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I Viaggi di Gulliver
I Viaggi di Gulliver
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I Viaggi di Gulliver

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Il romanzo è di avventura, i luoghi descritti sono di fantasy e immaginari, ricordiamo Lilliput, dove gli esseri e le cose sono picole piccolissime...
Brobdingnang, Laputa, l’isola volante e, bellissimo racconto,  e la terra degli Houyhnhnm. I luoghi che Gulliver visita sono descritti con molti particolari e con minuziosità. Il romanzo si compone di quattro parti, una per ciascun viaggio intrapreso dal protagonista e la storia si svolge tra il 1699 e il 1715.

È un libro piacevole che stimola la curiosità e fa vagare la mente in luoghi che mai potremo visitare, possiamo solo grazie all' autore di questi fantastici racconti. Non dobbiamo dimenticare poi il lato educativo: Gulliver nei suoi viaggi ci mostra usi e tradizioni di altri mondi, anche contrapponendoli al nostro che spesso, al confronto, appare opaco e poco cristallino...
LanguageItaliano
Release dateFeb 15, 2019
ISBN9788899481285
Author

Jonathan Swift

Born in 1667, Jonathan Swift was an Irish writer and cleric, best known for his works Gulliver’s Travels, A Modest Proposal, and A Journal to Stella, amongst many others. Educated at Trinity College in Dublin, Swift received his Doctor of Divinity in February 1702, and eventually became Dean of St. Patrick’s Cathedral in Dublin. Publishing under the names of Lemeul Gulliver, Isaac Bickerstaff, and M. B. Drapier, Swift was a prolific writer who, in addition to his prose works, composed poetry, essays, and political pamphlets for both the Whigs and the Tories, and is considered to be one of the foremost English-language satirists, mastering both the Horatian and Juvenalian styles. Swift died in 1745, leaving the bulk of his fortune to found St. Patrick’s Hospital for Imbeciles, a hospital for the mentally ill, which continues to operate as a psychiatric hospital today.

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    I Viaggi di Gulliver - Jonathan Swift

    Jonathan Swift

    i VIAGGI di GULLIVER

    edizione integrale

    Table Of Contents

               Lilliput primo cap. 4

              Brobdingnac secondo cap. 135

             Laputa terzo cap. 264

             Houyhnhnm quarto cap. 381

    Borelli editore

               Lilliput primo cap.

    Un viaggio a Lilliput

    Mio padre possedeva una piccola proprietà nella Contea di Nottingham; io ero il terzo dei suoi cinque figli. A quattordici anni mi consegnò ad un collegio di Cambridge, dove vi rimasi per tre anni, dedicando tutto il mio tempo agli studi. Ma essendo ingente il peso del mio mantenimento, nonostante godessi di un assegno ben meschino, troppo grande per una modesta fortuna, mi trovai costretto ad iniziare un praticantato presso il signor James Bates, eminente chirurgo di Londra. Rimasi presso di lui quattro anni e spesi il poco denaro che mio padre mi spediva di tanto in tanto nello studio del navigare e delle altre parti della matematica, utilissime a coloro che intendono dedicarsi ai viaggi, come io desideravo, sperando di essere chiamato una volta o l'altra.

    Lasciai il dottor Bates e tornai a casa di mio padre, dove, con il suo aiuto, di mio zio Giovanni e di pochi altri parenti, mi procurai quaranta sterline e in più la promessa di trenta sterline l'anno per mantenermi a Leida: dove studiai fisica per due anni e sette mesi, sapendo che mi sarebbe stata utile e di grande aiuto nel compiere durevoli viaggi.

    Immediatamente dopo il mio ritorno da Leida, il mio buon maestro, il dottor Bates, ottenne ch'io fossi ammesso come chirurgo a bordo della Rondine, una nave comandata dal capitano Abramo Pannell, col quale rimasi tre anni e mezzo, facendo un alcuni viaggi nel Levante e altrove. Al mio ritorno decisi di stabilirmi a Londra, incoraggiato anche in questo dal mio maestro Bates, che mi procurò non pochi clienti. Presi un appartamento in un piccolo fabbricato situato nel Vecchio Jury, e, deciso a cambiare il mio stato, sposai Maria Burton, secondogenita del signor Edmondo Burton, calzettaio in via Newgate, che assegnò alla figlia quattrocento sterline di dote

    Purtroppo il mio buon maestro Bates mori due anni dopo, ed io avevo poche amicizie: i miei affari cominciarono ad andar male, giacche la mia coscienza si sarebbe ribellata se avessi seguito il cattivo esempio di molti miei colleghi poco scrupolosi. Quindi, consultata mia moglie ed amici e conoscenti, decisi di imbarcarmi.

    Durante sei anni fui medico chirurgo, successivamente in due vascelli, e feci diversi viaggi nelle Indie Orientali e Occidentali, per rendere migliore la mia fortuna. Dedicavo le ore di riposo alla lettura dei migliori autori del passato e moderni, dato che ero sempre scortato, nei miei viaggi, da un buon numero di libri. Quando eravamo sulla terra ferma, studiavo i costumi e i caratteri dei diversi popoli, imparandone anche le lingue, cosa in cui riuscivo con grande facilità grazie alla mia capacità di avere una ottima memoria.

    L’ultimo di questi viaggi non era stato molto fruttuoso, decisi di rimanermene a casa con mia moglie e la mia famiglia. Traslocai dal Vecchio Jury al Vicolo Fetter, e di lì al Wapping, con l’intento di farmi una clientela fra quei marinai; ma non ebbi buoni risultati. Dopo tre lunghi anni visto che le cose non migliorarono, accettai una offerta assai vantaggiosa da parte del capitano William Prichard, padrone della imbarcazione Antilope, che stava per partire per un viaggio nei Mari del Sud.

    Disancorammo da Bristol il 4 Maggio 1699, e il nostro viaggio fu inizialmente favorevole. Non varrebbe la pena, per molte ragioni, di annoiare il lettore con i particolari delle nostre avventure in quei mari; gli basti quindi sapere che facendo rotta per le Indie Orientali, fummo trascinati da una violenta burrasca a nord-ovest della terra di Van Diemen. Dalle osservazioni rilevammo che la nostra posizione era di 30 gradi e 2 primi verso sud. Dodici dell'equipaggio erano morti per l'eccessivo lavoro e la pessima alimentazione, il rimanente si trovava in miserevoli condizioni.

    Il 5 Novembre, che è l'inizio dell'estate in quelle regioni, a causa della forte nebbia i piloti scorsero uno scoglio affiorante solo quando la nave si trovava a mezza gomena da esso; il vento era così forte che vi fummo spinti sopra e la nave si sfasciò. Io ed altri cinque uomini dell'equipaggio, ammarammo una scialuppa, cercando di allontanarci il più possibile dallo scoglio e dalla nave. Remammo, per circa tre leghe, cinque chilometri circa, finché non fummo più capaci di continuare, essendo già spossati dal lavoro fatto sulla nave, di conseguenza ci affidammo alla benevolenza delle onde, e, dopo circa mezz'ora, la barca fu capovolta da un improvviso colpo di vento da settentrione.

    Cosa avvenne ai miei compagni di scialuppa, o a quelli che erano rimasti sullo scoglio, o a quelli che avevamo lasciati sulla nave, non so dire: posso solo supporre che siano tutti morti. Io nuotai dove il destino mi dirigeva, ed ero spinto in avanti dal vento e dalla marea. Di tanto in tanto allungavo le gambe, senza toccare il fondo, ma quando ero ormai spacciato ed incapace di lottare oltre, mi accorsi che i miei piedi toccavano terra. Nel frattempo la burrasca si era calmata. Il pendio del fondo era così lieve, che dovetti camminare circa un miglio prima di raggiungere la spiaggia che avvenne, secondo i miei calcoli, verso le otto di sera. Andai avanti per un mezzo miglio, senza poter scoprire alcun segno di case o di abitanti o forse ero così indebolito dallo sforzo e dalle emozioni che non li notai. Mi sentivo straordinariamente stanco; questa stanchezza, il calore dell'aria, e una mezza bottiglia di acquavite, che avevo bevuta nel lasciar la nave, mi rendevano molto disposto al sonno. Mi distesi sull'erba che era assai corta e soffice, dove dormii più profondamente di quanto abbia mai fatto in vita mia, oltre nove ore; quando mi svegliai era giorno. Tentai di alzarmi, ma non fui capace di muovermi, poiché, essendomi coricato supino, mi trovai le braccia e le gambe legate strettamente e fissate da ogni lato al terreno, e i capelli, che erano lunghi e folti, tenuti fermi nello stesso modo. Avvertii di molte sottili cordicelle attraverso il corpo, dalle ascelle fino alle cosce. Potevo guardare soltanto in su, e il sole cominciava a farsi cocente, la luce ad offendere i miei occhi.

