Il malefico Gelo delle Streghe: Le Croniche del Malalbero
Di Cibbik
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Info su questo ebook
Sarà costretto, malgrado la sua innata fifa, ad andar via di casa per affrontare insieme agli amici Max e Fischietti un vero e proprio incubo. La strada verso la salvezza non si rivelerà facile, perché non avendo poteri magici dovrà vedersela con un’invasione di zombie, famelici mostri, un giudice pazzo e una banda di briganti.
Tuttavia un altro “piccolo” impedimento gli complicherà la vita: l'amuleto appartiene alle Janare, pericolosissime streghe che rapiscono bambini. E pare che lo rivogliano indietro...
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Il malefico Gelo delle Streghe - Cibbik
CibbiK
Il malefico Gelo delle Streghe
Le croniche del Malalbero
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Sommario
Le tombe violate
Fulmini e saette
Lo studio di papà Antonio
Le zingarelle
Ombre
Il tatuaggio
La parola misteriosa
Il marchio della strega
I Maledettissimi
A zig zag nello smog
Il Professor Altero
Al campo degli zingari
Aldia
In viaggio coi cadaveri
Il Giudice Freisler
Il Sogno
In viaggio sul Torpedone Volante
Fara
Due cipressi e una falce
La Manolonga
La Smorfia
Necrofundiis
Il Sospiro della Janara
Pioggia Mortale
La vecchia Amalbertina
L’Ordine del Sacro Baluardo
Fuori dal buco
Odore di casa
Le tombe violate
1
Il giro di perlustrazione era quasi concluso, l’ultimo prima della chiusura al pubblico. Pala in spalla, Lara passò in rassegna le porte d’ingresso delle cappelle cimiteriali. Un folto mazzo di chiavi, grosse e arrugginite, le penzolava al collo emettendo un monotono tintinnio metallico.
Si infilò in un viale ombreggiato, che si inerpicava sulla collina tra filari di cipressi, in direzione dell’area monumentale del camposanto, dove riposavano le più importanti famiglie nobiliari.
Le tombe erano tutte rivestite di marmo bianco, verde, rosso o nero. Statue di varie dimensioni e portavasi in rame rifiniti con foglie di edera ornavano gli ingressi. A seconda della famiglia cambiava lo stile architettonico. Alcune, posizionate su balze del terreno, erano cinte da balaustre sormontate da pignoni di pietra. Ricordavano i templi dell’antica Grecia con piccoli colonnati - che giravano intorno alla struttura - e l’ingresso sovrastato da un frontone.
Altre richiamavano lo svettante stile gotico e il romanico. Quasi tutte erano racchiuse in un piccolo giardino impreziosito da folti cespugli di margherite e crisantemi.
Dopo aver percorso uno dei lunghi viali, costeggiati da serpentoni verdi di bosso, Lara si diresse verso la zona delle cripte al centro del cimitero. Dove da secoli, si accatastavano i teschi orfani di famiglia in lugubri piramidi. Non avendo più un parente che venisse a trovarli, la Confraternita del Buon Riposo si dedicava alla loro cura. Si trattava di un gruppo di pie donne che, di tanto in tanto, organizzava giornate di lucidatura dei crani.
2
Il vecchio Liberius era il becchino del paese. Sedeva su una panchina all’ombra di un leccio. Leggeva l’ Araldo del Meriggio con cupidigia tale da non accorgersi della nipote, che gli stava transitando davanti con passo ciondolante. I lampioni alimentati a gas cimiteriale si accesero tutti insieme. Segno che da lì a qualche minuto il sole si sarebbe nascosto dietro la collina.
Lara si fermò e chiese: <
Il vecchio non le prestò attenzione. Si aggiustò gli occhiali sul naso e continuò con i suoi occhi piccoli e azzurri a divorare riga per riga le pagine del giornale. Aveva superato da un po’ la mezza età. Era un uomo di grossa mole dal passo lento con due mani ruvide e callose, portava i radi capelli sottili, ordinati con una scriminatura a destra. Le unghie erano diventate gialle per i tanti anni trascorsi a fumare.
