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Elemental Symphony
Elemental Symphony
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Elemental Symphony

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Elemental Symphony ruota attorno alla storia di quattro ragazzi poco più che ventenni, con vicende personali e ambienti sociali completamente diversi alle spalle ma destinati a sconvolgere, seppur inconsapevolmente, la quotidianità della metropoli in cui vivono.
La Napoli descritta nel romanzo è una città “reale” e arricchita allo stesso tempo da curiosi particolari futuristici, che la vedono a capo di un nascente impero commerciale nel Mediterraneo. I protagonisti raggiungono la consapevolezza delle loro straordinarie doti elementari proprio nel mezzo di una guerra totale che vede “Neapolis” all’incrocio di due fuochi: l’espansionismo arabo e quello di un’America potente e in declino.
Il primo capitolo introduce il ragazzo che impersonerà l’aria, un universitario affetto dalla sindrome di Treacher-Collins e per questo discriminato dalla maggior parte dei suoi coetanei. Massimo è invece un affascinante studente attivo nel partito indipendentista della sua città, e che scoprirà il legame che lo unisce all’elemento igneo in un tragico episodio familiare. Completamente opposta a lui è Maria, spogliarellista e idolo della gioventù libertina della città, attraverso cui si manifesterà la potenza della terra e della materia in genere.
La Neapolis del futuro è un campo da gioco ideale in cui si affrontano le energie di interi mondi a confronto (militare, religioso, politico e camorristico), e in cui si insinuerà la luce, ormai inarrestabile, dell’alba di una nuova epoca.
Il libro si chiude con l’arrivo della misteriosa ragazza simbolo dell’elemento liquido.
Romanzo fantasy e riduzione in prosa della struggente magia creatrice dell’Isolato, Elemental Symphony si compone di quindici capitoli dal ritmo travolgente, con le storie prima individuali, poi intrecciate, dei suoi protagonisti.

Laureato in lingue e culture internazionali, Raffaele Isolato applica le sue ricerche in campo etico ed epistemico a novelle e romanzi che spaziano dal fantasy al noir, al filone avventuristico, alcuni dei quali già pubblicati in rete e cartaceo. In attesa di pubblicazione sono altre raccolte di saggi e i più significativi esperimenti poetici. Tra i titoli pubblicati su Amazon: Attacco al potere (La Saga dei Perfetti e degli Imperfetti vol.I), Chi vuole andare in TV?, Viaggio a Nord, Dall’altra parte del nulla, Lineamenti di religione universale, Inferno XXI (poema didascalico-allegorico in trenta canti), Il nulla imperfetto, Nati alla luna nuova, Viaggio a Lost City, L’angelo dalle ali di carta, La pietra e lo scandalo (raccolta di novelle d’argomento erotico), Il Presidente (tragedia in cinque atti in versi sciolti).

 
LanguageItaliano
PublisherPasserino
Release dateFeb 18, 2019
ISBN9788893455817
Elemental Symphony

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    Elemental Symphony - Raffaele Isolato

    luna

    La morte e il vento

    - Sul serio, da quanto pensi che io non mangi? Dovrei essere già in ospedale, a quest’ora. E invece guardami: fresco come una rosa, ma sempre brutto come un mostro.

    L’altra sospirò e neppure si voltò per dargli corda.

    - Lo farei, invece, sai? Mi toglierei di mezzo, se potessi.

    - Insomma, vuoi stare zitto?

    Virginia lanciò un’occhiata inquieta alla ragazzina che sedeva accanto a Ben. Era una delle poche nel vagone che non sembrava averlo notato (forse perché gli stava troppo vicino, e lui aveva fatto attenzione a non mostrare il viso da quella parte), ma Ben sembrava far di tutto per farsi osservare, a volte. La ragazzina optò per la soluzione migliore: sfilò un libro dalla cartella rosa e ficcò la faccia lentigginosa tra un paio di pagine a caso. Virginia non l’aveva mai vista in giro; doveva essere al primo anno dell’università... Forse aveva al massimo diciotto anni, a parte il fatto di dimostrarne sedici.