    Udivo un confuso rumore intorno a me, ma nella posizione in cui mi trovavo non potevo vedere altro che il cielo.

    Poco dopo sentii qualcosa di vivo muoversi sulla mia gamba sinistra, e procedere gentilmente sul petto, fino a raggiungere il mento, abbassando gli occhi quanto mi fu possibile, vidi che si trattava di una creaturina umana, alta meno di sei pollici, con un arco e una freccia in mano, e un faretra dietro le spalle. Nello stesso momento sentii una quarantina circa di esseri simili a quella tener dietro alla prima. Ero al massimo dello sbalordimento, e lanciai un urlo così forte che tutti fuggirono impauriti, alcuni di loro, come poi mi fu detto, si fecero male saltando in fretta giù dai miei fianchi. Eppure tornarono subito, e una di esse che si era spinta tanto lontano da poter vedere completamente il mio viso, alzando le mani e gli occhi al cielo in segno di ammirazione, gridò con una voce stridula ma distinta: flekinah degul! Anche gli altri ripeterono le stesse parole diverse volte. Ma allora non ne conoscevo il significato.

    Rimasi tutto questo tempo, come potete ben immaginare, in uno stato di grande apprensione. Cercando, agitandomi per liberarmi, ebbi la fortuna di spezzare le cordicelle e strappare i pioli che fissavano il mio braccio sinistro al terreno, riuscii ad alzare il braccio fino al viso, dove riuscii scoprire il metodo che era stato utilizzato per legarmi; e nello stesso tempo, con uno strappo violento che mi procurò anche dolore, liberavo i capelli dalla parte sinistra, in modo da poter girare la testa di circa due pollici. Ma quelle creature fuggirono per la seconda volta, prima che riuscissi ad agguantarle. In seguito si udì un forte grido, stridulo, terminato il quale sentii uno di loro dir forte: "Tolgo phonac".

    In un attimo mi sentii scaricare sulla mano sinistra molte frecce, cinquanta forse cento, che mi forarono come altrettanti aghi da cucire. Scoccarono inoltre una seconda salva di frecce in aria, così che alcune mi caddero sul corpo, sebbene non le sentissi affatto, ed altre sul viso, che coprii immediatamente con la sinistra. Finita questa pioggia di frecce, mi misi a gemere per il dolore e siccome cercavo ancora di liberarmi dai legami, essi scoccarono un'altra scarica maggiore della prima, mentre alcuni cercavano di ficcarmi le minuscole lance nei fianchi. Ma per buona fortuna indossavo una giacca di cuoio di bufalo, che non riuscirono a forare.

    Considerai che fosse più prudente di starmene quieto e, secondo un mio piano, aspettare la                                                   notte, durante la quale, avendo già libera la mano sinistra, avrei potuto facilmente liberarmi del completamente; quanto a quegli piccoli esseri, mi sentivo capace di affrontare il più grande esercito che potessero oppormi, se ciascun guerriero fosse stato della statura di quello che avevo potuto osservare. Tuttavia la fortuna dispose di me altrimenti.

    Nel momento che si accorsero che stavo tranquillo, non mi furono scaricate addosso altre frecce, ma, dal rumore che udivo tutt’intorno, capii che aumentavano numericamente molto vicino da me, in direzione del mio orecchio destro, sentii, per circa un'ora, un picchiare continuo come di operai al lavoro. A stento riuscii volger la testa da quella parte, per quanto le cordicelle e i cavicchi me lo permettevano, vidi una struttura che s'innalzava circa un piede e mezzo da terra, con due o tre scale a pioli per salirvi, e ampia da contenere quattro di quegli strani essere e da questa tribuna uno di loro, che sembrava un personaggio di riguardo, mi fece un lungo discorso di cui non capii neppure una sillaba. Dimenticavo… prima di cominciare la sua orazione, questo personaggio aveva gridato forte per tre volte:

    "Langro dehul san!" Queste parole e le precedenti mi furono ripetute e spiegate in seguito. Istantaneamente all’incirca cinquanta di quegli strani abitanti vennero a tagliare le cordicelle che immobilizzavano il lato sinistro della mia testa, lasciandomi così libero di      muovermi dal lato destro e di osservare la persona e i gesti di colui che parlava.

    Figurava un uomo di mezz'età, più alto dei tre che lo seguivano, uno dei quali era un paggio che gli reggeva lo strascico ed era alto poco più del mio dito medio; gli altri due stavano ai lati del personaggio per sostenerlo in caso di bisogno. Rappresentava perfettamente la parte dell'oratore e notai nel suo discorso molti periodi di minaccia, altri di promessa, di commiserazione e di gentilezza.

    Risposi in poche parole, ma nel modo più sottomesso, alzando la mano sinistra e gli occhi al cielo, quasi per chiamarlo a testimone; ed essendo quasi sfinito dalla fame, giacché non avevo assaggiato cibo già da qualche ora prima di lasciare la nave, sentii così forte questo bisogno naturale, che non potei astenermi dal far capire la mia necessità, ficcandomi spesso le dita riunite in bocca per significare che volevo mangiare. L'Hurgo, così è chiamato un gran personaggio in quei luoghi, come seppi poi, mi capì perfettamente. Scese dall'impalcatura, e ordinò che mi fossero appoggiate ai fianchi diverse scale, su cui salirono un centinaio di quegli indigeni, avanzando poi verso la mia bocca. Erano carichi di ceste di carne, che erano state fatte preparare e mandare dal Re alla prima notizia del mio arrivo. Notai che in quelle ceste vi era carne di differenti animali, ma non potei distinguerli al gusto. C'erano spalle, zampe, e lombi che somigliavano, come forma, a quelli del castrato, e cucinati benissimo, ma più piccoli delle ali di un'allodola. Ne mangiavo due o tre per boccone, e con essi mangiavo tre piccole pagnotte, ciascuna della grandezza di una pallottola di fucile.

    Nonostante cercassero di soddisfare la mia fame, in mille modi la loro meraviglia e il loro sbalordimento per la mole dei cibi che ingoiavo e per il mio appetito. Dopo di ciò feci capire che volevo dissetarmi. Da quanto avevo mangiato, pensarono che una piccola quantità di liquido non mi sarebbe bastata; ed essendo creature di grande talento, issarono con gran destrezza una delle loro più grandi botti, la rotolarono poi verso la mia mano e togliendone il coperchio. Bevvi tutto il contenuto in un sorso, cosa che riuscii fare bene, poiché non conteneva neppur mezzo boccale: aveva il sapore del vino di Borgogna, ma molto più delicato. Mi portarono una seconda grossa botte che ingurgitai allo stesso modo; ne chiesi ancora, ma non ne avevano altre da darmi.

    Quando terminai di compiere queste meraviglie, lanciarono grida di gioia e si misero a danzare sul mio petto ripetendo parecchie volte, come avevano fatto al principio: Hekinah degni! Quindi mi fecero segno che gettassi giù anche le due botti, ma prima gridarono: "Borach minala" alla gente di sotto, per avvertirla di spostarsi. Nel vedere le botti lanciate in aria, gridarono generale di "Hekinah degul".

    Nella mia mente più d'una volta fui tentato, mentre essi passeggiavano in lungo e in largo sul mio corpo, di acciuffarne alcune decina dei primi che mi fossero venuti a tiro, e di scaraventarli contro il terreno. Ma il ricordo di quello che avevo sofferto, che probabilmente non era il peggio che mi potessero fare, e la parola d'onore che avevo dato loro, mi tolsero ben presto dalla mente quel pensiero. D'altra parte, ormai mi consideravo legato dai doveri dell’ospitalità verso un popolo che mi aveva trattato con tanta larghezza e magnificenza. Tuttavia nel mio intimo non potevo fare a meno di stupirmi dell'intrepidezza di quei minuscoli mortali, che si arrischiavano a salire e a camminare sul mio corpo, mentre una delle mie mani era libera, senza tremare alla semplice vista d'una creatura di dimensioni così mostruose quale io dovevo apparir loro.