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3
Liberius rimase in silenzio per tutta la durata della cena. Poi si alzò senza aprire bocca e affondò nella poltrona dallo schienale alto e imbottito. Posta davanti al camino dove giacevano i residui di legna bruciati nell’ultimo inverno.
Il vecchio non aveva un buon carattere. Spesso poteva sembrare brusco ed andava con facilità in escandescenze, ma non era mai violento. Nonostante fosse una persona poco loquace e a cui piaceva stare per conto suo, sapeva essere gentile e capace di gesti di profonda umanità. Aveva sempre parole di conforto per i parenti del defunto, ma mai scontate e melense: piuttosto preferiva rimanere in silenzio.
La pendola sul muro segnava le 9.27 e, allo scoccare del ventottesimo minuto, un tuono ruppe il pesante silenzio nel soggiorno e annunciò l’arrivo del temporale.
Lara si attardò nello sbrigare le ultime faccende domestiche. Sparecchiò la tavola e lavò i piatti: un’incombenza di cui si occupava sempre il nonno, ma non quella sera. Chissà cosa gli passa per la testa
pensò la ragazza. Il comportamento gli risultò inconsueto: era dal pomeriggio che il vecchio non apriva bocca. Salvo qualche grugnito, alternato a cenni del capo in segno di assenso o diniego.
Passando vicino alla madia, scorse il giornale che il nonno aveva letto poche ore prima e ne sfogliò alcune pagine. Sempre le solite notizie
sbuffò. Poi l’occhio cadde su un piccolo trafiletto di cronaca nera in fondo alla pagina sulla destra.
Profanato il cimitero di Castelninfa
Si infittisce il mistero delle antiche tombe profanate. L’ultima, la quinta in ordine di tempo, è stata trovata aperta ieri mattina dal custode nel piccolo cimitero di Castelninfa. Come negli altri casi, la lapide è stata spaccata in più parti, mentre la bara non è stata toccata. La tomba monumentale apparteneva alla famiglia Bulbius, un’antica casata nobiliare ormai estinta da più di un secolo. Vandalismi o negromanzia? Questa la domanda a cui gli inquirenti dovranno dar risposta, ma brancolano, come sempre, nel buio. CB
A Lara sembrò strano l’interesse del nonno per una notizia del genere. Gli era capitato spesso di scovare intrusi o vandali nel cimitero e non aveva mai avuto problemi a dar loro una lezione indimenticabile, prima di cacciarli.
Fuori la bufera infuriava e la pioggia battente si infrangeva sui vetri delle finestre. Si susseguirono lampi e tuoni che, a intermittenza, illuminavano tombe e cappelle cimiteriali, distorcendone le sagome.
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Fulmini e saette
1
Gli esploratori del gruppo scout Roma 168 piantarono le tende a quaranta metri l’una dall’altra. In una radura al limitare di un bosco di querce e cipressi, vicino a un monastero di frati trappisti. Si trovavano ad Orte: un paese ad una sessantina di chilometri da Roma. Ma quel sabato notte di fine ottobre era come se le tende distassero a venti chilometri l’una dall’altra, perché un muro di pioggia e vento impetuoso dilatava a dismisura lo spazio.
Gli alberi ondeggiavano furiosi e cozzavano l’uno contro l’altro. I rami, come lunghe braccia, si sfregavano e schiaffeggiavano l’aria con violenza, facendo risuonare tutto intorno un sinistro lamento di foglie.
La tenda da otto della squadriglia Lupi era la più distanziata rispetto alle altre: al punto giusto per tenerla al riparo dalle orecchie indiscrete dei capi del Riparto maschile.
Lo stratagemma si rivelò inutile, perché anche un udito molto sviluppato avrebbe issato bandiera bianca, di fronte all’ululato del vento e allo sciame di fulmini che illuminava la notte.