    In qualche modo, questo la spinse a rafforzare il suo consiglio a Ben con un vigoroso calcio alla caviglia che gli fece storcere il muso, ma non cancellò affatto la sua perenne espressione imbronciata. Ora che ci pensava, erano anni che non lo vedeva sorridere. Da quando avevano cominciato insieme l’università.

    - Sbaglio o hai teologia comparata, tra qualche giorno? - sussurrò, nel tentativo di dare una svolta alla vena macabra che Ben aveva quel giorno.

    - L’esame è tra una settimana, e poi non è di questo che stavo parlando.

    Tentativo fallito. Virginia gettò un sospiro, incrociò lo sguardo disperato della ragazzina, e guardò dal finestrino. Il treno metropolitano che in una ventina di minuti teneva collegate le città della provincia con Napoli, il capoluogo, manteneva le sue promesse. Erano partiti da Camporeale appena quindici minuti prima e già i grattacieli della city riflettevano il sole con mille fosforescenze turchesi, aranciate, verde smeraldo; avrebbe volentieri commentato con Ben quello spettacolo, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Con lui era sempre tutto inutile.

    - Lo sai, è davvero strano. - aveva ripreso lui.

    - Cosa?

    - Che non riesca a farla finita. Ci ho provato ancora nel weekend; è come se non potessi mor... insomma, sai di che parlo.

    - Bene, questo è... positivo.

    Quanto mancava alla stazione? Quella mattina il suo amico stava dando di matto. Eppure una parte di lei lo comprendeva; bastava guardarlo in volto per capirlo.

    - Penso che a tutto questo ci sia una spiegazione, sai, Virgi?

    - E sarebbe?

    - Hai mai sentito parlare della teoria della complementarità?

    - No davvero!

    - E certo, l’ho inventata io...

    Per un attimo lei aveva sperato (o forse temuto?) di vederlo sorridere. Lo lasciò proseguire mentre il treno entrava sferragliando nella stazione sotterranea, tra i brontolii dei passeggeri sballottati, già in coda per le uscite. Come sempre, Ben avrebbe aspettato che l’ultimo dei viaggiatori avesse liberato il vagone, prima di decidersi ad alzarsi. E lei con lui.

    - Guardami, io posso sembrare inferiore ai miei coetanei, almeno fisicamente, ma questo perché la natura ha compensato questo mio handicap con qualcosa di superiore dal punto di vista... psichico.

    - Ma certo, ti ho sempre detto che sei uno dei ragazzi più intelligenti che abbia mai conosciuto!

    Avrebbe voluto aggiungere simpatico, ma sarebbe stato esagerato... In compenso il discorso aveva cambiato tono, e questo la rincuorava molto, soprattutto prima di separarsi per i corsi di quella mattina.

    - Sento delle forze, dentro di me. Come se fossi io... – abbassò la voce finché le labbra gli si ridussero a una fessura immobile. - Come se la morte che stessi cercando di procurarmi fossi io, e pertanto non potessi porre un termine alla vita! Non ti sembra straordinario?

    - Tu saresti la morte? - ribadì Virginia, che ormai non lo ascoltava più. Stava per sbattere contro un palo all’uscita del vagone, e un ragazzo carino e sorridente le aveva evitato per un soffio l’incidente più ridicolo di tutta la sua vita.

    - Certo... o qualcosa di simile. E non è finita... io...

