Di tufo e di altre storie
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Di tufo e di altre storie - Giovanna Avignoni
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Quindici scalini
Al quindici di Via dei gelsomini c’è una scala del medesimo numero di gradini del civico.
Pare sia lì da sempre, testimone di innumerevoli discese e risalite.
È ripida e ogni scalino presenta delle sbeccature dovute al tempo o al passaggio incauto di chi nei secoli, più di tre, se ne è servito per accedere all’unico appartamento: due stanze e un bagno ricavato, solo di recente, nello spazio di un minuscolo balcone.
In particolare, l’ultimo gradino, essendo più ampio, serve anche da pianerottolo e ha il marmo consumato dal passaggio di piedi stanchi, fermi per qualche istante per riprendere fiato con la scusa di cercare la chiave per aprire il portoncino a due ante di un marrone sbiadito.
Su quel rettangolo di pietra antica si sono succeduti i passi di gente semplice, abituata a lavorare la terra con le mani e a raccoglierne i frutti, benedicendo o maledicendo il cielo, con la medesima intensità della voce, a seconda della corposità del raccolto.
C’è una vecchia macchia rossastra. Si trova proprio a ridosso della porta. Segno indelebile di un fiasco di vino apertosi prima del tempo.
Ho salito quelle scale quando ancora non ero nato, ascoltando l’ansimare di mia madre che stentava ad arrivare al pianerottolo man mano che i mesi rendevano più faticosa l’arrampicata.
Si era chiusa dentro, inserendo il catenaccio e dando più mandate di chiave, approfittando di averle tra le mani, cosa rara, e sperando che ciò fosse sufficiente a bloccare la furia di chi avrebbe trovato l’accesso sbarrato.
Non possedeva un mazzo di chiavi.
Mio padre, con la scusa che in paese si conoscevano tutti e che in casa non c’era nulla da rubare, non le aveva mai dato una copia che la facesse sentire padrona della sua casa.
Quando usciva per le piccole commissioni, pertanto, accostava i battenti, senza chiudere la porta, e scendeva gli scalini che la separavano dal mondo esterno.
Non era mai riuscita a integrarsi in quell’ambiente tanto onesto da permetterle di lasciare la porta aperta ma altrettanto chiuso e ostile da non guardare di buon occhio chiunque non fosse del luogo.
Era da tutti considerata la straniera, colei che aveva rubato il posto a una brava ragazza del paese che non si era più potuta sposare.
Aveva paura.
Tentava, però, di dissiparla ascoltando musica a volume basso per non disturbare i vicini che riposavano negli appartamenti confinanti.
Le spesse mura di tufo avrebbero nascosto ogni suono ma il caldo insopportabile di quell’estate costringeva tutti a tenere le imposte aperte.
Proprio per quel motivo, la voce di mio padre risuonò in piena notte, scendendo uno a uno i quindici scalini, fino ad arrivare nel vicolo dove le finestre aperte divennero orecchie scavate nel tufo.
Era calma e profonda e supplicava mia madre di aprirle la porta perché lui non trovava più le chiavi.
«Non capisco, eppure le avevo prese. Devono essermi cadute sul prato, mentre giocavo a pallone con i miei amici. Apreme, su. Che c’hai paura?», continuava mio padre, spazientito, cambiando sia la pronuncia che il tono della voce.
«Apreme t’ho detto. Non me fa’strillà. Che voi che me sente tutto er paese?», continuava mio padre usando il dialetto come se, in quel modo, le sue parole potessero essere assorbite dalle mura di tufo avvezze a quell’idioma. «Apreme ‘sta cazzo de porta. Puttana! Apreme!»
Con le spalle sull’imposta, nel vano tentativo di renderla ancora più robusta con il proprio esiguo peso, mia madre sentiva i colpi attraversare il legno fragile e toccarle la pelle.
Un brivido di terrore la scosse e la immobilizzò, seppur per pochi attimi.
Temeva la furia di quell’uomo tanto bello ma terribile.
Piccoli sprazzi di ricordi attraversarono i suoi pensieri e si ritrovò per qualche istante tra le braccia di sua madre.
«Ti supplico, ascoltami almeno questa volta. Non partire, non mi fido di quello straniero», le labbra di sua madre, seppur tese per il dolore, erano belle e tentatrici quanto quelle carnose di chi la stava per portare via.
Avrebbe voluto dirle che il suo posto era lì, che sarebbe rimasta per sempre con lei come le aveva giurato quando era una bimba.
L’amore verso quell’uomo, però, era più forte.
«Mamma, ci amiamo. Non ti basta? Vedrai che la mia sarà una bellissima storia d’amore. Lui ha una casa e lavora la terra che, un tempo, era di suo padre. Non andrò a vivere sotto i ponti, stai tranquilla», ribatteva mia madre pensando ai capelli neri e profumati del ragazzo che la stava aspettando sotto casa.
Ma la terra è fatica e diventa generosa con chi la sa amare e, ben presto, quel fazzoletto di terreno divenne arido perché mio padre, anziché bagnare le zolle assetate, annaffiava di vino la propria bocca.
La sensazione che le mani di sua madre le accarezzassero la pelle, svanì in un istante, sostituita da un colpo più potente che sfondò la porta e ruppe il silenzio del vicolo.
Sembrava aver ritrovato la tranquillità.
La guardava senza parlare, con occhi fermi e un sorriso nascosto dalla barba incolta che lo rendeva ancora più attraente del solito.
«Ecco dove stavano