Fame di guerra. La cucina del poco e del senza
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Fame di guerra. La cucina del poco e del senza - Simonetta Simonetti
9788899735203
Premessa
Per quanto appartenenti alla stessa razza umana, motivi di origine antropica, storica e culturale rendono uomini e donne diversi tra loro. Fin dalla preistoria, infatti, in situazione di difficile sopravvivenza e qualità di vita (durante le guerre, pestilenze, dominazioni, sconvolgimenti ambientali ecc.) l’ottimizzazione delle diverse attitudini, dovute alle differenze biologiche tra maschi e femmine, è stato il pilastro della prosecuzione della vita umana.
Essendo la naturale custode della prole fin dal concepimento, la femmina ha sviluppato le sue capacità migliori soprattutto verso tutti quei fattori, piccoli e grandi, necessari non solo alla sopravvivenza della famiglia, ma anche al suo benessere.
La conoscenza empirica delle erbe e dell’uso curativo di alcuni prodotti alimentari al di là delle loro proprietà nutritive diventò patrimonio dell’universo femminile, custodito gelosamente e tramandato oralmente da donna a donna, escludendo il mondo maschile da una competenza che venne ritenuta pericolosa e temuta.
Pur essendo dotate di tutte le competenze utili alla raccolta, conservazione e preparazione degli alimenti, le donne vennero tenute fuori dalle cucine dei castelli e delle corti; escluse e relegate al ruolo di inservienti, non ebbero il permesso di avvicinarsi alla preparazione delle vivande. Eppure all’interno delle loro case esse cucinavano, riuscivano a fare i miracoli con quello che avevano a disposizione e gestivano da padrone i bisogni nutritivi della famiglia.
Ritenute avvelenatrici e intriganti, cacciate come streghe per le loro conoscenze che le rendevano arcane manufattrici di venefiche pozioni, continuarono ad affinare le loro arti culinarie nel privato domestico e lasciarono ai cuochi la padronanza dell’arte culinaria.
Durante i tempi di guerra e di sconvolgimento sociale il genere femminile si ritrovò a portare avanti compiti e ad assumere ruoli estranei fino ad allora, negati dall’ottusità delle menti che detenevano il potere. Tenute lontane dall’istruzione o, per le più fortunate, ammesse a una educazione selettiva e parziale, cominciarono gradatamente a prendere consapevolezza delle loro identità fuori di casa; al di là del cerchio tracciato intorno a loro si unirono le une alle altre, diventando un esercito numeroso e determinato.
Mantennero ben stretti i compiti atavici che la storia aveva loro assegnato e ne aggiunsero altri, come quello di rendersi visibili, parlanti, pensanti. Ed ecco allora che il patrimonio collettivo tenuto con cura da altre donne entrò a far parte della loro storia individuale: una volta uscite sarebbero rientrate con molta resistenza, o non l’avrebbero fatto mai più.
Dopo la Prima guerra, che le aveva viste combattere senza armi la vita di ogni giorno, lavorare nelle fabbriche, negli uffici, nei campi cercando di tenere insieme la famiglia, ottennero l’abolizione dell’autorità maritale (1919). Poi il Regime le illuse con pseudo proposte di indipendenza, che strinsero sempre di più i confini del loro agire.
Poi la Seconda guerra, come la precedente, le rigettò fuori, ferocemente e senza rispetto alcuno. Pretese l’impossibile per un tempo lunghissimo che sembrò non avere fine.
All’inizio del ‘900 cominciarono ad uscire le prime scritture femminili anche in campo culinario: manuali di ricette scritti con garbo e una punta di leziosità, rivolti alla società borghese.
Numerose furono le riviste femminili che raggiunsero anche le donne del popolo, le operaie, le domestiche: giornali per tutte con cenni di cultura, moda, medicina e igiene e tante rubriche di corrispondenza. Una sorta di ponte che unì le italiane da ogni parte della penisola.
Migliaia di ricette, di consigli, di suggerimenti arrivarono alle case editrici da ogni parte d’Italia. Sarebbero state le donne le uniche padrone dell’arte culinaria, regine indiscusse dei pasti. Avrebbero usato il cibo come mezzo e metodo per nutrire, rasserenare, consolare, sostenere, per riportare un sorriso, per asciugare una lacrima, per rievocare un ricordo, per fingere, per sperare.
Scrivere sul cibo vuol dire aprire uno scrigno stracolmo di tesori. Il cibo ha una molteplicità di significati, relazioni e intenti comunicativi che vanno al di là del suo essere semplice nutrimento.
Fin dalla notte dei tempi il rituale che si esplica prima, durante e dopo la somministrazione di alimenti è stato considerato un’efficace strategia di rapporto interpersonale. Il cibo è cultura, ricordo, salute, storia, comunicazione, affetto, devozione, momento sacro.
Il momento della somministrazione del pasto contiene un groviglio di sensazioni collettive e personali. Nel clima di guerra, quando i bisogni individuali vengono azzerati e si deve subire l’invasione violenta del mondo privato che non ha più tempi e spazi familiari, mangiare riesce a ricostruire, seppure per la sua durata, la normalità perduta.