    Ma Virginia era già stata inghiottita dalla folla che procedeva a spintoni verso l’uscita. Tutti avevano fretta, nonostante i treni arrivassero sempre con qualche minuto di anticipo; lui vide che l’amica gli faceva qualche cenno, forse un saluto, un arrivederci a dopo. E Ben si sentì ancora solo. Se ci fosse stato davvero qualcosa di speciale nella sua vita, lei non lo avrebbe evitato così palesemente; nessuno lo avrebbe più visto come una specie di fenomeno da circo. La sua vergogna avrebbe trovato una forma di riscatto. Alzò il bavero del giubbetto che si ostinava a indossare nonostante a fine aprile le temperature fossero già quasi estive, e si stropicciò nervosamente la lunga frangia nero-corvino che gli ricadeva fin quasi sul naso. The Crow entra in scena, si diceva ogni mattina prima di affrontare il traffico del Corso. Aveva letto del Corvo qualche anno prima in rete; era un film di più di un secolo prima, abbastanza scontato e noioso, ma si era sorpreso spesso a imitare l’aria gothic del protagonista. Sarebbe stato un uccellaccio nero e immortale che avrebbe deciso dei destini di tutti... il suo e quello della sua odiata, sovrappopolata città di guardoni, e ficcanaso...

    - Ehi! Ma si può sapere dove guardi? Brutto figlio di...

    Ben si bloccò in mezzo alla strada che fronteggiava la stazione. Perché i suoi sogni ad occhi aperti finivano sempre in quel modo? A pochi centimetri dalle sue gambe, un enorme monociclo gli rombava contro, infuriato. Ancora più infuriato il ridicolo centauro che stava come a cavalcioni all’interno del pneumatico. Era un ragazzino di appena dodici o tredici anni. Quelli che Ben più temeva; quelli sfacciati, quelli odiosi e senza peli sulla lingua.

    - Ammazza come sei brutto. Ma levati dai c...!

    Stringi i denti e fagli vedere chi è The Crow. Invece, puntualmente, Ben si appiattì le lunghe ciocche sulla fronte e scappò via verso il Corso, verso la folla, e verso la nuova, difficile giornata all’università.

    Il Corso Nuovo, prima battezzato in onore di qualche leggendario re di cui nessuno più ricordava, aveva subito cambiamenti così radicali che in pochi decenni era diventato il fulcro dell’area commerciale napoletana. Supermercati che assomigliavano a dei complessi residenziali, virtuashops dagli ologrammi sempre in movimento, negozi dai manichini in carne ed ossa capaci di inseguire i clienti per decine di metri al minimo segno di interesse. Erano quelli più fastidiosi.

    Quella mattina era diverso. Lui li detestava ancora di più; avrebbe volentieri giocato a biglie con tutti gli occhi indiscreti che in quegli attimi si fossero posati su di lui. Questa era tutta la comprensione che la sua città riservava alla sindrome di Treacher Collins, tutto il rispetto che gli altri avrebbero dovuto avere per un loro simile. Ma che rispetto avrebbe dovuto riservargli un mondo in cui i suoi stessi genitori naturali l’avevano dato in adozione? Non li aveva mai conosciuti; sapeva solo che la sua vera madre si era a tal punto vergognata della sua faccia da consegnarlo alle infermiere dopo appena qualche ora dal parto.

    Mille volte si era chiesto quale sarebbe potuta essere la sua giustificazione: Scusate, ma è ripugnante! Potrei cambiarlo con uno normale?, oppure Che orrore! Sicuro che sia mio?. Si era sempre immaginato sua madre come una donna bellissima, bionda e sexy come una delle tante attrici americane che spopolavano sui virtuascreen. E lui, il piccolo figlio-mostro, era stata la punizione divina per tanta bellezza; dalla principessa al rospo in una sola generazione. Più ironico di così!

    L’ultima volta che Ben aveva tentato di mettersi in contatto con i suoi genitori adottivi era stata anche la prima in cui, per legge, avrebbe potuto convincere gli assistenti sociali a fissare un appuntamento con loro, anche solo telefonico. Aveva appena diciotto anni, e davvero non sapeva che diavolo gli era saltato in mente... esporsi così, gratuitamente a una delle peggiori umiliazioni che mai gli era toccata di vivere. Eppure i suoi genitori adottivi l’avevano appoggiato, dicevano che prima o poi tutti i ragazzi vogliono conoscere le loro vere radici.