    Dopo alcuni giorni, notando che non cercavo altro cibo, si presentò a me un autorità di alto rango, mandato da Sua Maestà Imperiale. Sua Eccellenza, dopo essere salita sulla caviglia della mia gamba destra, venne su fino alla mia faccia, con circa dodici persone del suo seguito, e, tratte fuori le sue credenziali munite di sigillo regale, che mi mise davanti agli occhi, proferì per circa dieci minuti, senza alcun segno di collera, ma con un certo fare risoluto, indicando spesso davanti a sè, dove, come capii poi, era la capitale, a circa mezzo miglio di distanza, e dove era stato convenuto da Sua Maestà e dal Consiglio che io dovessi essere condotto. Gli risposi con poche parole, e gli feci segno con la mano che avevo libera, posandola sull'altra, facendola passare al disopra della testa di Sua Eccellenza, per timore di far male a lui o al suo seguito, poi sul capo e sul corpo, per fargli capire che desideravo di esser libero. Sembrò che mi comprendesse abbastanza bene, giacché scosse la testa in segno di disapprovazione, e si afferrò una mano in modo da farmi capire che sarei stato trasportato via come prigioniero. Ad ogni modo, fece altri segni per farmi intendere che avrei avuto vitto e bevande abbondanti e che sarei stato trattato benissimo. A questo punto mi tornò la voglia di provare a spezzare i miei legami; ma, ricordando il bruciore delle loro frecce sulla faccia e sulle mani, che erano tuttora coperte di piccole vesciche mentre molti di quei dardi vi rimanevano ancora conficcati, e osservando nello stesso tempo che il numero dei miei nemici aumentava, feci dei segni per lasciar loro capire che avevano libertà di far di me tutto quello che fosse loro piaciuto. Dopo di che l'Hurgo e il suo seguito si ritirarono con molta cortesia e con un'espressione di buon umore.

    Prontamente dopo udii un'acclamazione generale con la ripetizione frequente delle parole: "Peplon selan", e sentii alla mia sinistra il rumore di moltissime persone, che allentavano le corde tanto da lasciarmi libero di girarmi sul fianco destro.                        

    Anteriormente, mi avevano spalmato il viso e le mani con un unguento di un profumo piacevolissimo, che in pochi minuti fece scomparire tutto il bruciore causato dalle piccole loro frecce. Questi particolari, uniti al ristoro che avevo ricevuto dai loro cibi, che erano molto nutrienti, mi conciliarono il sonno. Dormii circa otto ore, come mi fu assicurato e come loro avevano predisposto, in quanto i medici, per ordine dell'Imperatore, avevano mescolato un sonnifero al vino delle botti.

    Sembra che, fin dal primo momento in cui fui scoperto addormentato sulla spiaggia dopo il mio arrivo, L'Imperatore ne avesse avuto l'annunzio tempestivo, e che in Consiglio avesse dato ordini affinché fossi legato nel modo precedentemente descritto, il tutto fu fatto di notte mentre io dormivo, che fossi rifocillato con carne e vino abbondanti, e che fosse predisposto un macchinario per trasportarmi alla capitale.

    Questa decisione può forse mostrarsi molto arrischiata e pericolosa, e son sicuro che non sarebbe imitata da nessun sovrano d'Europa in una simile occasione. Anche, se secondo il mio giudizio, essa fu estremamente prudente e nello stesso tempo generosa. Poiché, supponendo che quella gente si fosse provata ad uccidermi con le lance e con le frecce, durante il mio sonno, mi sarei certamente svegliato al primo senso di bruciore, e questo avrebbe eccitato a tal segno la mia ira e la mia forza, da rendermi capace di spezzare i miei lacci; dopo di che, siccome quelle creaturine non avrebbero potuto oppormi alcuna resistenza, non si sarebbero aspettata da me alcuna pietà.

    E' quello un popolo di eccellenti matematici ed ha raggiunto una grande perfezione nella meccanica, grazie all'appoggio e allo sprone dell'Imperatore, che è un famoso protettore del sapere. Questo sovrano possiede parecchie macchine su ruote per il trasporto di alberi e di altri grossi pesi. Lui fa costruire le sue maggiori navi da guerra, alcune delle quali raggiungono la lunghezza di nove piedi, negli stessi boschi dove cresce il legname da costruzione, per poi trasportarle su queste macchine per tre o quattrocento braccia fino al mare.

    Centinaia tra falegnami e meccanici si erano subito messi al lavoro per costruire il più grande ordigno che avessero mai posseduto. Si trattava di un'armatura di legno alta tre pollici da terra, lunga circa sette piedi e larga quattro, trasportata su ventidue ruote. L'acclamazione che avevo udito era stata provocata dall'arrivo di questa macchina, costruita e messa in funzione in sole quattro ore dal mio arrivo. La macchina fu portata parallela al mio corpo, mentre dormivo, anche se la difficoltà maggiore consisteva nel sollevarmi da terra e nel mettermi disteso su questo veicolo. A tale scopo furono eretti ottanta pilastri dell'altezza di un piede ciascuno, e delle grossissime funi, dello spessore d'uno spago da imballaggio, furono fissate, per mezzo di uncini, alle molte fasce con cui gli operai mi avevano circondato il collo, le mani, il corpo e le gambe. Novecento uomini dei più robusti furono scelti per tirar su queste funi per mezzo di carrucole fissate ai pilastri e così in meno di tre ore fui issato e deposto nella macchina, dove mi legarono stretto. Tutto questo mi fu raccontato, perché durante il tempo in cui l'intera operazione veniva eseguita io giacqui in un sonno profondo, a causa del sonnifero versatomi nel vino. Oltre mille dei più grossi cavalli dell'Imperatore, ciascuno alto circa quattro pollici e mezzo, furono impiegati per trascinarmi verso la metropoli, che, come ho già detto, era situata a mezzo miglio di distanza. Dopo alcune ore dalla partenza del trasporto, mi svegliai per un caso molto ridicolo. Siccome il veicolo fu fermato un istante per sistemare qualcosa che era fuori posto, due o tre di quei giovani indigeni ebbero la curiosità di vedere che aspetto avessi mentre dormivo. Si arrampicarono su per la macchina e, avanzando pian pianino verso la mia faccia, uno di essi, un ufficiale della guardia, mi introdusse nella narice sinistra l'estremità appuntita della sua lancia, che mi solleticò il naso come se fosse stata una paglia e mi fece sternutire violentemente poi fuggirono inosservati, ed io conobbi soltanto tre settimane dopo il motivo di quel mio risveglio improvviso.

    Procedemmo per tutto il resto di quella giornata, e la notte ci sospendemmo per riposare, con centinaia guardie da ogni lato del mio corpo, metà munite di torce e metà di frecce ed archi, pronte a scagliarsi contro di me se ne avessi dato loro l'occasione. La mattina successiva, al levar del sole, riprendemmo la nostra marcia e arrivammo, dopo molte ore, a duecento braccia dalle mura della città. L'Imperatore, con tutta la sua corte, uscì ad incontrarci; ma i suoi grandi dignitari non vollero permettere in alcun modo a Sua Maestà di mettere in pericolo la sua persona salendo sul mio corpo.

    Nella zona dove il carro si fermò c'era un antico tempio, giudicato il più grande di tutto il reame. Alcuni anni prima era stato profanato da un feroce delitto, e da quel momento, avendo perduto, per lo zelo religioso della popolazione, ogni carattere sacro, era stato destinato ad usi ordinari e spogliato degli arredi e delle suppellettili sacre, che erano state trasferite altrove.

    Fu deciso che io dovessi alloggiare in questo edificio. La porta principale, rivolta a settentrione, era alta circa quattro piedi e larga quasi due, ed avrei potuto introdurmi facilmente attraverso di essa. A ciascun lato della porta vi era una finestra alta non più di sei pollici da terra. A quella di sinistra, il fabbro del re assicurò novantun catene, simili a quelle che vediamo pendere dagli orologi per signora in Europa, e grosse quasi altrettanto, che mi furono fissate alla gamba sinistra con trentasei fermagli. Frontalmente a questo tempio, sull'altro lato della grande strada principale, a pochi piedi di distanza, sorgeva una torre alta almeno cinque piedi. In questa torre salì l'Imperatore con molti alti dignitari della sua corte, per avere la possibilità di osservarmi, come mi fu detto poi, siccome io non potei vederli.