I tiranti della tenda resistevano al vento e vibravano come corde di violino. Impedivano al sovratelo impermeabile di volare via in cielo come un parapendio. Comprimendosi e gonfiandosi con sbuffi e scricchiolii lasciava intravedere di tanto in tanto il catino: il cuore della tenda dove si dormiva.
Lo spazio interno era un quadrato suddiviso in due file di sacchi a pelo attraversate da un passaggio centrale, che collegava i due ingressi speculari. Dove i ragazzi stipavano gli scarponi nelle uscite invernali (in estate si tenevano fuori).
Il grosso bruco vibrante steso in un angolo era il caposquadriglia Rocco Sambucci, detto Rocky. Fu il primo e unico a crollare nelle braccia di Morfeo. Dal sacco a pelo verde emergeva solo la capigliatura folta scura. Era un ragazzo robusto con larghe narici e una fossetta sul mento acuminato.
Vicino a lui, steso a pancia in giù, Fischietti divorava con attenzione il libro Monete d’oro antiche
, aiutandosi con la torcia. Il ragazzo, dai capelli e gli occhi neri, portava un paio di occhiali dalle lenti spesse, come fondi di bottiglia. Aveva labbra carnose e un grosso neo vicino alla bocca, sul lato sinistro.
Al centro della tenda, quattro ragazzi tra i 13 e i 14 anni giocavano a briscola alla luce di una torcia. Era l’unica alternativa per trascorrere il tempo, perché la bufera non avrebbe consentito escursioni notturne nelle altre tende.
Andrea de Ubertis, detto Ubbo, era di mano. Alto e slanciato per la sua età, presentava un fisico da atleta, perché aveva praticato diversi sport. Piaceva molto alle ragazze, attirate dalla sua capigliatura bionda e dagli occhi verdi profondi, pervasi tuttavia da un velo di tristezza che acchiappava
.
Alla sua destra sedeva Hans Brugger. Il nome, gli occhi azzurri e il suo accento tedesco suggerivano origini altoatesine (<
In squadra con Ubbo giocava Miki Mich, un ragazzo dalla carnagione pallida e i capelli che viravano al rossiccio. Per un misterioso scherzo della genetica il suo occhio destro era di un verde chiaro, mentre il sinistro era più scuro: quasi marrone. Dipendeva anche dalla luce. In quel momento non sapeva quale carta scartare. Era sempre indeciso e non intraprendeva mai nulla prima di averci rimuginato mille volte. Il suo cervello assomigliava alla bocca di una paciosa mucca al pascolo in un prato di montagna.
Chiudeva il cerchio Max Nitiffi, migliore amico e vicino di casa di Miki. Alto più o meno come Ubbo, ma più muscoloso. Un ricciolino, la cui faccia da schiaffi brillava anche nella penombra. Sbuffava impaziente e dardeggiava con gli occhi Hans, dopo ogni sua mossa.
Tutti e quattro entrarono nel gruppo scout a quasi otto anni come lupetti e, non appena compiuti gli undici anni, passarono
al Riparto maschile.
2
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Hans e Max attesero le loro mosse, scambiandosi veloci occhiate di complicità.
<<È alta?>> storse la bocca.
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Rocky si girò nel sacco a pelo ed emise una sonora scoreggia. <
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Hans impallidì. Max fu colpito da una paresi. Prima restò a bocca aperta e poi gettò con rabbia le carte a terra. <
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3
Il vento e la pioggia fecero ondeggiare la tenda e scricchiolare i pali interni. Rocky si rotolò nel giaciglio senza svegliarsi, emettendo un possente rutto. L’odore d’erba umida schiacciata, mista a gomma del catino e puzza di piedi, saturava l’aria.
<sovratelo regga>> osservò Miki puntando la torcia in alto sulla stoffa della tenda.
<> lo assicurò Max <Bambinone (così chiamavano la tenda in modo affettuoso) non ci ha mai tradito>>.
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<picchettone!>> aggiunse Ubbo. Si riferiva ad una pesante spranga di ferro cilindrica lunga un metro e larga un centimetro di diametro. L’aveva trovata Max in una uscita dell’anno precedente.