    Fatti coraggio e vedrai che loro saranno felicissimi di conoscerti. Riuscirai a renderli orgogliosi di te, e forse tua madre ti dirà che si è pentita un attimo dopo aver rinunciato a te. Provaci, caro, fatti forza, gli aveva detto la sua seconda mamma, Elena: una delle donne più ingenue e fuori luogo che avesse mai conosciuto.

    Mi dispiace, ma lei non vuole vederti. È meglio che smetti ti provarci... per adesso, era stata la risposta, a telefono, di uno degli assistenti sociali che cercava inutilmente di essere gentile. Riuscendo solo ad essere ridicolo, e schifosamente comico. Era lui, era Benedetto Gastaldi ad essere una parodia vivente. E con quel nome da miracolato, poi! Perché mai l’avevano chiamato in un modo così assurdo? Era stata, naturalmente, un’idea di Elena per compensare la maledizione che gli aveva dato il destino. Benedetto. Benedetto di che? Di aver trovato delle persone che l’avevano fatto sopravvivere, che gli avevano dato una bella casa solo per vedersi umiliato da un branco di fannulloni universitari? Mentre faceva lo slalom tra la folla ordinaria del Corso Nuovo (studenti, maniaci dello shopping, delinquenti minorenni in cerca di provocazioni e i soliti cortei di perdigiorno), Ben si lasciò avvolgere dalla sua nuvola macabra. Forse era un modo di proteggersi dai giudizi altrui, forse non era solo un modo antipatico di stuzzicare la sola amica che gli fosse rimasta.

    Era meglio se mi avessero affogato alla nascita, come si faceva coi gattini indesiderati, pensava col ghigno malefico di The Crow. Quasi per sfidare la sua stessa sorte, si fermò accanto alla vetrina d’ingresso di un superlussuoso negozio di abbigliamento e provò a osservare la sua immagine riflessa sul vetro. Quasi gli si spiaccicò contro per evitare che qualche passante lo urtasse di corsa; di fronte a lui c’era un alto manichino (fortunatamente uno di quelli tradizionali, inanimati) con un elegante soprabito nero. Grazie al tessuto scuro, il riflesso della vetrina avrebbe dovuto restituirgli i contorni del suo volto: irregolari, immodificabili, e mille volte studiati, accusati, detestati.

    Avrebbe. E invece no.

    Ben alzò gli occhi al cielo e imprecò tra sé: era importantissimo, per lui, studiarsi in qualche specchio o vetrina prima di affrontare gli studenti all’Università Federiciana. Guardarsi anche per cinque minuti di fila, come un cliente ipnotizzato dall’eleganza di un capo d’abbigliamento, e dirsi a mente: Sono il corvo, sono il corvo, sono il leggendario angelo della morte. Era quello il suo antidoto, era la sua arma contro l’impotenza che sin da bambino aveva provato nei confronti del suo destino, e di ogni implacabile superficie riflettente che glielo ricordasse.

    Che cos’è, pensò contrariato e deluso, un altro ritrovato del marketing moderno? La vetrina irriflettente perché il cliente non si fissi su di sé ma solo su ciò che ha davanti? Eppure lì, di fronte a lui, c’era davvero un vetro; vi appoggiò le mani, tolse i polpastrelli e notò l’alone lasciato dalla pelle. Non è possibile. La vetrina rifletteva una delle querce altissime che adornavano gli ampi marciapiedi; una donna gli passò accanto proprio allora, trascinandosi dietro una bambina piagnucolante. Entrambe impeccabilmente riflesse dal vetro, contro il manichino col soprabito.

    Sono diventato invisibile?, pensò Ben. Era ironico. Magari! si disse suo malgrado. Eppure per quella vetrina, forse anche per il manichino, lui non esisteva. Per la prima volta in vita sua, non riusciva a vedersi allo specchio, ad accusarsi per la sua deformità, a immaginarsi qualcun altro, o semplicemente a fare smorfie per vedere fino a che punto la sua faccia potesse divenire ripugnante. Spostò il peso su una gamba, poi sull’altra, poi dondolò la cartella che portava a tracolla. Niente... non vedeva niente. Invisibile! Quanto avrebbe voluto che Virginia fosse lì con lui, in quel momento! Era vero che negli ultimi mesi gli stavano accadendo delle cose strane, ma mai così strane, ed evidenti. Ci volevano delle prove, qualcosa di cui essere sicuri prima di dirlo alla sua amica. La prova del nove gli venne addosso prima che lui stesso potesse cercarsela.

