Io non vorrei crepare: prümå dè ìgå ést…
By LUCA MICHELETTI and BORIS VIAN
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Io non vorrei crepare - LUCA MICHELETTI
3
Luca Micheletti
IO NON VORREI CREPARE
prümå dè ìgå ést…
due versioni da Boris Vian
«Je voudrais pas crever»
Con una lettera a mo’ di prefazione di
Pietro Gibellini
e una nota introduttiva di
Claudio Longhi
GAM editrice
GAM editrice
Prima edizione digitale 2019
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Per il libro cartaceo vedi www.gamonline.it
ISBN 9788898288823
In copertina: Opera originale di Bianca Orsi, Senza titolo,
puntasecca e chine, offerta appositamente dall’artista
per illustrare la presente pubblicazione.
Je voudrais pas crever
de Boris VIAN
© Société Nouvelle Des Éditions Pauvert 1962, 1992
(c) Librairie Arthème Fayard 1999 pour l’édition en œuvres complètes
© Luca Micheletti, per la traduzione in italiano e dialetto bresciano
© 2008 GAM editrice - Rudiano (Bs)
A mo’ di prefazione
Caro Luca Micheletti, non una prefazione, no, non c’era tempo: ma due parole di simpatia, quelle sì. Le favoriscono, certo, ragioni pregresse (bello vedere che un giovane prosegue la passione per il teatro ereditato in famiglia; bello vedere tenace in un allievo l’affetto per un maestro che lo apprezzava, il caro amico Matteo Guerini). Ma queste righe sono dettate soprattutto dall’interesse per l’originale esperimento da lei condotto: la doppia traduzione, in italiano e in dialetto (la linguaccia
, come lei la chiama), delle poesie di Boris Vian. Ora, tradurre dalla lingua in dialetto è un’operazione che ha spesso allettato i nostri scrittori. In una situazione di diglossia come quella italiana, in cui il toscano era asceso a lingua alta e italiana relegando i volgari a idiomi regionali e confinandoli nell’àmbito dell’uso pratico e orale, di solito la trascrizione ha avuto carattere parodico: pensi al Dante voltato in milanese da Carlo Porta, che fa di Francesca da Rimini una sboccata prefigurazione della Ninetta del Verzee. Più raramente la versione ha intento emulativo, come nel caso del poema del Tasso trasposto in milanese da Domenico Balestrieri, l’amico di quel Parini che sostenne la potenziale parità di tutte le lingue. Il passaggio da dialetto a dialetto, anch’esso sperimentato più volte, ha invece carattere solitamente paritetico, valga il caso dei Mistieròi trevigiani di Andrea Zanzotto riscritti in friulano da Amedeo Giacomini, o alle riuscite versioni bresciane del nostro Lino Marconi delle poesie romagnole di Raffaello Baldini. Ora, essendo la letteratura italiana senza paragoni la più ricca di espressioni dialettali, si sono avuti vari tentativi, da parte di scrittori stranieri, di trovare equivalenti espressivi negli strati bassi dei rispettivi idiomi (lo verificai tanti anni fa per il titanico Giuseppe Gioachino Belli, più volte tradotto all’estero, in un libro realizzato con due amici bresciani, la comparatista Raffaella Bertazzoli e il poeta-traduttore Damiano Abeni). Ma di poesie in lingua straniera voltate in dialetto, beh, conosco relativamente pochi casi (altro discorso va fatto per i classici latini, spesso trasposti in vernacolo con lo stesso duplice approccio riservato ai classici italiani, di abbassamento comico o, meno spesso, di mimesi agonistica).
Se dunque piuttosto raro è il cimento di traduttori dialettali con poesie francesi, il caso di Boris Vian è ulteriormente anomalo. Perché? Perché se nell’italiano il rapporto lingua-dialetto è, di fatto, un rapporto fra lingua alta e bassa, élitaria e popolare, scritta e orale, il francese di Vian si pone invece su un registro di quotidianità espressiva e spesso trasgressiva che lo imparenta naturaliter col dialetto, più che con l’italiano, per forza di cose ancora vestito di una pàtina letteraria, e talora pedantesca. In altre parole, tenderei a rovesciare quanto lei dice circa l’asserita (relativa) fedeltà della versione italiana rispetto alla programmatica infedeltà della riscrittura nella linguaccia bresciana, nella sua versione