Un lampo seguito da un boato interruppe la conversazione. Tutti sobbalzarono. Il tessuto del sovratelo vibrava. Hans fece scorrere la cerniera dell’ingresso e si azzardò a scrutare nella notte.
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<picchettone attira i fulmini?>> deglutì Miki, ignorando il sudtirolese che in quel momento era impegnato ad asciugarsi il viso col fazzolettone.
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<picchettone. Svegliamo Rocky>> suggerì Miki.
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<picchettone non è tanto lungo... e poi ci sarà una probabilità su un milione che venga colpito>> osservò, cercando supporto in Fischietti e negli altri squadriglieri che, in risposta, scrollarono il capo in segno di disapprovazione.
Miki capì di non avere scelta. Mi potevo fare i fatti miei. Accidenti a me
imprecò mentalmente. Prese in fretta il maglione blu, il cappellone grigio e il suo poncho verde militare, torcia, mazzetta e scarponi.
Ubbo e Hans fecero scorrere le cerniere lampo per agevolare l’uscita dei loro compagni che si gettarono in balia di Giove Pluvio. E quella sera doveva essere particolarmente incavolato.
4
Il terreno fangoso cedeva sotto i passi dei due scout. La pioggia bagnò loro i visi, formando rivoli che scorrevano sul collo insinuandosi sotto il maglione. Come un fiume carsico che sbuca dalle profondità della terra per poi sparire di nuovo nel sottosuolo.
Girando intorno alla tenda, Max e Miki controllarono che tutti i picchetti fossero al loro posto e che il sovratelo non toccasse il catino, altrimenti l’acqua sarebbe penetrata all’interno della tenda.
Aiutandosi con le torce sistemarono nel terreno due picchetti e tesero tre tiranti. Arrivarono al picchettone che reggeva l’angolo della tenda. Lo afferrarono a quattro mani come se volessero estrarre la Spada nella Roccia. Come due novelli Re Artù, iniziarono a tirare con le torce in bocca. Dopo una resistenza iniziale, alla fine cedette e si sfilò.
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Il vento forte gonfiò il sovratelo. Si contorceva e faceva schioccare il tirante come una frusta, strappando il picchetto dal terreno zuppo. Più Max tentava di fissarlo, più veniva via. Non volle arrendersi e con rabbia infilò il manico di legno della mazzetta nell’occhiello del tirante e lo spinse con forza giù nel terreno fino a incastrarlo.
Un lampo e un poi un boato piombarono dal cielo. L’aria circostante vibrò e Max cadde a terra. La luce fioca della torcia si perse nell’acqua fangosa.
Tremò per lo spavento, ma una volta tornato in sé la recuperò a tastoni. Si alzò e si diresse con passo veloce verso l’ingresso della tenda. Scorse affacciati Hans, Fischietti e Ubbo agitare le torce come fari della contraerea durante un bombardamento.
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<picchettone dal terreno e ho risistemato anche gli altri picchetti e tiranti che si erano allentati>> Max estrasse dallo zaino un asciugamano e se lo passò scartavetrandosi il viso.
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In un attimo tutti e quattro si trovarono fuori nella bufera, mentre Rocco era rimasto inconsapevole a guardia del Bambinone.
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Giunsero all’angolo della tenda, nel posto in cui avevano espiantato il picchettone. La mazzetta infilata per il manico ancora resisteva nel terreno fangoso, nonostante gli strappi del sovratelo. La canalina era colma e aveva iniziato a esondare.
Max guidava il gruppo con passo svelto. Deve essere qui
pensò. Se doveva liberarsi la vescica avrebbe potuto farlo anche sulla tenda.
Il chic chac degli scarponi nell’acquitrino si sommava al rumore dei passi degli altri ragazzi. I calzettoni di lana zuppi gli congelavano i piedi. Le ginocchia nude, coperte a malapena dal poncho, iniziarono a lanciare qualche segnale di fastidio per tutta quell’umidità. Le flebili luci delle torce trapelavano a malapena tra le gocce di pioggia che riverberavano in un tetro luccichio.
