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Storie di Dei
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Storie di Dei

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About this ebook

Amano, piangono, torturano, uccidono. Gli Dei dell'antica Grecia sono disposti a tutto pur di appagare i propri impulsi e sui loro leggendari scontri, le passioni, i dolori e i tradimenti si è scritto per millenni, tanto grandiose sono le vicende che li riguardano. Questa raccolta nasce dal desiderio di far rivivere sulla carta gli eredi di Crono e di approfondire, attraverso la riscrittura di sei miti appartenenti alla tradizione classica, quel groviglio di sentimenti che domina i loro cuori immortali. "Storie di Dei" è un viaggio nell'intimo mondo dei Signori dell'Ellade. Un mondo a tratti lucente come il sole di Apollo, a tratti nero come le voragini del Tartaro.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 11, 2019
ISBN9788831602198
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    Storie di Dei - Giulia Marino

    L’AUTRICE

    INTRODUZIONE

    Quando cominciai a scrivere questo volume, all’apice della mia ingenuità e del mio entusiasmo, pensai che al termine della stesura mi sarei trovata tra le mani un’opera imperfetta, ma elegante a sufficienza da non farmi provare alcun imbarazzo; un’opera che avrei potuto presentare al giudizio di un ellenista, di un etnologo o di un archeologo, senza il timore di vederla disintegrata dalle critiche; un’opera mitologicamente e storicamente coerente, priva di volgarità, violenza e dettagli raccapriccianti.

    Inutile dire che i miei sogni di gloria s’infransero presto. La mitologia greca è un universo labirintico dalle innumerevoli letture, un mondo affollato di antichi e autorevoli poeti che, nel narrare le storie di Dei, semidei ed eroi, offrono al lettore versioni differenti l’una dall’altra, tutte ugualmente valide, se di validità vogliamo parlare.

    Ma pur sapendo quanto fosse intricato questo dedalo di miti, dal principio io persistetti scioccamente nel cercare la variante suprema, il Mito con la emme maiuscola, quello coerente sotto ogni aspetto e in grado di appagare le aspettative di qualsiasi lettore. Una ricerca persa in partenza, che generò in me grande insicurezza (come si può scegliere tra Omero ed Esiodo?), fin quando capii di stare sbagliando approccio. Allora smisi di tormentarmi, riposi sugli scaffali della libreria i poemi classici e i manuali di Graves e Kerényi – che ormai avevo consumato, a furia di sfogliarli – gettai nel cestino quel poco che avevo scritto e ricominciai daccapo, stavolta lasciando gli Dei e le Dee – i protagonisti assoluti di questa raccolta – liberi di muoversi, parlare, vivere.

    Nel giro di poco, come se le muse stesse avessero lasciato il Parnaso e fossero accorse in mio aiuto, mi disincagliai e iniziai a scrivere con scioltezza e piacere.

    Nulla di straordinario, intendiamoci: chi, come me, si diletta a raccontare storie sa bene quanto i personaggi premano per esprimersi, e quanto diventi tutto più semplice non appena si allentano loro le briglie e ci si scrolla di dosso un po’ di razionalità. Del resto, la scrittura è fatta di queste piccole magie.

    Abbozzai sei storie, sviluppate su miti appartenenti alla tradizione ellenica – alcuni più noti, come il mito del rapimento di Persefone, altri meno, come quello del primo processo olimpico – e terminata la stesura le perfezionai, ponendo il focus sulle dinamiche psicologiche dei personaggi coinvolti. La concretezza storica, l’insegnamento morale, il simbolismo insito nel mito; tutto ciò è presente in ognuno dei racconti che leggerete, ma a differenza dei manuali e delle raccolte di riassunti brevi – che, pur narrando con dovizia di particolari i miti, non si soffermano più del necessario sull’universo emotivo dei personaggi coinvolti, per ovvie ragioni – qui, a farla da padroni, sono proprio gli Dei, con le loro passioni e i loro drammi.

    A proposito dovetti operare una scelta netta e, sebbene mi sarebbe piaciuto pubblicare una ricca raccolta di miti, scelsi di ridurre il numero delle storie in favore del loro approfondimento, per poter offrire agli Olimpi e alle loro vicende ampio spazio. Perciò, se desiderate dare una rapida spolverata alle vostre conoscenze in tema di mitologia greca, mi duole comunicarvi che siete sulla strada sbagliata. Questo libro non nasce come strumento di consultazione, bensì come un’opera narrativa il cui scopo primario è far rivivere tra le pagine la leggendaria stirpe di Crono, ed emozionare il lettore che a essa si avvicina.