    Fu calcolato che oltre centomila persone uscirono dalla città spinte dalla stessa curiosità e, nonostante gli sforzi delle mie guardie, credo che non siano state meno di diecimila quelle che a diverse riprese si arrampicarono sul mio corpo a mezzo di scale. Ma onde evitare che tutto questo si ripetesse fu emanato un proclama per vietare ciò, sotto pena di morte.

    Quando gli operai capirono che mi sarebbe stato impossibile fuggire, tagliarono tutte le corde che mi legavano, e mi alzai con un umore così malinconico quale non avevo mai avuto in vita mia. Lo schiamazzo e lo sbigottimento di quella gente al vedermi alzare e camminare non può essere descritto! Le catene che imprigionavano la mia gamba sinistra erano lunghe circa due braccia, e mi davano non solo la libertà di camminare avanti e indietro in semicerchio, ma, essendo fissate a quattro dita dalla porta, mi permettevano di introdurmi e di stendermi nel tempio per tutta la mia lunghezza.

    Quando mi trovai in piedi, mi guardai intorno, e vi dico che non avevo mai goduto di una vista più gradevole. Il paesaggio circostante somigliava a un giardino sterminato, e i campi che vi erano inclusi, per lo più della estensione di quaranta piedi quadrati ciascuno, sembravano tante aiuole di fiori, Tali campi erano intramezzati da boschi di mezza pertica, e i più alti alberi, da quel che potevo giudicare, non superavano i sette piedi. Contemplai la città, alla mia sinistra, simile a una città dipinta sulla scena d'un teatro.

    Da alcune ore mi sentivo insistentemente incalzato dalle necessità della natura; non è da meravigliarsene, giacché erano passati due giorni da quando mi ero alleggerito il corpo per l’ultima volta. Mi trovavo in grandi difficoltà, combattuto fra l’urgenza e la vergogna. Non vidi miglior soluzione che cacciami in casa, e così feci; poi, chiusa la porta dietro di me, la mi inoltrai fin dove lo permetteva la lunghezza della catena, e mi liberai dell’inutile carico. Ma questa fu l'unica volta in cui mi resi colpevole di un atto così poco nobile; per cui spero che il lettore imparziale voglia usarmi qualche indulgenza dopo aver considerato equamente le difficoltà in cui mi dibattevo. Da quella volta la mia pratica abituale fu di compiere questo bisogno all'aria aperta, non appena levato al mattino, lontano quanto me lo permetteva la mia catena; e ogni mattina prima che arrivassero i visitatori, due servi, assegnatimi per questo scopo, avevano l'incarico di far scomparire quegli sgradevoli rifiuti trasportandoli via a mezzo di carriole. Non mi sarei indugiato così a lungo su un particolare che forse, a prima vista, può sembrare molto trascurabile, se non avessi creduto necessario giustificare agli occhi del mondo i miei principi in fatto di pulizia, che, come mi è stato detto, alcuni maligni hanno messo in dubbio in questa ed in altre occasioni.

    Quando quel bisogno fu compiuto, me ne tornai fuori dalla mia casa per respirare un poco d'aria pura. L'Imperatore era già disceso dalla torre e avanzava a cavallo verso di me, cosa che per poco gli costò cara, in quanto la bestia, per quanto molto bene addestrata, non era affatto avvezza alla vista di quel che doveva apparirle come una montagna che, le si muovesse davanti, e s'impennò sulle zampe posteriori. Ma il sovrano, che è un eccellente cavallerizzo, si tenne fermo in sella fintantoché i servi si precipitarono in suo aiuto e reggendo le briglie lo aiutarono a smontare.  Disceso a terra, il Re mi ruotò attorno scrutandomi con molto interesse, pur tenendosi sempre a una distanza maggiore della mia catena. Dispose poi ai suoi cuochi e ai suoi cantinieri, che erano già pronti, per rifornirmi di viveri e bevande, che essi spinsero subito innanzi, su certi veicoli a ruote, fino alla portata delle mie mani. Ben presto vuotai tutti quei trasporti: venti erano pieni di cibi e dieci di vino; ognuno di essi mi forniva due o tre buoni bocconi, e vuotai il vino dei dieci veicoli, che era contenuto in piccole caraffe di terra, bevendolo d'un sorso; così feci col resto. L'Imperatrice e i Principi del sangue d'ambo i sessi, seguiti da molte dame, sedevano nelle loro portantine ad una certa distanza; ma dopo l'incidente occorso al cavallo dell'Imperatore essi erano scesi e si erano avvicinati alla sua Real persona, che ora vado a descrivervi. Alto, più alto, della larghezza d'una mia unghia, di qualunque altro personaggio della sua Corte; circostanza che da sola basta ad incutere reverenza in chi lo vede. Le sue fattezze sono forti e virili, il labbro sporgente, il naso aquilino, il colorito olivastro, il portamento eretto, tutti i movimenti aggraziati, e il contegno maestoso. Non essendo più nel fiore degli anni, avendone ventinove, dei quali ne contava sette di regno, in gran parte felice e vittorioso. Per poterlo osservare con maggiore comodità mi ero disteso sul fianco, così che il mio viso era alla stessa altezza del suo, ed egli stava in piedi a sole tre braccia di distanza. Però in seguito l’ho tenuto molte volte in mano, quindi non posso sbagliarmi nella descrizione che ne vado facendo. L'abito era molto semplice, di foggia asiatica e in stile europeo e portava sulla testa un elmetto d'oro molto leggero, ornato                     di pietre preziose, sormontato da una piuma sul cimiero. Per difendersi, nell’ ipotesi in cui io avessi spezzato le catene, teneva in mano la spada sguainata, che era lunga all'incirca tre pollici e il fodero e l’elsa erano d'oro tempestati di diamanti. Aveva una voce stridula, ma chiara, distinta, e potevo udirla chiaramente anche stando in piedi. Le dame e i cortigiani, erano così magnificamente vestiti, che il luogo in cui essi si trovavano pareva un gonnellino disteso sul terreno, tutto ricamato di figure d'oro e d'argento.

    Sua Maestà Imperiale mi rivolse spesso la parola, ed io gli risposi; ma nessuno di noi due poté interpretare una sillaba. Erano presenti molti dei suoi preti e dei suoi giuristi, lo immaginai dai loro abiti, che ebbero l'ordine di parlarmi; ed io risposi loro in tutte le lingue delle quali avevo almeno una conoscenza, cioè l'alto e basso olandese, il latino, il francese, lo spagnolo, l'italiano e la lingua franca, ma fu tutto inutile!

    Dopo alcune ore forse due la Corte si ritirò e fui lasciato sotto buona guardia, per impedire l'impertinenza e la probabile ostilità della plebaglia, impaziente di affollarmisi intorno e vicino, fin dove il coraggio glielo avesse permesso, anzi alcuni sconsiderati ebbero l'impudenza, mentre me ne stavo seduto presso la porta della mia abitazione, di scoccarmi delle frecce, di cui una poco mancò mi forasse l’occhio sinistro. Ma il colonnello ordinò che sei dei caporioni fossero arrestati, e pensò che nessuna punizione fosse più adatta che consegnarli legati nelle mie mani cosa che i suoi soldati fecero, spingendoli col fondo delle loro picche verso di me. Li presi tutti nella mano destra poi ne misi cinque nella tasca della mia giacca; in quanto al sesto, feci l'atto di volerlo mangiar vivo. Il poveraccio strillava in modo tremendo, e gli ufficiali e il colonnello stesso si sentirono molto inquieti sulla sua sorte, specialmente quando mi videro tirar fuori il mio piccolo coltello. Ma li tranquillizzai, poiché, mitigando la mia espressione e tagliando immediatamente le cordicelle con cui il malcapitato era stato legato, lo deposi delicatamente al suolo, dove fuggì a gambe levate. Usai lo stesso trattamento agli altri, cavandoli di tasca uno dopo l'altro e notai nel frattempo come tanto i soldati che la popolazione fossero riconoscenti di questo mio atto di clemenza, che, riferito a Corte, mi originò grandi privilegi.

