio tipico della pianura Padana: Immense distese di terra sotto infiniti cieli.

    Qui, in effetti, il cielo si fa enorme, quasi voglia prendersi tutto lo spazio. L’orizzonte si perde nel velo grigiastro della foschia.

    Quest'anno i campi d'intorno sono stati seminati a grano, oltre che a mais, pomodori e rape da zucchero. Ormai c’è già stata la mietitura. Mathys e io siamo andati a raccogliere delle spighe per confezionare dei mazzi assieme ad altre erbe e fiori secchi. Li appenderemo sui muri con tanto di nastro colorato, atavico segno esposto nelle case di una volta in augurio di abbondanza e di fertilità.

    Persino i rotoli di fieno giganti sono stati portati via. Si erano rivelati delle vere palestre per giovani scalatori come i nostri figli e i loro amici, piccole vette da conquistare e da sedersi sopra per ammirare il panorama rustico dall’alto, con la visiera del cappello immancabilmente girata storta.

    Sopra i campi, ronde di cornacchie, gazze e rondini e poi all’improvviso appare una lepre, anzi, la lepre. In quel frangente il tempo sembra fermarsi mentre l’animale scruta attorno a sé, per poi ripartire saltellando a zigzag attraverso il campo raso e dorato dove prima era stato coltivato il grano. Dopo il raccolto la lepre che aveva fatto la sua tana nascosta tra le spighe si ritrova spaesata e allo scoperto, vulnerabile in mezzo al campo nudo. Infine si decide per un nuovo nascondiglio e sparisce dietro le cannette del fossato, tra i filari alti del granoturco. Sembra che questo accada inevitabilmente ogni anno e da sempre. La stessa lepre, con lo stesso colore rossiccio e le stesse lunghe orecchie mobili. Sentiamo di provare amore per questo animale. Lo amiamo per le sue magiche apparizioni che ci tengono ogni volta con il fiato sospeso. Lo amiamo e persino un po' lo veneriamo, per questo suo modo di essere, così naturale da diventarne quasi sovrannaturale.

    Da basso, le urla dei nostri figli mi riportano a una realtà più umana. È l’ora della partita di calcio. I nostri quattro ragazzi giocano assieme a Massimo, il giovane amico che viene ad aiutarci. Un calcio con delle regole alternative, aderenti alle esigenze della carrozzina di Jared. Queste regole sono piuttosto mutevoli, ma in ogni caso vanno fatte rispettare da Jared a suon di voce.

    Mentre scrivo queste parole, sento in sottofondo un rumore di pialla provenire dal portico. Luca sta levigando delle piccole strutture di legno che serviranno per costruire le zanzariere.

    Di notte

    Che notte pessima. Con questo mal di testa mi sembrava di avere il capo stretto in una morsa e con questi dolori di stomaco, poi...

    In quei momenti percepivo soltanto il mio malessere fisico. In realtà so bene da dove proviene: sto somatizzando un altro dolore, più complesso, un intreccio di dispiacere, apprensione, impazienza, ansia. Questo mio tormento si chiama attesa. Aspetto un figlio. Solo che l'attesa non è dovuta a una gravidanza, perché quel figlio è già nato. Ma non da me. Per di più il ragazzino abita già da noi da tanto tempo, è in affidamento alla nostra famiglia e questa cosa rappresenta una vera e propria anomalia. Difatti la nostra coppia è entrata nel lungo travaglio di una procedura di adozione piuttosto diversa dalle solite.

      Scrivendo queste righe mi viene qualche crisi di coscienza. Non vorrei con il mio racconto indurre famiglie affidatarie in errore, lusingandole che l'affidamento possa trasformarsi in adozione. Anche se per entrambi c'è di mezzo il tribunale dei minori, sono due cose totalmente differenti, con luoghi, uffici, funzionari, modalità e metodi del tutto diversi. Normalmente il passaggio tra questi due tipi di accoglienza non è attuabile.

      Il fatto che nel nostro caso questo passaggio sia potuto avvenire, come avrò modo di raccontarvi più avanti, e che si sia aperta una breccia attraverso la quale siamo riusciti a passare, non senza difficoltà, è dovuto a un concorso di circostanze particolari, un insieme di coincidenze favorevoli mescolate ad altri fattori singolari, a tutta una combinazione di cavilli, appigli, spiragli spesso rimasti inspiegabili per menti profane, e grazie anche a una buona dose di fortuna. Tutta una strana congiuntura che ha permesso si avverasse l'impossibile.