    Né più né meno che questo.

    Giudicherete voi, se io sia riuscita o meno nell’intento, cosa che mi auguro vivamente.

    Concludo questa breve introduzione ricordandovi che le storie che vi apprestate a leggere traggono origine dalla mia fantasia, pur essendo ricamate sui miti, e che in quanto tali potrebbero differire in alcuni punti dalle interpretazioni tradizionali dei fatti e dei personaggi coinvolti; piccole licenze artistiche, che spero mi perdonerete. E – precisazione forse ovvia, ma necessaria – esse sono destinati a un pubblico adulto. I bei giorni in cui credevo di poter stringere tra le dita un’opera raffinata e candida, che anche un bambino avrebbe potuto leggere, sono passati da un pezzo. La brutalità e la scurrilità di Ares, gli orrori dell’Oltretomba, la malignità di Eris, l’erotismo di Afrodite, l’indole vendicatrice di Apollo…

    Impossibile imbellettare ciò che non può essere imbellettato. Sappiamo bene come sono fatti gli Dei, e di cosa sono capaci.

    E forse li amiamo proprio per questo.

    Buona lettura.

    Giulia Marino

    Gennaio 2019

    LA MALEDIZIONE DELL’AULOS

    I

    Atena accarezzò per l’ennesima volta la sacca di lana che teneva posata in grembo e nel farlo si sentì incinta. Sorrise fra sé e sé, divertita da quel buffo pensiero che per pudore tentò subito di scacciare. Le donne gravide, sempre intente a coccolarsi con discrezione la pancia quasi custodissero un tenero segreto, non avevano nulla a che vedere con lei, Dea vergine e pura, e a modo loro rappresentavano un mondo a parte; un mondo costellato di movenze delicate e inconfondibili, che permettevano immediatamente di capire se la fanciulla in questione stesse celando o meno nel ventre una giovane vita.

    Ma lei, che da quando aveva preso posto al simposio non aveva mai smesso di accarezzare quel piccolo fagotto, non si stava forse comportando allo stesso modo? Non era forse ugualmente innamorata e fiera della sua creatura al punto da non riuscire a smettere di cercarla con le dita? Sì, lo era. Moltissimo. E come tutte le donne incinte fremeva dalla voglia di presentarla al mondo. Ma il momento giusto non era ancora arrivato, così la guerriera s’impose di aspettare e si lasciò distrarre dai fragori del banchetto. 

    Era un pomeriggio fresco e soleggiato; la classica giornata primaverile in cui l’aria odora di primule e umido fogliame, e i fringuelli cantano al cielo la gioia di Demetra. E circondati dal verde più fitto e rigoglioso, gli Dei dell’Olimpo chiacchieravano e ridevano sdraiati sulle klinai, allungando le braccia verso i numerosi tavolini in legno massiccio apparecchiati per l’occasione. Le kylix colme del brillante vino di Dioniso; le ciotole traboccanti di ambrosia; i vassoi splendenti, sui quali era adagiata la selvaggina più tenera e succosa, cacciata quel giorno dalla Dea Artemide in persona; e poi nettare, frutta fresca, formaggi molli, zuppe d’orzo, dolci al miele e sesamo, pane alle olive...

    Ai simposi divini le prelibatezze si estendevano a perdita d’occhio e sembravano non finire mai, tanto svelti erano servitori e coppieri a rimpinguare vassoi e calici, in un via vai continuo che dava ancor più movimento alla festa. E quella che si stava svolgendo all’ombra delle fronde, nel cuore della lontana Frigia, era una festa dal ritmo perfetto, briosa al punto giusto, che la maggior parte dei presenti avrebbe scordato col fluire del tempo, ma che per Atena sarebbe stata sgradevolmente memorabile.

    Eppure, per il momento tutto scorreva liscio e tranquillo.