    Per tutto quel tempo aveva continuato ad ondeggiare la sua cartella invisibile finché capitò tra le gambe di un vecchietto che quasi gli lanciò contro il bastone per lo spavento.

    Ma spostati, imbecille!

    E lo aveva guardato negli occhi. Impossibile... già tutto finito? Per fortuna il tizio che aveva preso a cartellate pareva piuttosto miope, gli aveva rivolto solo l’attenzione necessaria per qualche altro insulto a mezza voce, poi si era allontanato sempre gesticolando, e lasciando ondeggiare il bastone con lo stesso ritmo della cartella che l’aveva colpito.

    A capo chino, e senza nemmeno il coraggio di borbottare qualche parola di scuse, Ben si rigirò verso la vetrina a dare un’occhiata. Eccolo lì, il corvo, o meglio il verme che era riuscito ancora una volta ad umiliarsi da solo. Quante volte Virgi, e persino suo padre, gli avevano detto che stava esagerando con le sue fantasie? Possibile che fosse riuscito a ipnotizzarsi da solo, e a cancellarsi dalla vetrina per evitare di vedersi la faccia? Quella storia sarebbe stata un bel bocconcino per qualsiasi psicologo.

    Si sorprese a fissare la sua faccia da ebete deforme, e si allontanò con una smorfia di schifo. Si era immaginato tutto, ecco cos’aveva fatto, compresa la sua idea di essere superiore, e quella teoria sulla complementarità, e sulla morte che avrebbe voluto rappresentare. Il giustiziere dell’umanità insensibile e discriminatoria; stronzate da fumetti.

    Mancavano già poche decine di metri agli edifici universitari. I negozi erano finiti, la folla intorno a lui cambiava: c’erano studenti che si spintonavano a vicenda, pochi professori che spiccavano tra gli altri per le giacche logore e le cravatte allentante per il caldo. Il caldo... Ben si era reso conto di aver camminato tutto il tempo col bavero calato; aveva lasciato il viso esposto per tutto quel tempo. Non era mica invisibile! Eppure se si fosse guardato intorno avrebbe notato che ormai non erano molti quelli che ancora facevano caso a lui. Ormai si erano abituati alla sua faccia... e se ancora lo indicavano era per il suo carattere che negli ultimi tempi era diventato assai più scontroso e irascibile. Odiava soprattutto i ragazzini del primo anno, quelli che a lui non avevano ancora fatto l’abitudine, e che spesso lo fissavano come fosse un marziano.

    A nulla erano valsi i consigli di Virginia: fatti degli amici, non sono tutti così legati all’aspetto fisico, conta quel che sei dentro, ci sono molti che hanno solo paura di avvicinarsi a te per come ti comporti... Sciocchezze. Per Ben il viso era sempre stato il suo biglietto da visita: sono strano, sono brutto, e devo pagarne le conseguenze. Per fortuna c’è dell’altro... per fortuna sono un angelo della morte.

    Ma quella mattina non era così semplice; prima l’esser stato ignorato dalla sua amica, poi l’incidente della vetrina, avevano completamente cancellato l’ottimismo derivatogli dalle sue fantasticherie. Si alzò il bavero prima di arrivare ai cancelli. Perfetto... la calca era addirittura il doppio del giorno prima!

    Avrebbe indossato degli occhiali da sole, se non avessero dato rilievo al mento, o una sciarpa se non avesse fatto così maledettamene caldo. Un’altra beffa del suo destino era stata quella di farlo nascere a una latitudine così assurda: tranne due o tre mesi d’inverno all’anno, per il resto non c’era alcuna possibilità di andarsene in giro con un abbigliamento che fosse appena coprente. Anche quel giorno, non era forse costretto a camminare in un mucchio di ragazzine con spalle e ventri già scoperti e abbronzati? E lui col suo ridicolo giubbetto a evitare l’attenzione altrui come una peste trasmessa attraverso gli sguardi.