    Oppure – chi lo sa ? – era semplicemente destino.

    Partorire vuol dire espellere verso il mondo esterno la vita che si è concretizzata in te. È un dolore largamente premiato dalla gioia di conoscere e abbracciare la creatura nata dal tuo grembo. È un'esperienza intensa e indimenticabile. Con l'adozione accade il contrario, in un certo senso è un parto alla rovescia. Il dolore che provi non è fisico, e non è nemmeno tuo. Con l'adozione devi assumere una creatura nella sua interezza, con le sue origini incognite, con la sua diversità e, nel nostro caso specifico, con la sua malattia. Devi interiorizzare fino a fare tuo il dolore che quel piccolo essere porta già dentro di sé e che non lo lascerà mai per tutta la vita, quello di essere stato abbandonato.

    Partorire è partecipare alla creazione della vita e se partorire significa donare al mondo, adottare significa, invece, ricevere una vita dal mondo. Adottare mette in gioco tutta la tua capacità di amare incondizionatamente. Vuol dire prima o poi trovarsi di fronte a un immenso vuoto, spesso incolmabile, quello lasciato dalla mamma, e anche dal papa che non c'è. Un vuoto d'affetto.

      Piena di questi pensieri, non riuscivo più a stare a letto, perciò mi sono alzata e ho incontrato la luna piena. Presenza misteriosa, con la sua luce bianca che bucava l’oscurità satinata del cielo. Sono rimasta incantata per un po’ di fronte a questa sfera luminosa, appesa lì, sulla tela nera della notte. Sembrava guardasse proprio me con quella sua espressione tutta tonda.

    Neanche Mathys è riuscito a resistere al fascino della splendente luce notturna. Ha voluto dormire con le finestre aperte, mettendosi alla rovescia con la testa ai piedi del letto per farsi cullare da questa rassicurante figura materna.

    Ciao amica Luna!

    Mathys è un adorabile bambino di nove anni, pieno di vitalità e di voglia di fare. È l’eterno Giamburrasca di ogni situazione. Ha due occhi scuri da birichino, nasino al insù e il sorriso ammaliante di chi sa per certo come rendersi irresistibile. È il bambino più generoso che abbia mai conosciuto. Un giorno l’ho persino sorpreso mentre regalava il suo orsacchiotto preferito a una persona che era soltanto di passaggio.

    Per le sue caratteristiche, è quello che riceve più sgridate di tutta la casa, ma è anche quello che raccoglie maggiore quantità di baci e abbracci. Ha mantenuto un volto da bambino piccolo. Questo particolare, forse, contribuisce a sollecitare le tante coccole che gli servono a colmare quell’immenso bisogno d'affetto che ha.

    Nove anni fa è stato affidato alle nostre cure dai servizi sociali di Milano. È arrivato nella nostra famiglia quando aveva appena nove mesi. Era il classico neonato paffutello dal sorriso facile, dal colorito roseo e col cranio rasato, tuttavia nascosta dietro quel amorevole essere coesisteva un'altra realtà, quasi un’altra entità direi. Il bambino era sieropositivo. Allora non esisteva nessun tipo di cura che portasse alla guarigione e non c'erano grandi aspettative di vita. La malattia diagnosticata al bambino suscitava inoltre molto scalpore. In Italia erano i primi casi di contagio in età infantile, la seconda generazione, come si diceva, degli ammalati colpiti dalla sindrome d’immunodeficienza acquisita. In poche parole, erano nati i primi figli degli ammalati di AIDS.

    AIDS voleva dire terrore, un terrore dalle radici profonde, ancorato negli angoli più reconditi di un inconscio collettivo, come se si fosse risvegliato un antico fantasma. All’epoca l’AIDS era considerata la nuova peste, il nuovo castigo di Dio. Significava condanna ed emarginazione dovute alle pesanti risonanze sociali che implicava, visto il tipo di persone che di norma colpiva, persone dal comportamento a rischio e soprattutto per la folle paura, non sempre giustificata, del contagio da virus HIV, responsabile dell’epidemia. Non esistevano ancora dati sufficientemente affidabili per conoscere a fondo la nuova malattia. Mancava ancora la possibilità di una verifica nel tempo per divulgare informazioni corrette e attendibili.