Nelle trincee, nelle case il pasto assume un’importanza focale indipendentemente dalla sua quantità o qualità. Una sosta momentanea, una pausa liberatoria che scarica gli animi ed è attesa con ansia.
Ogni volta che si mangia la memoria sensata si riappropria di ricordi; rivivono persone, momenti e tempi passati.
Allora un libro di ricette non è solo un insieme di alimenti e di regole per la loro preparazione: è la storia collettiva dei popoli.
Simonetta Simonetti
Introduzione: la cucina del poco e del senza
«Eravamo lontani dall'usa e getta, noi siamo quelli dell'usa e riusa».
Chi scrive appartiene a quel retaggio di generazione che aveva vissuto i tempi di guerra e, pur sentendosi così lontana da quel brutto periodo, ne aveva assorbito regole, modi di vivere e abitudini, che riviveva solo nei ricordi della famiglia.
Non si buttava via niente del cibo, non ci passava nemmeno per la mente di farlo: sarebbe stato un sacrilegio, un atto irrispettoso e così estraneo alla nostra educazione.¹
C’era un rispetto enorme per tutto quello che si metteva in tavola, dal rituale dell’apparecchiare al cucinare e alla conservazione e riutilizzo degli avanzi.
Erano lontani i tempi di guerra: sulla tavola apparecchiata c’era da mangiare per tutti, nelle botteghe gli scaffali erano pieni e non c’era più la fila fuori dei forni. A noi ragazzi del dopoguerra si prospettava un periodo di benessere. In tutti quelli che erano cresciuti in fretta durante gli anni del conflitto c’era solo una grande voglia di ricostruire cose, affetti, rapporti.
Avevo ritrovato una tessera alimentare nascosta sotto una pila di libri appoggiati sulla mensola della cucina: piena di bolli e un po’ unta se ne stava lì, testimone di storia, a ricordare il recente passato.
Zucchero, pane, olio, carne, pasta, tanti bollini che dovevano durare per un mese. Una volta finiti non si poteva prendere più niente, non importava che la famiglia fosse numerosa, i bambini tanti e affamati: la razione era quella e basta.
Colori diversi per le differenti fasce d’età, verdi per i bambini fino a otto anni, azzurre dai nove ai diciotto anni, per gli adulti grigie. Segnarono la vita di grandi e piccini per un lungo periodo, tutti gli anni della tragedia bellica e anche dopo, per altri quattro anni fino al 1949.
Il cibo quotidiano veniva distribuito da quei rettangoli di carta che gli uffici municipali dell’annona² provvedevano a fornire ogni due mesi, uno per ogni membro della famiglia. Niente carta annonaria per il caffè, chi ne desiderava una tazza doveva ricorrere al surrogato, un caffè d’orzo fatto in casa con il poco zucchero che il governo passava, appena qualche zolletta di zucchero nero sintetico che neppure lontanamente aveva il potere di far ricordare lo zucchero vero, quello degli anni di pace. Si utilizzava nei periodi di guerra come surrogato perché il caffè era troppo costoso o introvabile.
Con metodi artigianali i contadini arrostivano le radici di cicoria³ e, dopo averle tritate, mettevano i pezzetti in una pentola di metallo smaltato piena d’acqua a bollire sul camino o sulla stufa a legna, e ottenevano una bevanda calda da bere al posto del caffè. Attualmente lo si può preparare anche con la caffettiera moka.
Il caffè che tanto risollevava il corpo e lo spirito, con il suo rituale e con l’aroma che si sentiva anche dalla strada, era un sogno lontano. Era la conseguenza del regime di autarchia imposto dallo Stato fascista. Parole nuove e foriere di sacrificio entrano nelle case: razionamento, borsa nera, tessera e fare la fila per lunghe ore davanti alla bottega a volte per niente, perché il pane finiva. All’olio e al burro che mancavano si rimediava con un pezzo di sugna o di lardo di porco, o se ne faceva a meno.
La fame, la mancanza di cibi semplici come il pane, il latte, lo zucchero sono ancora vivamente presenti nella memoria di chi da bambino si ritrovò a vivere gli anni dell’ultimo conflitto mondiale. L’abitudine a non sprecare e a riutilizzare al massimo qualsiasi avanzo della cucina è diventata uno stile di vita che è cresciuto con loro e si è fortemente radicato nell’animo, tanto che non riescono a farsi una ragione degli sprechi che ai nostri giorni avvengono quotidianamente. Non esiste più quel culto del pane che si riteneva un alimento prezioso da tenere di conto fino all’ultima briciola, un pane molto diverso dalle tante varietà che oggi si sfornano dappertutto.
Ricetta del caffè con la cicoria:
- 1 cucchiaio di cicoria tostata (da acquistare nelle erboristerie o nei supermercati più forniti).
- 300 ml di acqua naturale.
In un pentolino