    No, non era proprio un buon inizio. Qualche anno prima si era rivolto a qualche contatto americano che in internet aveva fondato un sito per quelli come lui; c’era la possibilità di rivolgersi alla chirurgia plastica. Ma le testimonianze fotografiche che aveva consultato non l’avevano soddisfatto pienamente; ovunque, su quei volti tumefatti o appena guariti dalle cicatrici lasciate dal bisturi, vedeva le tracce della perenne diversità, il marchio infamante dell’esser deformi.

    Era il periodo in cui era stato rifiutato dalla sua vera madre per l’ennesima volta. Forse era stato allora, dopo il mi dispiace imbarazzato dell’assistente sociale, che aveva cominciato a deformarsi anche il suo cuore, la sua mente, il mondo razzista e crudele in cui viveva. Da allora anche Virginia non l’aveva più visto sorridere.

    - Hey Ben! Ciao!

    Un ragazzo lo stava chiamando alle sue spalle, ma lui non si voltò nemmeno. Doveva essere qualcuno che gli chiedeva appunti prima della lezione; i soliti interessati che magari ti sorridevano per chiederti un favore e poi ti pugnalavano alle spalle coi loro giudizi. Mille volte Virginia gli aveva detto che erano soltanto paranoie, e mille volte, anche senza ribattere direttamente, l’aveva contraddetta.

    - Ben?

    Ben accelerò il passo e una volta tanto fu grato alla calca che l’inghiottì completamente, liberandolo da quel seccatore. Qualche scossone di troppo gli aveva rovinato l’acconciatura; quasi camminava, ora, con una mano sul viso. No, quella mattina non andava affatto bene. C’erano giorni in cui sul serio, non gli importava niente, altri in cui invece non pensava ad altro. Sono il Corvo, sono il Corvo, si ripeteva. Ma in quella folla si sentiva solo un insetto schiacciato da un centinaio di piedi.

    Fortuna che l’attenzione di tutti, al cancello principale, era attratta da un gruppo di giovani che vestivano una divisa rossa, senza dubbio membri del sindacato studentesco. Distribuivano volantini, e uno di loro, armato di spilla-microfono, gridava al pubblico che quasi aveva bloccato l’entrata:

    DOMENICA IN PIAZZA PER LA NOSTRA CITTÀ, PER NEAPOLIS LIBERA, PER LA NOSTRA CITTÀ!

    Neapolis... quante volte ne aveva sentito parlare negli ultimi tempi? Un’altra idea degli studenti più anziani per mettere a soqquadro l’università e occupare il tempo libero con manifestazioni anti-militari, anti-americane, anti-Italia, anti-tutto o giù di lì. A Ben sarebbero stati simpatici (in fondo si sentiva un po’ anti anche lui, soprattutto quella mattina), ma davvero non avrebbe resistito un secondo di più in quel pigia-pigia.

    Le correnti indipendentiste napoletane avevano guadagnato ampi favori nella popolazione, soprattutto dopo il precipitare degli accordi diplomatici internazionali, e l’inadeguatezza del governo italiano a fronteggiare una nuova, terribile minaccia: l’avanzata nel Mediterraneo dei nemici dell’Occidente, la Lega di Allah. A quanto Ben aveva capito, ma non è che gli interessasse poi molto delle politiche internazionali, la massiccia presenza militare americana aveva già occupato i punti strategici in Grecia e Italia, quelli cioè più esposti all’attacco della Lega, e all’inizio aperto delle ostilità. Sarebbe potuto essere un conflitto catastrofico, eppure c’era ancora chi aveva voglia di approfittarne per prendersi una rivincita. Erano così ritornate a spopolare le vecchie velleità indipendentiste di Napoli, a quanto pare nient’affatto ostacolate dal presidio NATO di stanza in città.