    Sul calare della notte entrai con difficoltà nella mia dimora, dove mi stesi sul pavimento per dormire. Proseguii così per quasi due settimane mentre in questo tempo L'Imperatore dava ordini che mi fosse preparato un letto. Seicento materassi della loro comune misura furono trasportati su carri e montati nella mia stanza. Centocinquanta di questi, uniti insieme, facevano la larghezza e la lunghezza dei mio, ed essi erano sovrapposti a quattro doppi; ciò nonostante attenuavano pochino la durezza del pavimento, che era di pietra liscia. Nella stessa proporzione fui provvisto di lenzuola e di coperte, abbastanza passabili per uno che, come me, era da lungo tempo assuefatto alle durezze della vita.

    Mentre la notizia del mio arrivo si diffuse per tutto il regno, un numero prodigioso di ricchi, di curiosi e di oziosi si riversò nella capitale per vedermi, così che i villaggi rimasero quasi vuoti, e ne sarebbero derivati gravi danni all'agricoltura e all'economia domestica ma Sua Maestà Imperiale se adottò, contro questo inconveniente, provvedimenti severi, a mezzo di proclami e ordini di Stato. Decretò che chi mi aveva già visto dovesse tornarsene a casa e non avvicinarsi a più di cinquanta braccia dalla mia abitazione senza uno speciale permesso del Palazzo reale; provvedimento che fruttò ragguardevoli somme ai Segretari di Stato.

    Nel medesimo tempo l'Imperatore convocò il consiglio per discutere quali provvedimenti si dovessero prendere sul mio conto; e fui in seguito informate da un mio intimo amico, una persona di grande rilievo e molto addentro alle segrete cose, che la corte si trovava in grandi difficoltà a mio riguardo. Temevano che potessi fuggire, e avevano timore che il mio sostentamento divenisse troppo dispendioso e potesse, nel tempo, generare la carestia.

    Vi fu chi propose di lasciarmi morir di fanne, chi di scagliarmi contro delle frecce avvelenate al viso e alle mani, in modo da disfarsi al più presto di me, ma poi riflettevano che il fetore di una carcassa così enorme avrebbe potuto portare la peste nella metropoli, e che l'epidemia avrebbe potuto diffondersi in tutto il reame. Nel bel mezzo di queste                               consultazioni, svariati ufficiali dell'esercito giunsero alla porta della sala del gran consiglio e due di essi, ottenuto il permesso di entrare, fecero il resoconto del mio contegno verso i sei colpevoli, di cui vi ho già parlato. Questo atto impressionò così favorevolmente a mio riguardo Sua Maestà e il gran consiglio, che fu subito inviata una Commissione Imperiale a ordinare a tutti i villaggi che si trovassero in un raggio di novecento braccia dalla capitale di consegnare ogni mattina sei buoi, quaranta pecore e altre vettovaglie per il mio mantenimento e, insieme a tutto questo, una quantità proporzionata di pane, vino e liquori. Per il pagamento dovuto, Sua Maestà aveva decretato un assegno sul suo tesoro privato. Perché bisogna sapere che questo sovrano vive principalmente dei proventi delle sue proprietà private, e molto raramente, salvo che nelle grandi occasioni, impone delle tasse ai suoi sudditi, che però sono obbligati a seguirlo in guerra a loro spese. Fu anche creato un corpo di seicento domestici al mio servizio, che godevano di un salario fisso per il loro mantenimento e che alloggiavano sotto comode tende disposte ai lati del mio ingresso. Fu ugualmente ordinato che trecento sarti mi facessero un abito alla moda del paese, che sei degli uomini più dotti di Sua Maestà dovessero occuparsi d'insegnarmi la loro lingua e alla fine i cavalli dell'Imperatore, dei nobili e delle truppe di guardia, eseguissero frequenti esercitazioni in mia presenza per abituarli alla mia presenza.

    Tale moltitudine di ordini furono eseguiti con rigore, e in poco più di tre settimane io avevo fatto gran progressi nella loro lingua. Durante questo tempo L'Imperatore mi aveva spesso onorato delle sue visite e si compiaceva di assistere alle mie lezioni.

    Noi iniziavamo già a conversare insieme in qualche modo, le prime parole che appresi furono quelle adatte ad esprimere il mio vivo desiderio che mi fosse restituita la libertà, e le ripetevo ogni volta in ginocchio. La sua risposta fu, da quel che potei capire, "che questo si sarebbe visto col tempo" e che non poteva essere deciso senza l'assenso del suo Consiglio; che prima avrei dovuto "lumos kelmin pesso desmar ion emposo" e cioè giurare di stare in pace con lui e col suo regno, che però sarei stato trattato con ogni rispetto; e mi consigliò di guadagnarmi con la mia pazienza e con la mia saggia condotta la buona opinione sua e dei suoi sudditi. Voleva anche che non mi offendessi se avesse dato ordine a certi ufficiali di perquisirmi, perché probabilmente avevo addosso delle armi che, se corrispondevano alla mole della mia persona colossale, dovevano essere molto pericolose. Risposi che Sua Maestà sarebbe stata soddisfatta, perché questo glielo feci capire parte a parole e parte a gesti, ero pronto a spogliarmi e a rivoltare le mie tasche davanti a lui. Egli rispose che secondo le leggi dello Stato dovevo essere perquisito da due dei suoi ufficiali, che egli sapeva benissimo come ciò non potesse esser fatto senza il mio consenso e il mio aiuto, che aveva un'opinione così alta della mia generosità e della mia giustizia da assegnare a me i due ufficiali, che qualunque cosa mi fosse tolta, mi sarebbe restituita alla mia partenza dal paese, o mi sarebbe pagata al prezzo da me richiesto. Presi quindi la mano dei due ufficiali e li misi prima nelle tasche della mia giacca, poi in tutte le altre tasche che avevo, meno i due taschini e un'altra tasca segreta che non avevo intenzione di lasciar frugare, dove conservavo alcune piccole cose necessarie che non potevano essere di alcuna utilità ad altri che a me. In uno dei miei taschini c'era un orologio d'argento e nell'altro una borsa con poche monete d'oro. Questi signori, che erano provvisti di penna, carta e calamaio, fecero un esatto inventario di tutto ciò che videro e quando terminarono mi chiesero umilmente di rimetterli giù, perché potessero consegnarlo all'Imperatore. Ecco, parola per parola, quest'inventario, che in seguito riuscii a tradurre:

    Imprimis. Nella tasca destra della giacca del grande Uomo-Montagna, così interpreto le parole "Quinbus Flestrin", dopo le più accurate ricerche trovammo solo un gran pezzo di panno ruvido, abbastanza grande per servir da tappeto alla grande sala di Stato di Vostra Maestà. Nella tasca sinistra vedemmo un'enorme cassa d'argento, con un coperchio dello stesso metallo, che non fummo capaci di sollevare. Chiedemmo che fosse aperta, e uno di noi, entrato dentro, si trovò a mezza gamba in una specie di polvere, di cui una piccola parte, che era volata sulle nostre facce, ci fece sternutire molte volte di seguito. Nella tasca destra del suo panciotto trovammo un fascio smisurato di certe sottili sostanze bianche, piegate una sull'altra, quasi della grossezza di tre uomini, legate con un canapo fortissimo e contrassegnate da figure nere, che, secondo la nostra umile supposizione, devono essere                         sedi-tal e, di cui ciascuna lettera o quasi grande come metà del palmo della nostra mano.

    Nella sinistra c'era una specie di macchina, dal cui dorso spuntavano venti lunghi pali, somiglianti alla palizzata che si trova davanti alla corte di Vostra Maestà; con quest'arnese immaginiamo che l'Uomo-Montagna si pettini, poiché non sempre lo disturbammo con le nostre domande, trovando grande difficoltà a farci capire. "Nella tasca grande a destra della sua copertura di mezzo, così io traduco la parola           ranfulo, con la quale essi intendevano accennare ai miei calzoni, vedemmo una colonna concava di ferro, dell'altezza di un uomo, fissata a un grosso tronco; e da un lato della colonna sporgevano grossi pezzi di ferro intagliati in strane figure, che non riuscimmo a capire a che potessero servire. Nella tasca sinistra, un'altra macchina della stessa specie. Nel taschino di destra c'erano parecchi pezzi di metallo rotondi e piatti, bianchi e rossi, di mole inconsueta; alcuni di quelli bianchi, che parevano d'argento, erano così grandi e pesanti che il mio compagno ed io non riuscivamo ad alzarli.