    Le Dee conversavano tra loro, mentre con la punta delle dita prendevano dalle ciotole sui tavolini minuscole porzioni di cibo, che poi portavano elegantemente alla bocca. Indossavano chitoni preziosi, alcuni lunghi, altri più corti; sul collo e sulle braccia sfoggiavano incantevoli gioielli dorati, che il talentuoso Efesto aveva ideato e forgiato per loro, e col medesimo orgoglio si accarezzavano di tanto in tanto i capelli, che già avevano assorbito il profumo dei boccioli e delle foglie novelle. Se li erano fatti pettinare e acconciare con cura dalle ancelle prima del banchetto e ora li esibivano con vanità, quasi non aspettassero altro che ricevere un complimento: imbellettarsi per queste occasioni era uno dei loro passatempi preferiti.

    Gli Dei, invece, non si soffermavano su certe piccolezze, e pur sfoggiando vesti e mantelli pregiati si godevano la festa con maggior leggerezza: c’era chi si riempiva le guance di zuccherosa ambrosia, chi sbirciava la scollatura della vicina, chi rideva rumorosamente e chi gridava, nel tentativo di dominare tutte le altre voci e continuare una conversazione iniziata chissà quando col fratello sdraiato oltre la distesa di tavolini.

    Il caos della festa si stava imponendo con prepotenza e nessuno, in quella piccola radura nascosta alla vista dei mortali, sembrava aver voglia di resistergli. Non quel giorno.

    Seduta sulla klinè, Atena sfiorò con una mano il borsello che teneva sulle ginocchia, prese un sorso di nettare e gettò uno sguardo alla propria destra, dalla quale proveniva uno sciame di risatine femminili: erano le fanciulle vergini che facevano parte del seguito di Artemide. Sedute sull’erba tiepida, in battuta di sole, chiacchieravano e intrecciavano ghirlande di rametti e fiori selvatici, mentre poco più avanti le baccanti e i satiri fedeli a Dioniso ridevano a squarciagola e trangugiavano calici di vino, scambiandosi abbracci sempre più audaci.

    Atena pensò che le giovani avessero fatto bene a prendere posto lontano da quel gruppo di scostumati, e con le dita che di nuovo massaggiavano la sacca di lana tornò a dedicarsi al banchetto, alla ricerca di una conversazione un po’ interessante in cui infilarsi. Ed ecco che inciampò nello sguardo di Demetra, Signora delle Stagioni e della Messi, sdraiata sulla klinè accanto alla sua.

    «Di’ la verità, Atena.» La figlia di Rea si mise seduta e si sporse verso di lei, fin quasi a sfiorare col gomito il guanciale della sua klinè. Indossava una tunica color ocra, che le lasciava scoperte le floride braccia; i capelli erano sciolti e riccissimi; la fronte adornata d’una corona di spighe d’orzo e rossi tulipani. «Quali tesori nascondi in questo borsello di lana, che con tanta premura stringi in grembo?»

    Atena sorrise, lusingata dall’interesse che Demetra nutriva per la sua creatura.

    «È una sorpresa» rispose.

    «Una sorpresa?» ripeté l’altra, con gli occhi tondi per la curiosità. «Per chi? Di che si tratta?»

    La guerriera distese il suo sorriso e scosse la testa in segno di diniego: non avrebbe anticipato nulla, per nessuna ragione. Ma pur sapendo quanto fosse risoluta, Demetra tentò comunque di scucirle qualche informazione, insistendo morbidamente.

    Atena sfilò un’arancia da uno dei vassoi che aveva di fronte, iniziò a sbucciarla e come colta da improvvisa sordità prese a ignorare la Dea, dedicando al frutto tutta la propria attenzione.

    Alla fine, la Signora delle Messi si arrese e bofonchiò qualcosa d’incomprensibile, fingendosi offesa.

    «Suvvia, non detestarmi.» Divertita da quella reazione, Atena offrì alla Dea uno spicchio dell’arancia che reggeva in mano, appena sbucciata. «A breve vedrai.»

    Demetra accettò lo spicchio sorridendo e in poco tempo le due si trovarono a decantare la bontà dei mille frutti che arricchivano il banchetto; una conversazione leggera, quasi rilassante, in cui Atena si tuffò volentieri e che riuscì quasi a farle dimenticare la preziosa sacca di lana che giaceva sulle sue cosce.

    Ma tutt’a un tratto, qualcuno batté il pugno su uno dei tavolini. Un’esplosione violenta, che fece rovesciare i piatti e le ciotole che vi erano posti sopra. Atena sussultò per il brusco rumore e alzò lo sguardo, cercando tra i presenti il responsabile di quel gesto, e lo scoprì subito, nel medesimo istante in cui questi scaricava il pugno contro il tavolo ancora e ancora e ancora, facendo volare a terra calici e scodelle.