    La parola AIDS, solo a nominarla, faceva rabbrividire e incuteva un senso di vergogna con il suo maledetto strascico di degrado, di lutti e con il suo indelebile marchio d’immoralità… Ognuno, poi, ad aggiungere la propria pennellata nera, da rendere sempre più buio quel quadro già di per sé così scuro.

    Paradossalmente, il nostro piccolo, con la sua bellezza e simpatia, sembrava il perfetto ritratto della salute e dell’innocenza.

    Soltanto di notte si riescono a vedere brillare le stelle. In effetti, è di notte che i nostri occhi riescono a scorgere la dimensione più profonda del cielo e ad aprirci così all’intuizione del cosmo nel quale siamo immersi. Durante il giorno prevale la luce del sole, così potente da cancellare ogni stella. La storia che c’è toccata vivere assieme a Mathys è una delle tante stelle che scintillano nelle tenebre.

    La tragedia del virus HIV, sorta all’improvviso negli anni ottanta, ha portato tanto sgomento e senso d’impotenza, ma è stata anche in grado di stimolare un’ondata di reazioni positive e generose, quasi entusiaste, in mezzo al grande mare d’indifferenza in cui navigava già da parecchio tempo la nostra società anestetizzata. Ad ogni modo è riuscita a scuotere molti di noi, mettendoci di fronte a grandi temi esistenziali come la sofferenza, la morte o come l’etica. Purtroppo, per i più, il tutto è sfociato nel ritirarsi dietro a un comodo perbenismo, chi nella falsa compassione, chi nel chiudere ogni eventualità di sentirsi coinvolto, esprimendo laconici Se la sono cercata o Finché non mi tocca.

    Per altri, invece, questa terribile prova ha fatto sì che si chiedessero quale senso avesse la loro vita e quanto amore avessero da donare al prossimo. Questo li ha portati a lottare in prima linea, spinti da forti motivazioni, o perché loro stessi erano sieropositivi ancora in salute, o perché erano parenti o amici di ammalati; oppure per il semplice fatto di essere stati messi a contatto con il virus da varie circostanze in quanto religiosi, operatori sociali o medici. Fu recepito lo stato d’emergenza nel settore della ricerca e nei reparti ospedalieri di malattie infettive dove si riversarono pazienti terminali bisognosi di ogni cura, i sintomi della malattia potendo presentarsi sotto qualsiasi forma di infezione.

    Su questa scia sono nati tanti movimenti di solidarietà, gruppi più o meno organizzati di volontariato e di mutuoaiuto. Si sono viste sorgere varie associazioni a scopo non di lucro, tra le quali l’associazione di cui facciamo parte. Di fatti, come risposta alle nuove povertà La Tenda di Cristo fondata da Fratel Francesco, un religioso appartenente all'ordine dei Camilliani, scelse di aprire piccole strutture per accogliere malati terminali. All’inizio la nostra associazione si occupava soltanto del recupero dei giovani dalla tossicodipendenza, ma tra gli ospiti delle sue comunità erano poi apparsi i primi casi di HIV...

    Affacciarsi a questa realtà richiedeva molto coraggio e una grande forza: voleva dire mettersi la maggiore parte della gente contro e confrontarsi con il volto stesso della morte.

    A pesca

    "Peccato che l’acqua sia torbida! Di solito è trasparente e si possono vedere i pesci.

    – Non importa, Mamma, risponde Mathys, anche se non si vedono ci sono. Adesso lancio la mia canna e vedrai! Guarda, si fa così. Ma sei sicura che ai pesci piaccia il formaggio?

    – Ci puoi scommettere!"

    Tutti e due siamo seduti sul bordo del vecchio ponticello di pietra, sotto scorre il canale d'irrigazione, ingrossato dall’ultimo temporale. Mathys è munito di una canna da pesca di fortuna, composta da una canna di bambù, da una cordicella dove sono state infilate delle perline colorate come galleggiante e con una graffetta fermafogli al posto dell’amo. Stiamo facendo una pesca speciale che oscilla tra realtà e fantasia. I miei sogni seguono la lieve corrente che muove le acque del Navarolo tra i campi. Mi ricordo di quando andavo a pesca con mio padre. Abitavamo in riva alla Loira, in Francia. È forse guardando scivolare quelle imponenti acque, aspettando a lungo che abboccasse qualche pesce, che ho iniziato a coltivare l’arte della contemplazione.