Dalle altre tende, immerse nel buio e nel sonno, non giungevano segnali di vita.
Max si arrestò all’improvviso e cominciò a chiamare Miki. Gli altri fecero lo stesso, ma non giunse alcuna risposta. Magari si è rifugiato sotto un albero
cercò di calmarsi con un ampio sospiro Deve essersi spaventato...
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Max puntò la torcia intorno prestando attenzione al più piccolo movimento. In realtà tutto si muoveva. Di fronte a lui, ad una quarantina di passi circa, i cipressi del bosco gettavano un’ombra ancora più scura sul prato. La pioggia copriva ogni rumore ed era impossibile avvertire lamenti o richieste d’aiuto.
All’improvviso un tonfo dietro alle spalle catturò la sua attenzione.
Era Ubbo.
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<<È il picchettone>> urlò Max <
Un lampo rischiarò il cielo, squarciando per un istante il velo di tenebra e pioggia.
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Si portarono sul posto indicato da Fischietti. Il buio regnava ovunque. Si guardarono attorno, ma non riuscirono a scorgere nessun movimento. Eccetto quello dei cipressi che si piegavano con moviementi tumultuosi verso di loro come se li volessero tenere lontani.
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Una sagoma nera era riversa faccia a terra. Vicino a lui giaceva il cappellone scout colmo d’acqua come una bacinella. La torcia era immersa per metà in una pozzanghera ed emetteva una morente luce fioca.
Max affidò la sua torcia a Ubbo. <
<<È ancora vivo?>> chiese Ubbo. Temeva che con tutta quell’acqua fosse affogato.
<<È svenuto>> rispose Max.
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Nel pianoro rimbombò un’imprecazione corale, sovrastando nell’etere un tuono. Anche gli alberi diedero il loro assenso inchinandosi verso di loro.
Lo studio di papà Antonio
1
Di quella notte di venti giorni prima Miki conservava solo un vago e umido ricordo. Cosa avesse fatto, dopo aver lasciato Max a fissare l’angolo del sovratelo, era stato chiuso in una cassaforte, in un remoto angolo della testa. Di cui non rammentava la combinazione.
Era consapevole di essersi svegliato in un comodo letto, circondato dai capi. Erano presenti anche i suoi compagni, avvolti in asciugamani bianchi come fantasmi, e Rocky che lo fissava con sguardo truce.
Del mentre
, solo buio totale.
Ancora rimbombava nelle sue orecchie il cazziatone di papà Antonio, mamma Enza e delle zie (il che fu anche peggio), che si unirono in coro intonando un canto gregoriano di rimproveri.
Rimase tre giorni in ospedale per accertamenti e appena tornato a casa il medico di famiglia, il dottor Caciotta, prescrisse una serie d’analisi più o meno invasive.
Miki Mich abitava a Roma in un quartiere di palazzine basse anni Trenta di tre o quattro piani al massimo; le une attaccate alle altre, a formare lunghi serpentoni che costeggiavano le strade.
Al piano terra vivevano i signori Gennaro e Cesira Cervello. Due pensionati marchigiani da anni trapiantati a Roma, il cui unico passatempo era litigare con gli inquilini del piano superiore. Gualtiero e Osvalda Malagrida, della stessa età dei Cervello, erano cantanti d’opera in pensione. Insegnavano a studenti, perlopiù sudcoreani, canto e pianoforte, inondando per dodici ore al giorno il palazzo di un sottofondo musicale noioso e ripetitivo.
OH… (do)… OH… (la)… OH… (re)… OH… (mi)… OH… (sol)… Dumdududum (pianoforte).
In estate, con le finestre aperte, era anche peggio, perché quel noioso motivetto si diffondeva lungo tutta la strada.
Salendo di piano vivevano le sorelle Crocifissa e Adua Raspa. Le sorelle di nonna Mariuccia (pace all’anima sua), madre di mamma Enza, e quindi