    Era suo padre Zeus.

    In piena crisi di risate e incapace di trattenersi, il sovrano si stava accanendo contro la povera lastra di legno, scaricando su di essa tutta la propria ilarità. Tre, forse quattro secondi di sfogo e si fermò, asciugò una lacrima in bilico sul bordo dell’occhio e disse a suo fratello Poseidone – rosso ed esilarato quanto lui – di smetterla di dire idiozie.

    Poi scoppiò di nuovo a ridere.

    Irritata da tutto quel baccano, la Dea sospirò pazientemente, come se avesse di fronte a sé due marmocchi irrecuperabili e fece per girarsi di nuovo verso Demetra, quando con la coda dell’occhio vide il padre afferrare una coppa di vino e trangugiarla tutta in un sorso, con la brama d’un ubriaco. E improvvisamente il suo bel viso si fece serio; le dita affondarono nella soffice stoffa del borsello, stringendo ciò che si celava all’interno.

    Non poteva attendere oltre.

    L’ammirazione di suo padre era quella che per lei contava più di qualsiasi altra, ma per avere valore doveva essere un’ammirazione consapevole; una lode lucida, sincera, pulita. E tutte quelle coppe di vino minacciavano ora di privarla del suo agognato premio, offrendole in cambio un’approvazione ebbra e confusa che non le avrebbe dato alcuna soddisfazione. Un epilogo inaccettabile.

    Atena si decise.

    Posò la sacca di lana sul tavolino che aveva davanti, sfoggiò uno dei suoi sorrisi migliori e si alzò in piedi.

    Ad eccezione di Demetra, che si girò a guardarla, nessuno si accorse di lei. Dei e semidei che si allungavano sulla klinè per conversare col vicino; braccia che si distendevano sui tavoli, sprofondando le dita ora in un cestino ora in un altro; coppieri che sfrecciavano di qua e di là reggendo pesanti brocche, colme fino all’orlo di vino, nettare e spremute di frutta…

    Il banchetto era un caotico intreccio di movimenti d’ogni genere, ma Atena non si lasciò inibire dalla sua energia: sapeva come farsi notare.

    Batté le mani tre volte, forte, e con voce possente esclamò: «O Dei celesti, concedetemi la vostra attenzione! C’è qualcosa che desidero mostrarvi!»

    Tutti i presenti si voltarono verso di lei, come cani attratti dal fischio del padrone. Il chiasso si placò, sfumando in un tenue chiacchiericcio incuriosito. Persino le menadi e i satiri diedero un freno alla propria euforia, e con i calici a mezz’aria e gli occhi lucidi per l’ebbrezza si fermarono a guardare la bella guerriera, mentre soddisfatta posava la mano sul borsello adagiato sul tavolino.

    «Di che si tratta, figlia mia?» domandò Zeus, molto interessato al contenuto di quella sacca che fino ad allora non aveva notato. «Parla. Hai la nostra attenzione.»

    «Guidata dall’estro ho creato uno strumento meraviglioso che ora mi accingo a presentare a te, Padre, e a tutta la nostra gloriosa famiglia.»

    Atena infilò l’altra mano nel borsello ed estrasse il misterioso oggetto, alzandolo al cielo con la fierezza d’un condottiero che avesse appena vinto la guerra più importante di tutta la sua vita. «Ammirate l’aulos!» esclamò. «Il primo strumento musicale in grado di mutare il respiro in musica!»

    I presenti ebbero un sussulto e presero a scambiarsi commenti perplessi, contemplando l’oggetto che la Dea stringeva tra le dita. Era uno strumento all’apparenza banale, composto da un tubo dritto alla cui estremità era agganciato un sottile cordino di cuoio. La superficie della canna era percorsa da una fila di fori, piccoli e neri come gocce di pece. Il materiale era liscio e bianco, e dava l’idea d’essere molto duro.

    «Quello uno strumento musicale?» Sdraiato sulla klinè, il Dio Apollo additò l’oggetto con fare dubbioso. Giaceva poco distante da suo padre Zeus e da subito si mostrò molto più interessato di lui all’invenzione di Atena, ma anche più diffidente: una reazione prevedibile da parte del Signore della Musica e delle Arti, che aveva elevato la lira a strumento musicale ideale. «Io vedo solo un pezzo di legno sforacchiato.»