    Nella tasca di sinistra vi erano due pilastri neri di forma irregolare: stando in fondo alla tasca, potemmo raggiungere l'estremità superiore di esse non senza grande difficoltà. Una di esse era coperta e sembrava tutta d'un pezzo; ma dall'estremità dell'altra sporgeva una sostanza bianca, di forma rotonda, grossa quasi il doppio. In ciascuna di esse era rinchiusa un'enorme lastra d’acciaio, che gli ordinammo di mostrarci, perché temevamo che fossero macchine assai pericolose. Lui tirò le lame dalle colonne e ci disse che al suo paese con una di esse soleva radersi la barba, e con l'altra tagliare le vivande.

    C'erano due altre tasche in cui non potemmo entrare, le chiamano i suoi taschini, e sono due fenditure molto larghe in cima alla sua copertura di mezzo, tenute chiuse strettamente dalla pressione del suo ventre. Dal taschino di destra pendeva una gran catena d'argento, all'estremità della quale era attaccata una macchina straordinaria. Gli ordinammo di tirar fuori qualunque cosa fosse legata a quella catena e vedemmo allora un grande globo, metà d'argento e metà di mi certo metallo trasparente; e ci accorgemmo di ciò perché, vedendo delle strane figure disegnate tutt'intorno, pensammo di poterle toccare ma ne fummo impediti da quella sostanza translucida. Avvicinò la macchina alle nostre orecchie e udimmo uno strepito incessante come di un mulino, così che immaginiamo si tratti d'un animale di razza sconosciuta, del dio ch'egli adora; ma siamo più propensi alla seconda supposizione, giacche egli ci assicurò, se lo capimmo bene, poiché si esprimeva in modo assai imperfetto, che raramente fa qualche cosa senza consultarlo: lo chiama il suo oracolo, e disse che gli indicava il tempo adatto per tutte le azioni della sua vita.

    Dall'altro scomparto della copertura di mezzo trasse una rete quasi abbastanza grande per un pescatore, ma fatta in modo da potersi aprire e chiudere come un borsellino, che a lui serviva proprio per quest'uso: in esso trovammo molti pezzi massicci di metallo giallo, che, se sono d'oro vero, debbono essere d'un valore immenso.

    Poi dopo aver così, in obbedienza agli ordini di vostra Maestà, frugato diligentemente tutte le sue tasche, noi osservammo una cintura attorno alla sua vita, fatta con la pelle di qualche gigantesco animale, e da questa pendevano a sinistra una spada della lunghezza di cinque uomini, a destra una borsa, o sacca, divisa in due celle, ciascuna capace di contenere tre sudditi di vostra Maestà. In una di queste celle erano parecchie sfere, o palle, di un metallo pesantissimo, della grossezza delle nostre teste, per alzar le quali occorreva una forza non comune. L'altra cella conteneva un mucchio di certi granelli neri, di non grande peso, tanto che potevamo tenerne più di cinquanta sul palmo della nostra mano.

    Questo è una precisa elencazione di quanto trovammo sul corpo dell'Uomo-Montagna, che, ad onor del vero, si dimostrò gentilissimo con noi e rispettosissimo verso l'ordine dato da vostra Maestà. Firmato e sigillato nel quarto giorno dell'ottantesima luna del fausto regno di vostra Maestà.

    CLEFREN FRELOCH - MARSI FRELOCK

    Dopo che la lista dell'inventario fu letta all'Imperatore, questi mi ordinò, sebbene con estrema gentilezza, di consegnare i singoli oggetti. Per prima cosa mi chiese di consegnare la spada, che mi tolsi subito, compreso il fodero. Era stato ordinato a tremila uomini delle sue truppe scelte che lo seguivano di circondarmi a distanza, con i loro archi e frecce pronte ad essere scoccate; ma io non me ne ero accorto, avendo gli occhi fissi sulla persona di Sua Maestà. Poi espresse il desiderio che sfoderassi la spada, la quale, sebbene avesse preso un po' di ruggine per l'acqua e il sale del mare, era ancora brillante per la maggior parte. Io obbedii, ed immediatamente dalle truppe si levò un grido di terrore e di sorpresa, giacché il sole, che splendeva luminoso, si rifletteva sulla lama e abbagliava i loro occhi quando agitavo la spada.

    Sua Maestà, che è un principe assai magnanimo, fu meno intimidito di quel che mi sarei aspettato: mi ordinò di rimettere la spada nel fodero e di lanciarla a terra, con la maggior delicatezza possibile, circa all'estremità della mia catena. Quindi mi chiese una delle colonne di ferro concavo, e con ciò intendeva alludere alle mie pistole da tasca.

    Ne estrassi una, e, dietro suo desiderio, gliene spiegai l'uso; pertanto la caricai solo con la polvere che, grazie all'impenetrabilità della mia sacca, non era stata bagnata dall'acqua del mare, avvertii l'Imperatore di non spaventarsi, e esplosi in aria. Questa volta lo sbalordimento fu molto maggiore che alla vista della spada. Molti, moltissimi soldati caddero tramortiti, e perfino l'Imperatore, che pure rimase fermo al suo posto, non si rimise dallo stupore che dopo un certo tempo.

    Come consegnai la spada consegnai le pistole, quindi il sacchetto della polvere e delle palle; e raccomandai all’Imperatore di tenere la polvere lontana dal fuoco, in quanto, la più piccola scintilla sarebbe bastata a far saltare in aria il suo palazzo imperiale.

    Nell’identico modo consegnai l'orologio, che l'Imperatore lo osservò con molta curiosità. Ordinò a due delle sue più forti guardie a piedi di trasportarlo su una pertica a spalla, come i carrettieri trasportano i barili di birra. L'Imperatore era sorpreso udendo il suo continuo battito e osservando il movimento della lancetta dei minuti che egli poteva distinguere facilmente, in quanto la vista di questo popolo è molto più acuta della nostra. Furono chiamati i dotti del regno a dare una spiegazione dello strano congegno; ma le loro opinioni erano discordi e lontane dalla realtà, come potete immaginare, senza ch'io debba ripeterle; sebbene, a dire il vero, non riuscissi a capire perfettamente ciò che dicevano. Dopo di ciò dovetti separarmi dalle mie monete d'argento e di rame, dal portamonete coi nove grossi pezzi d'oro e alcune monete minori, dal mio coltello, dal rasoio, dal pettine, dalla tabacchiera, dal fazzoletto e dal taccuino. La spada, le pistole e la sacca della polvere furono trasportate su un carro agli arsenali di Sua Maestà; mentre tutti gli altri oggetti mi vennero restituiti.

    Possedevo, come narrai antecedentemente, una tasca segreta che sfuggì alla loro perquisizione, dove vi erano un paio di occhiali, che uso qualche volta per la debolezza della vista, un cannocchiale tascabile e diverse altre cose che, essendo di poco interesse per L’Imperatore, non ritenni mio obbligo morale di consegnare, anche perché temevo che, lontane dalla mia custodia, potessero esse perdute o danneggiate.

    La mia disponibilità e le mie amabili maniere si erano a tal punto guadagnata la simpatia dell'Imperatore e della Corte, e più ancora dell'esercito e della popolazione in generale, che incominciai a sperare di riacquistare la libertà in breve tempo.

    Da parte mia, feci di tutto per favorire questa disposizione benevola. Gli abitanti, un po' alla volta, cominciarono a temere meno che potessi far loro dei danni. Alcune volte solevo sdraiarmi a terra e lasciare che cinque o sei di loro venissero a danzare sulla mia mano. Immaginate si giunse al punto che i ragazzi e le ragazze si arrischiavano a giocare a mosca cieca fra i miei capelli. Mi stavo proprio ambientando, avevo fatto grandi progressi anche nell'intendere e parlare la loro lingua.