      "Mamma!, s'esclama Mathys tirando fuori la canna dall’acqua. Non c’è più formaggio.

    – Vedi che avevo ragione. I pesci amano il formaggio. Infilane un altro pezzo nell’amo e continua a pescare. Qualcun altro abboccherà di sicuro.

    – Ma così non vale! Io vorrei pescare per davvero, si lamenta il ragazzino deluso.

    – Allora ti serve una vera canna da pesca. Per ora, però, puoi imparare giocando. Nella pesca la pazienza è spesso messa a dura prova e serve quanto la canna da pesca..."

      Nel frattempo una libellula azzurra interrompe il nostro discorso, posandosi con leggerezza sulla cordicella, sotto i nostri occhi pieni di meraviglia.

    Dimmi, Mamma, l’adozione è una cosa bella o brutta?

    La sua domanda improvvisa non mi sorprende, è nel suo stile toccare argomenti ardui nel momento in cui meno ce lo si aspetta.

    – L’adozione è una cosa bella perché vuol dire che tu diventerai nostro figlio a tutti gli effetti e che prenderai il cognome della nostra famiglia.

    – Che cosa cambia? Io sono sempre stato vostro figlio.

    – Hai ragione. Sei nostro figlio del cuore e continueremo a volerci bene come prima. Però il mondo è fatto anche di leggi e di burocrazia. Il mondo dei grandi ha bisogno di documenti e di firme, mentre ai piccoli come te bastano tante coccole e tanto amore.

    – Perché allora hai detto al papa stamattina che eri preoccupata per l’adozione e che ti faceva stare male?

    – Senti un po’ che spione! È vero, sì, ci sto male perché i tempi sono troppo lunghi per i miei gusti. Abbiamo iniziato le pratiche con il tribunale due anni fa e io sono impaziente. Come vedi, la pazienza non serve solo per pescare ... Oh! guarda quel bruco! È venuto a salutarci. Che bel colore: verde fluorescente! Lo sapevi che farfalla e bruco sono lo stesso animale che semplicemente cambia forma? La difficoltà sta nel tempo che passa tra le due, come quel momento d’attesa che noi adesso stiamo attraversando. Prima di trasformarsi in una farfalla, il bruco costruisce attorno a sé un bozzolo. Nascosto dentro, l’insetto farà la sua metamorfosi. Alla fine si libererà del suo vecchio involucro, aprirà le sue splendide ali nuove di zecca e… volerà via. Tutto questo è molto faticoso. Ora è come se noi fossimo nel bozzolo, il cambiamento fa male, anche se il nostro non si vede. Per noi non è una trasformazione dell’aspetto, ma succede dentro di noi e sono sicura che ne usciremo più belli.

    Ci abbracciamo forte.

    – Mamma, sospira Mathys, come vorrei essere nato dalla tua pancia."

    CAPITOLO II

    Risveglio

    Sono le sei in punto e squilla la prima chiamata per il risveglio. Con un gesto diventato automatico afferro la piccola sveglia nera e premo a occhi chiusi il pulsante di gomma per spegnerne la suoneria stridente. È inserito il programma di ripetizione dell’allarme che ogni cinque minuti suona per essere subito spenta, questo ripetutamente per ben cinque o sei volte, fino a che non decido di alzarmi. Intanto, ancora in stato di dormiveglia, inizio il solito rito del travaso, con il quale ogni mattina avviene il passaggio graduale dal sentimento d’ansia che mi affligge al risveglio verso un dolce senso di serenità. In effetti, assieme a me, si è appena risvegliato, in perfetto sincronismo, il serpente dell’angoscia che mi stritola le viscere. S’intreccia con altri malesseri tessuti di rabbia e di dolore. Queste sensazioni vanno oltre il mio pensiero, sono radicate nella mia fisicità, con il terribile potere di accorciarmi il respiro, fino a renderlo affannoso.