    «Questo aulos non è realizzato in legno, ma in osso di cervo» specificò Atena, girando lo strumento tra le dita con palpabile orgoglio. Tutti la stavano guardando e ciò la lusingava ed eccitava. «Ciononostante si tratta di uno strumento di facile manifattura, che può essere ricavato anche da semplice legno di bosco, sia esso duro o morbido.»

    «Molto interessante!» Demetra sorrise e finse interesse meglio che poté, celando per educazione tutta la propria delusione. Non sapeva cosa aveva sperato di trovare in quel sacco di lana, ma di certo quel banalissimo osso d’animale aveva sgonfiato la sua curiosità. «Certo, non che m’intenda di musica, io, ma è evidente a chiunque che questo aulos sia una creazione di pregio.»

    Dioniso, mezzo nudo e con in mano un calice d’oro che a ogni suo movimento spargeva qua e là perle di vino trasparente, barcollò tra i tavolini, per meglio vedere l’invenzione della Dea. Al pari di suo fratello Apollo, anche lui era appassionato di musica, sebbene prediligesse melodie caotiche e incalzanti, in grado di estasiare e stordire l’orecchio e la mente. «A vederlo mi piace molto!» disse. «Qual è il suo funzionamento?»

    Atena ticchettò l’indice sull’estremità del tubo più vicina a sé, ponendo l’attenzione di tutti su due linguette sagomate poggiate l’una sull’altra, d’un bianco differente rispetto a quello dell’osso. «Le labbra vanno posate qui, su queste lamelle di canna di fiume, e da qui si soffia dentro, più o meno intensamente. Al passaggio dell’aria le lamelle vibrano, creando suoni gradevoli che vanno modulati a proprio piacere, coprendo e scoprendo i fori con la punta delle dita… così.»

    Senza ancora soffiare nell’aulos, la Dea mimò il gesto di tappare i forellini, tamburellando le dita sulla liscia superficie. Poi sorrise ai presenti.

    «Riassumendo, si tratta di uno strumento che utilizza l’energia del flusso d’aria facendola rimbalzare dentro al cilindro, ed è necessaria grande coordinazione tra respiro e movimento delle dita per creare suoni in grado d’incantare l’ascoltatore. Ma io, ovviamente, lo padroneggio alla perfezione.»

    «Mi sembra un’invenzione eccellente.» Efesto, che da gran creativo qual era nutriva interesse per i marchingegni d’ogni genere, si complimentò con la Dea. «Una doppia lamella di canna che vibra al passaggio dell’aria, e un tubo che modella e amplifica il suono da questa prodotto. Davvero ingegnoso.»

    Atena fece una smorfia e annuì al fabbro con fare distratto e frettoloso. La sua opinione e i suoi complimenti erano quelli che per lei contavano meno di tutti.

    «Che questo aulos sia una creazione capace di suscitare l’interesse di chicchessia è un fatto innegabile» ammise Apollo, ora seduto sulla klinè. «Ma riconoscerai, sorella mia, che per quanto la tua abilità tecnica e manuale sia leggendaria quanto la tua sapienza, questo rivoluzionario strumento non possa essere giudicato sulla base della fiducia che noi tutti nutriamo per te.»

    «Certamente» rispose Atena, stringendo la sua creazione tra le dita. Era dall’inizio di quella festa che non vedeva l’ora di suonarla e dal suo sorriso s’intuiva chiaramente. «Io per prima desidero che anche voi v’innamoriate perdutamente dell’aulos e delle sue note meravigliose che ora, col beneplacito di mio Padre, vi farò ascoltare.»

    «Mpf.» Apollo soffocò una risatina, poi prese la sua lira d’oro – che all’inizio del banchetto aveva poggiato sul tavolino di fronte a sé – e con la punta delle dita ne pizzicò le corde. Note limpide e dolcissime galleggiarono nell’aria. «Dubito che la musica prodotta dal tuo aulos possa eguagliare in bellezza ed eleganza quella prodotta dalla mia lira.»

    «Questa ingenuità non ti fa onore.» Atena accolse a testa alta le provocazioni del biondo fratello, sorridendo sicura. «Sai meglio di me che la musica è un linguaggio multiforme, in grado di offrire emozioni differenti attraverso strumenti differenti. E la lira e l’aulos, come del resto la voce stessa, non sono altro che frutti dal diverso sapore, capaci però d’invogliare e deliziare l’orecchio nel medesimo modo.»