    Insomma, c’era qualcosa sotto. E questo qualcosa a Ben importava solo perché quella mattina non gli lasciava libero accesso al Polo Letterario dell’università.

    Domenica prossima, domenica prossima a Piazza Plebiscito contro la servitù agli Americani, contro la sudditanza a Roma e contro il potere dell’Organizzazione!, strillava una voce maschile al microfono. Era un ragazzo biondino appoggiato a uno dei cancelli del campus. Per fortuna avevano avuto l’accortezza di non sbarrarli; di tanto un tanto un professore riusciva a infilarsi all’interno, e per Ben quel piccolo varco nell’inferriata rappresentava ormai la differenza tra la vita e una morte lenta per asfissia... Un lato positivo c’era; erano tutti così appiccicati gli uni agli altri che era quasi impossibile, se fosse stato attento, guardarsi in faccia per più di qualche istante. E poi l’attenzione di tutti era calamitata dal presidente del consiglio studentesco, il famoso Massimo De Simone.

    Era lui che sbraitava al microfono, declamando, sorridendo, lanciando sguardi alle ragazze più vicine che andavano in visibilio senza neanche, magari, comprendere quello che l’altro gridava loro a squarciagola. Ben ne aveva sentito parlare spesso da Virginia, e da come lei si riferiva a De Simone, sulle prime aveva pensato che si trattasse di uno dei cantanti neo-melodici del momento. Poi era venuto fuori che era il paladino del momento per la causa indipendentista; un paladino solo per gli universitari fuori corso, si intende. Neanche il quotidiano locale ne aveva mai fatto cenno.

    E allora, la folla di quella mattina? Negli ultimi giorni il consiglio ne aveva fatta di strada; era quasi sicuro che Virginia avesse saltato la lezione al Polo Giuridico per starsene a pochi metri dal suo idolo urlante. Qualche altra spinta e Ben fu a un passo dai cancelli... e da Massimo.

    Un nuovo Stato, una nuova libertà, l’indipendenza che ci venne tolta ormai duecentocinquant’anni fa senza il consenso di nessun meridionale... per volere dei Nordici, per volere di Roma!; un applauso scrosciante stordì le orecchie di Benedetto Gastaldi proprio nel momento in cui cercava di infilarsi nel campus dietro una giovane insegnante parecchio disorientata.

    - Tieni, questo è per te, non mancare!

    Prima di costringersi a voltarsi verso Massimo, Ben si ritrovò in mano uno dei volantini che lui e i suoi stavano gettando in giro a mo’ di coriandoli.

    Lui sì che piace, si trovò a pensare suo malgrado. Se fosse mai esistito sulla Terra un ragazzo esattamente opposto a lui, quello era Massimo De Simone. Aveva ancora teso il braccio con cui gli aveva passato il volantino, e per un solo secondo i loro sguardi si incrociarono. Cioè, quello di Ben incrociò l’altro, perché Massimo era già alle prese con un altro tizio dietro di lui a cui passava un altro dei suoi insulsi bigliettini. Capelli ricci e biondi, abbastanza lunghi e forse mai neanche pettinati, occhi espressivi color ambra, sorriso da star; dopotutto a un cantante idolo delle teenager ci assomigliava di sicuro. Era tanto impegnato a ricevere ovazioni dai suoi adulatori che non aveva neanche notato il marchio di Ben. O forse neanche gliene era importato nulla; gli aveva dato il volantino solo per mostrargli che in fondo lui era talmente al di sopra di tutti che non distingueva più neanche tra belli e brutti, tra esseri superiori e creature ripugnanti, tra angeli della morte e studentesse urlanti.