    Convivo da sempre con questa oppressione interiore, ma da un decennio a questa parte tutto si è acuito, amplificato dalla notizia che mio figlio era affetto da una malattia la quale evoluzione lo avrebbe portato a perdere le funzioni muscolari. Da allora ho sempre dovuto affrontare quel mio drago nero, annidato nel profondo di me stessa e con la ferma intenzione di rimanerci. Ogni mattina riemerge nel tentativo di invadere i miei stati d’animo e di accaparrarsi tutte le mie emozioni. In realtà, più che una lotta vera e propria, la mia è un cercare di ammansirlo.

    Lentamente riconquisto la pienezza del respiro che, man mano, si approfondisce senza sforzare e coinvolgendo non soltanto il torace ma anche il diaframma, in modo da allentare la rigidità muscolare, responsabile di questi sentimenti opprimenti.

    Mentre avvio questo semplice esercizio di respirazione, fuori iniziano i primi accordi dei numerosi versi emessi dai tanti uccelli che popolano il nostro territorio. È l’apertura del concerto mattutino che tra poco irromperà dalla finestra fino a invadere tutta la stanza da letto. Intravedo da un occhio mezzo aperto una nuova leva tra i passeri che si sta cimentando nei primi voli. L'uccellino saltella dal tetto alle ante che usa come trespoli, aiutandosi con un movimento ritmico delle ali e producendo un allegro ticchettio con le sue zampette. Un tenue cinguettio a due note ripetute di continuo accompagna i suoi giochi avventurosi.

    In seguito si aggiunge l’insistente garrire dei rondinotti, nati nella stalla questa primavera e da dove escono svolazzando ogni mattina per andare a riordinarsi sul filo dell’elettricità e gridare disperatamente la loro fame ai genitori indaffarati. Questi devono trovare cibo senza sosta per la loro adorata ma esigente prole.

    In quel coro di voci giovanili s’inserisce poi il canto delle due tortore grigie, a volte dolcissimo, a volte litigioso. La copia ha stabilito dimora fedele sul tetto della cascina, vicino all’antenna della televisione. Erano qui prima ancora che arrivassimo noi. A fare da sottofondo i gorgheggi melodiosi di tanti altri uccelli della campagna circostante. Ogni tanto spicca il verso del cuculo – da piccola mi divertivo tantissimo a imitarlo – oppure l’urlo stridulo del grande volatile che, soprattutto in volo, sembra provenire da tempi preistorici e che è l’ospite tipico di questa zona: l’airone.

    Ancora distesa tra le lenzuola, il mio respiro si sintonizza con quel meraviglioso canto di gioia, questo spontaneo inno alla vita che mi apre alla dimensione dell’amore e con il quale si armonizza il mio bioritmo, compreso il battito del cuore. Adesso si scioglie ogni nodo dentro di me e mi sento completamente immersa in questa sinfonia naturale. Tutti i miei pensieri neri cambiano colore e si tingono di luce.

    Penso a tutto ciò che amo: il mio compagno di vita, i miei figli, i nostri animali, cane, gatti, questa casa, la natura che la circonda, i suoi fiori, i suoi cieli. Mi riempio di questo immenso amore che pervade tutto.

    Così si realizza il travaso quotidiano del dolore in amore, dove la rabbia si tramuta in gioia e la paura in speranza. Ogni mattina si compie in me il passaggio dal buio della notte alla luce del giorno. 

    S’interrompe bruscamente l’incantesimo con l’ultimo squillo concesso alla sveglia. Mi alzo per andare a somministrare il primo dei dieci farmaci giornalieri che Mathys deve ingerire. Mathys condivide la sua camera con i gemelli, Minio e Goran, due bambini di origine jugoslava, in affido da noi a tempo indeterminato. Tutti e tre dormono ancora. Entro nella loro camera, al primo piano, e chiudo la finestra dai vetri colorati per impedire al fresco mattutino di raffreddare l’ambiente. Verso dell’acqua nel bicchiere di plastica arancione preso dal comodino. All’annuncio della parola medicina! Mathys si siede ancora mezzo addormentato e gli imbocco la pillola. Dopo avere bevuto qualche sorso d’acqua dal bicchiere che gli porgo, il bambino poggia di nuovo la testa sul cuscino e si rimette a dormire come se niente fosse. I gemelli, sentendo il nostro rumore, cambiano posizione nel letto girandosi tutti e due in perfetta sincronia da un lato all’altro, entrambi nascondendosi la faccia sotto le coperte. Qualche istante dopo tutta la camera sprofonda in un altro giro di sonno.

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