    Un giorno l'Imperatore ebbe la gentilezza di intrattenermi con diversi spettacoli del paese. Questo popolo supera in ciò tutte le nazioni da me conosciute, sia per destrezza che per magnificenza. Nulla mi rallegrò maggiormente che lo spettacolo dei ballerini sulla corda, eseguito su un sottile filo bianco lungo circa due piedi e alto da terra quasi dodici pollici. Su questo argomento chiedo alla pazienza del lettore di potermi dilungare un poco. Questo spettacolo è eseguito soltanto da coloro che aspirano a grandi cariche o ad alti favori a Corte, sono preparati in quest'arte fin dalla loro adolescenza, e non sempre sono di nobili natali o di educazione elevata. Quando un'alta carica resta vacante, sia per morte, sia per sfavore, come spesso accade, cinque o sei di questi candidati supplicano di intrattenere Sua Maestà e tutta la Corte con una danza sulla corda, e chi riesce a saltare più in alto senza cadere succede nella carica vacante Molto spesso i primi ministri e gli altri dignitari sono chiamati a dare un saggio della loro bravura per convincere l'Imperatore che non hanno perduto nulla della loro agilità. Flimnap, il Tesoriere, ha il privilegio di fare una capriola sulla corda tesa almeno un pollice più in alto di qualunque altro dignitario dell'impero. Io stesso l'ho visto eseguire più volte di seguito il salto mortale su di una tavola fissata sopra una corda della grossezza di un comune spago da imballaggio. Il mio amico Reldresal, segretario principale per gli Affari Interni, è, secondo me, e se non sono parziale verso di lui, il più abile saltatore dopo il Tesoriere. Gli altri grandi dignitari più o meno si equivalgono.

    Questi spettacoli sono spesso accompagnati da fatali incidenti, di cui moltissimi vengono regolarmente registrati. Ho visto anch'io due o tre candidati spezzarsi un braccio o una gamba Ma il pericolo è molto maggiore quando i ministri stessi sono chiamati a mostrare la loro agilità; giacché, per superare i loro colleghi, essi fanno tali sforzi che è ben difficile che qualcuno di loro non finisca col fare un bel capitombolo, e qualche volta due o anche tre.

    Mi fu raccontato che un anno o due prima del mio arrivo Flimnap si sarebbe infallibilmente rotto l'osso del collo, se un cuscino del Re, che si trovava per coincidenza sul terreno, non avesse attenuato la caduta. Esiste anche un altro trattenimento simile, che si dà soltanto alla presenza dell'Imperatore, dell'Imperatrice e davanti ai primi ministri, in occasioni specifiche. L'Imperatore posa sul tavolo tre bei fili di seta della lunghezza di sei pollici: uno di essi è azzurro, l’altro rosso e il seguente verde. Questi fili sono dati come premio a coloro che l'Imperatore vuol distinguere con un segno particolare del suo favore. La cerimonia si svolge nella grande sala di Stato di Sua Maestà, dove i designati debbono sostenere alcuni test di destrezza completamente diverse dalle precedenti. In nessuna parte del vecchio e del nuovo mondo ho mai visto organizzare spettacoli che abbiano la minima rassomiglianza con questo.

    L'Imperatore sorregge in mano un bastone con le due estremità parallele all'orizzonte, mentre i candidati, avanzando uno alla volta, talora saltano sul bastone, oppure vi scivolano sotto, avanzando e indietreggiando Molte volte, secondo che il bastone sia alzato o abbassato. Qualche volta l'Imperatore regge un'estremità del bastone e il primo ministro l'altra e qualche volta è il primo ministro che ne regge le due estremità. Chi esegue la sua parte con la massima agilità, e resiste più a lungo saltando e strisciando, è ricompensato col filo di seta azzurro; il rosso è dato al secondo e il verde al terzo; ed essi se lo girano per due volte attorno alla vita, così che si vedono ben pochi grandi personaggi, in questa corte, che non siano adorni di almeno una di queste cinture.

    I puledri dell'esercito e delle reali scuderie, essendo stati portati ogni giorno davanti a me, non furono più ombrosi, ma sollevano anzi venire fin sui miei piedi senza spaventarsi affatto. I loro cavalieri li facevano saltare al di sopra della mia mano, mentre io la tenevo sul terreno, e un cacciatore dell'Imperatore, su un bellissimo destriero, saltò al di sopra del mio piede calzato. Fu veramente un salto portentoso.

    Un giorno ebbi la fortuna di offrire a Sua Maestà un trattenimento in un modo veramente poco comune. Gli chiesi che mi facesse portare diversi bastoni della lunghezza di due piedi e della grossezza di una comune canna da passeggio, per cui Sua Maestà ordinò all'Intendente delle Foreste di dare ordini in proposito e il mattino dopo vidi arrivare sei boscaioli con molti carri tirati da otto cavalli ciascuno. Presi nove di quei bastoni e li fissai sul terreno, in quadrato, su uno spazio di due piedi e mezzo.

    Ne presi altri quattro e li legai orizzontali ad ogni angolo, a circa due piedi da terra; poi legai il mio fazzoletto ai nove bastoni verticali, e lo misi in tensione da ogni lato così da farlo diventar teso come la pelle di un tamburo; mentre i quattro bastoni che erano paralleli al terreno e che sporgevano per sei pollici circa al di sopra del fazzoletto facevano da parapetto da ogni lato. Ultimato il mio lavoro, pregai l'Imperatore di permettere che ventiquattro dei suoi migliori cavalieri venissero ad esercitarsi su questo piano. Sua Maestà approvò e io presi in mano i suoi cavalieri, uno alla volta, già a cavallo ed armati, e gli ufficiali competenti che dovevano farli esercitare. Una volta che furono posati sul mio fazzoletto, si misero in ordine, disponendosi in due gruppi. Quindi eseguirono finte scaramucce, scoccarono frecce spuntate, sguainarono le spade, finsero delle fughe e degli inseguimenti, degli attacchi e delle ritirate, e in breve diedero prova della miglior disciplina militare che avessi mai vista. I bastoni orizzontali proteggevano i loro cavalli dal cadere dall'impalcatura e L’Imperatore fu tanto compiaciuto, che ordinò che questo spettacolo fosse ripreso per diversi giorni e una volta si compiacque di esser portato sul campo per dare egli stesso i comandi ai suoi cavalieri. Con grandi difficoltà riuscì perfino a persuadere l’Imperatrice a lasciarsi tenere sul palmo della mia mano, con tutta la portantina, a due braccia dall'impalcatura affinché potesse godere la visione completa dello spettando.

    Per mia buona sorte, durante questi avvenimenti non occorsero incidenti. Soltanto una volta un cavallo focoso, che apparteneva a uno dei capitani, scalpitando fece un buco con lo zoccolo nel mio fazzoletto, e scivolandovi dentro, rovesciò se stesso e il suo cavaliere. E io immediatamente mi resi disponibile per aiutarli entrambi; mentre con una mano coprivo il buco, con l'altra deponevo sul terreno il resto della compagnia. Il cavallo caduto si ferì, ma, il cavaliere non si fece nulla. Sistemai il fazzoletto alla meglio, ma non mi fidai più altre della sua resistenza ad imprese così rischiose.

    Dopo alcuni giorni prima che fossi messo in libertà, mentre intrattenevo la Corte con gli spettacoli che vi ho descritto, arrivò una staffetta svelta, per avvertire Sua Maestà che alcuni dei suoi sudditi, cavalcando nei paraggi del luogo dove ero stato trovato, avevano visto una gran massa nera posata sul terreno di forma assai strana, con gli orli estesi in tondo, della larghezza della stanza da letto di Sua Maestà ed elevata nella parte centrale all'altezza d'un uomo. Non si trattava di un essere vivente, come dapprima avevano temuto, giacché se ne stava immobile sull'erba e parecchi di loro ne avevano fatto il giro diverse volte; quindi, salendo uno sulle spalle dell'altro, ne avevano raggiunto la cima, che era piatta ed uniforme, e camminandovi sopra avevano capito che doveva essere vuota di dentro. Il loro modesto parere era, aggiunse la staffetta, che potesse trattarsi di qualche cosa appartenente all'Uomo-Montagna, e, se Sua Maestà lo permetteva, si sarebbero occupati di farla trasportare con l'aiuto di cinque cavalli. Compresi immediatamente di cosa si trattasse, e il saperlo mi riempì di gioia. Evidentemente, appena raggiunta la spiaggia dopo il naufragio, ancor prima di arrivare al luogo dove poi mi addormentai, il mio cappello, che avevo tenuto legato alla testa con un laccio quando remavo, e che era rimasto al suo posto per tutto il tempo in cui avevo nuotato, era caduto, senza che in quella confusione me ne accorgessi, nel tempo in cui toccavo terra.