    No, non riusciva proprio a non odiarlo. Forse l’aveva fatto fin dalla prima volta in cui aveva ascoltato Virginia che ne tesseva le lodi, ma ora che l’aveva visto, e che gli era apparso esattamente come se lo immaginava, bello e superbo, e così in alto in qualsiasi graduatoria di adone napoletano, sentiva l’invidia ribollirgli nel sangue. Non era proprio a causa sua... era per Virginia. Lei gli diceva che in un ragazzo era importante il lato interiore, ma quello non era che uno dei fattori di successo con le ragazze: se una mela era gustosa e nutriente, ma con una buccia marrone e tutta macchie e bitorzoli, chi si sarebbe arrischiato a morderla, anche a saperla squisita?

    Ben appallottolò il volantino senza neanche leggerlo e lo gettò nel primo tritacarte che incontrò lungo i viali del campus. Per fortuna nel piccolo cortile tra le quattro torri non c’era quasi nessuno; erano tutti ancora fuori, e questo permise a Ben di tirare un respiro di sollievo e di godersi quell’inaspettata pausa dagli sguardi degli studenti più giovani. L’immagine di De Simone si affievolì come la sua voce sempre più lontana; ancora un po’ e sarebbe riuscito a metterci una pietra sopra. Non aveva forse esaurito la sua dose giornaliera di malumore? Quando riusciva a starsene per conto suo, tutto cambiava; era più facile anche dimenticarsi della sua stessa faccia. Degli occhi cadenti, degli zigomi assenti, delle orecchie ridotte a due moncherini e della bocca troppo larga.

    Chi diceva che era così importante farsi degli amici? Un giorno avrebbe fatto a meno anche di Virgi, di sicuro. Si sarebbe spremuto le meningi e qualcosa sarebbe pur venuto fuori... qualcosa. Come due settimane prima, quando aveva avuto quello strano incubo ad occhi aperti. Era seduto in camera sua al computer, fantasticando con un nuovo programma di grafica; e all’improvviso i vetri delle due finestre di fronte a lui si erano oscurati, aveva sentito battere le imposte, ululare il vento. Insomma, tutte cose da film horror. Era andata via la luce fuori e lui si era ritrovato in un buio perfetto. Certo, era stato fantastico, ma il guaio era che era bastato sbattere le palpebre un paio di volte per tornare ad essere il nerd sfigato, appassionato di grafica gothic. Dieci secondi di visione in tutto: era a momenti come questo quelli a cui Ben si aggrappava per sostenere la sua teoria della complementarità.

    Episodi abbastanza vividi e realistici da farlo cadere in una sorta di temporaneo delirio di onnipotenza, come se tutto provenisse da lui, ma anche così fugaci e imprevedibili da fargli dubitare un attimo dopo della sua sanità mentale. E forse non era neanche l’unico a dubitarne. Un giorno Irma, la sua vecchia balia, gli aveva detto che era stata la debolezza psichica di sua madre, Elena, a trasmettergli quelle fantasie diaboliche per la testa. Come se nella sua vita Elena Gastaldi occupasse un qualche ruolo; aveva smesso di avere con lei un normale rapporto madre-figlio da quando si erano presentati i primi sintomi della sua depressione. Una specie di noia di tutto e tutti che l’aveva presa più di cinque o sei anni prima, quando Ben era nel pieno delle sue crisi adolescenziali.

    Pazienza, si disse Ben passeggiando all’ombra dei pochi alberi che lo separavano dalla torre del Polo Letterario-filosofico; si concesse di sfilarsi il giubbetto e di tirarsi via la frangia che ormai cominciava ad appiccicarglisi alla fronte umida di sudore. Vuoto era anche l’ingresso dove fece scivolare la carta magnetica nel controllore automatico. Le porte di uno degli ascensori si aprirono silenziose, e lui poté godersi, rara occasione, il piccolo ed accogliente vano tutto da solo.

    Erano ormai trascorsi più di cinquant’anni da quando l’Università Federiciana era stata completamente ristrutturata, e in molte parti riedificata, in conseguenza delle grandi riforme assegnate alla città italiana che più di ogni altra aveva risentito del boom economico del Mediterraneo. Era stata un’epoca disordinata, di ricchezza improvvisa e assai poco gestibile; Napoli aveva decuplicato la sua popolazione già esorbitante, erano nati nuovi quartieri,

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