     Suppongo che il laccio si fosse spezzato per qualche causa che mi è sconosciuta; ma allora ero convinto che il mio cappello si fosse perduto in mare. Pregai Sua Maestà Imperiale di dare ordini perché mi fosse portato quanto prima, e descrissi l'uso al quale era destinato. Il giorno successivo i carrettieri arrivarono con il mio cappello, che non era però in condizioni molto buone. Per poterlo trasportare, avevano dovuto fare due buchi nella falda, a un dito e mezzo dall'orlo, poi in questi buchi avevano fissato due uncini che erano legati, per mezzo di lunghe corde, ai finimenti dei cavalli, è così che il mio povero cappello fu trascinato per più di mezzo miglio; fortunatamente il terreno in quel paese è straordinariamente soffice e piano, così che aveva subito meno danni possibile meglio di quanto mi aspettassi. Alcuni giorni dopo questo fatto, L'Imperatore, dopo aver ordinato che parte del suo esercito accampato dentro e attorno alla capitale si tenesse pronto, ebbe il capriccio di uno svago veramente particolare. Mi pregò di piantarmi con le gambe aperte il più possibile, come un colosso; poi ordinò al suo Generale, che era un condottiero di vecchia esperienza e un mio grande protettore, di condurre le truppe in ordine serrato e di farle marciare sotto l'arco delle mie gambe, con bandiere spiegate, tamburi battenti e picche brandite. Questo esercito era formato da circa tremila fanti e mille cavalieri. Sua Maestà diede ordini, sotto pena capitale, che ogni soldato in marcia dovesse osservare le più strette norme del rispetto verso la mia persona, che però non impedì a qualche giovane ufficiale di volgere il suo sguardo curioso, transitando sotto di me, con curiosità verso i mie pantaloni che a quel tempo, erano così malridotti da poter fornire argomento alle risa e alla meraviglia.

    Avevo inviato numerosi rapporti e tante petizioni per chiedere la mia libertà, che alla fine Sua Maestà accennò a questa faccenda, prima nel suo gabinetto privato, poi in pieno consiglio. Nessuno fece opposizioni, eccetto Skyresh Bolgolam, che provava piacere ad essere mio mortale nemico senza una ragione. Nondimeno la decisione fu approvata dall’ intero consiglio e confermata dall'Imperatore. Il ministro mio nemico era un certo Galbert, o Ammiraglio del Regno, una persona molto addentro nei segreti del suo sovrano e molto abile negli affari, ma di un carattere arcigno e bisbetico. Però dovette alla fine acconsentire alla mia liberazione; ma richiese che gli articoli e le condizioni alle quali dovevo esser posto in libertà, e che dovevo giurare di osservare, avrebbero dovuto esser dettate da Lui stesso. Questi articoli mi furono parlati da Skyresh Bolgolam in persona, seguito da due sottosegretari e da parecchi alti burocrati. Quando furono letti, mi chiese di giurarne l'osservanza, prima secondo gli usi del mio paese, poi secondo le loro leggi. Il giuramento consisteva nel tenermi il piede destro con la mano sinistra, nello stesso momento posare il dito medio della mia mano destra sulla cima della testa e il pollice sulla punta dell'orecchio destro. Ma immagino che sarete curiosi di aver qualche idea dello stile e del modo di esprimersi particolare di questo popolo, e di conoscere gli articoli della mia liberazione, ho fatto nel modo più esatto di cui sono stato capace l'intera traduzione, parola per parola, del documento completo.

    Golbasto Momaren Evlamc Gurdilo She fizz Mully Ully Gue, potentissimo Imperatore di Lilliput, delizia e terrore dell'universo; i cui domini si estendono per cinquemila blustrugs (vuol dire circa dodici miglia di circonferenza) fino all'estremità del mondo; sovrano di tutti i sovrani; più alto dei figli degli uomini; i cui piedi posano sul centro della terra; la cui testa tocca il sole; che con un sol cenno del capo fa piegare le ginocchia ai principi della terra; amabile come la primavera, piacevole come l'estate, fecondo come l'autunno, temibile come l'inverno.

    La Sua Eccelsa Maestà propone all'Uomo-Montagna, giunto ultimamente nei nostri domini celesti, i seguenti articoli, che egli si impegnerà di osservare con solenne giuramento.

    I. L'Uomo-Montagna non partirà dai nostri domini senza il nostro permesso munito del nostro sigillo.

    II. Egli non si permetterà di entrare nella nostra metropoli senza nostro ordine esplicito, nel qual caso gli abitanti saranno avvertiti, due ore prima, di tenersi chiusi in casa.

    III. Il suddetto Uomo-Montagna limiterà le sue passeggiate alle nostre strade principali, e si asterrà dal passeggiare e dello sdraiarsi sui prati e nei campi di grano.

    IV. Passeggiando nelle dette strade, egli avrà la massima cura di non calpestare i nostri amati sudditi, i loro cavalli o i loro carri; e di non prendere in mano alcuno dei nostri amati sudditi, se non dietro loro formale richiesta.

    V. Se una staffetta veloce dovesse consegnare un dispaccio urgente, l'Uomo-Montagna sarebbe obbligato a trasportare in tasca messaggero e cavallo, per un viaggio di sei giorni, una volta a ogni luna, e riportarlo indietro, se richiesto, sano e salvo alla nostra Imperiale presenza.

    VI. Egli sarà nostro alleato contro i nostri nemici dell'isola di Blefuseu, e farà tutto il possibile per distruggere la Botta che stanno preparando per invadere le nostre coste.

    VII. Detto Uomo-Montagna, nelle sue ore di riposo, aiuterà i nostri operai e li assisterà nel sollevare quelle grosse pietre che servono a completare il muro del nostro parco principale ed altri nostri edifici imperiali.

    VIII. Il suddetto Uomo-Montagna ci consegnerà, in due lune di tempo, una descrizione esatta del circuito dei nostri domini, accompagnata dal calcolo dei suoi passi intorno all'isola.

    Infine, dopo aver fatto solenne giuramento di osservare tutti gli articoli di cui sopra, il suddetto Uomo-Montagna avrà diritto ad una provvista giornaliera di viveri e bevande sufficiente al sostentamento di 1728 dei nostri sudditi e avrà libero accesso alla nostra Persona Imperiale e altre testimonianze del nostro favore.

    Dato nel nostro Palazzo di Belfaborac, nel dodicesimo giorno della novantunesima luna del nostro regno.

    Giurai e firmai questi articoli con grandissima gioia, sebbene alcuni di essi non fossero così onorevoli come avrei desiderato, e ciò per la malizia dell'Alto Ammiraglio Skyresh Bolgolam. Le mie catene vennero sciolte immediatamente e mi trovai in piena libertà. L'Imperatore stesso volle farmi l'onore di presenziare alla cerimonia della mia liberazione, e alla fine mi prostrai ai suoi piedi in segno di riconoscenza; ma egli mi ordinò di rialzarmi e, dopo molte graziose espressioni che non ripeterò per non essere accusato di vanità, aggiunse che sperava che mi sarei mostrato servizievole e degno dei favori che mi aveva già concessi e che avrebbe potuto concedermi in seguito.

    Il lettore avrà osservato che, nell'ultimo articolo dell'atto della mia liberazione, l'Imperatore aveva convenuto di passarmi una quantità di viveri e di bevande che avrebbe potuto essere sufficiente per 1728 Lillipuziani. Qualche tempo dopo, chiedendo ad un cortigiano mio amico come era stato calcolato quel numero, seppi che i matematici di Sua Maestà, dopo aver calcolato la mia altezza per mezzo del rapportatore e aver trovato che essa superava la loro nella proporzione di dodici a uno, erano giunti alla conclusione che il mio corpo potesse contenere 1728 dei loro e, di conseguenza, avrebbe richiesto tanto cibo quanto ne sarebbe stato necessario per un ugual numero di Lillipuziani.

    Da tutto questo potete farvi un’idea dell’acume di quel popolo e dell’economia saggia e prudente di un così potente sovrano.

    La prima cosa che chiesi dopo aver ottenuto la

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