    «Capisco ciò che vuoi dire, ma non lo condivido.» Apollo posò di nuovo la lira sul tavolo. «Personalmente ritengo che esistano anche strumenti musicali sgradevoli, come i tamburi o gli odiosissimi cembali, che in mano ai suonatori sbagliati possono divenire degli autentici strumenti di tortura.»

    Dioniso scosse la testa, contrariato ma anche divertito.

    Sapeva che il fratello si stava riferendo a lui e al suo seguito. «Ah, tu non capisci niente di musica! Non ci hai mai capito niente!» esclamò e rovesciò indietro il capo, tracannando le ultime gocce di vino dal calice che aveva in mano.

    «Comunque sono certo che il tuo strumento sia in grado di produrre musica quanto meno discreta» concluse Apollo. «Anche perché, se così non fosse, non ce lo avresti mai presentato.»

    Oh, altroché se è discreta, pensò Atena, sorridendo sorniona. Sarai il primo a trovare le sue note irresistibili e, anche se non lo ammetterai, io saprò che hai avuto torto a diffidare della mia splendida creazione.

    «Be’, che stiamo aspettando?» esclamò a gran voce Zeus, strappando la guerriera dai suoi pensieri. «Orsù, figlia mia! La radura è silente e tutti pendiamo dalle tue labbra, ansiosi di sentirti suonare questo aulos, perciò appaga la curiosità che hai scatenato e suona per noi!»

    Il sorriso di Atena si fece luminosissimo. Quanto le piaceva vedere suo padre così orgoglioso e smanioso, e sapere di avere in pugno l’attenzione collettiva! Era una sensazione che mai avrebbe potuto venirle a noia, neppure tra un miliardo di anni.

    Pronta a buttarsi, si sistemò dietro al collo il cordino di cuoio dell’aulos, mise le dita in posizione sui fori e osservò un’ultima volta i presenti. Non tutti erano interessati alla sua imminente esibizione. Poseidone e Ares, in particolar modo, la guardavano annoiati e impazienti di tornare ai propri rumorosi bagordi; anche i satiri e le baccanti, sdraiati sull’erba a debita distanza dai tavolini e dalle klinai, parevano ben poco coinvolti e, pur trattenendo le proprie risate per timore d’essere puniti, avevano ripreso a versarsi il vino a vicenda. Ma Atena non se la prese: sapeva che l’elevazione intellettuale, mediante l’ascolto di buona musica, non era cosa per tutti.

    «Le note che udirete stimoleranno la vostra memoria, riportandovi all’orecchio un lamento di dolore che molti anni addietro salì al cielo, struggente e melodioso, e che ora, grazie al mio aulos, potrà rivivere in eterno. Sono certa che lo riconoscerete.» La Dea sorrise un’ultima volta, infine prese un gran respiro, chiuse gli occhi e posò le labbra sull’imboccatura dello strumento, cominciando a suonare.

    Come per magia, una musica mozzafiato si diffuse in tutta la radura. I presenti sgranarono gli occhi, colpiti dall’inaspettata squisitezza di quelle note, e tutti, dal primo all’ultimo, sentirono la memoria schiudersi come un fiore e rivelare un ricordo lontano, dimenticato: il canto dell’aulos era il canto di dolore delle Gorgoni, che disperate avevano versato fiumi di lacrime per la morte dell’amata sorella Medusa, la stessa che ora terrorizzava i soldati nemici eternamente impressa sull’egida di bronzo di Atena.

    Ma quelle note, per quanto simili al penoso pianto delle Gorgoni, non erano lamentose né spiacevoli, bensì ammalianti e intense; note in grado di toccare nel profondo, che con la loro bellezza contagiarono, oltre gli Dei e i loro seguaci, anche la boscosa natura circostante. I petali dei fiori selvatici mutarono il loro colore; l’erba e le piante del sottobosco sfrigolarono come se qualcuno le stesse accarezzando con le dita, e si tinsero d’un verde più vivo; gli usignoli e i fringuelli presero a svolazzare da un ramo all’altro, cinguettando e spargendo foglie brillanti dalle loro fronde.

    Ovunque si respirava la magnificenza della musica ed era bellissimo. Un trionfo di gaudio e commozione.

    Con le guance gonfie e le dita che coprivano e scoprivano a ripetizione i fori dell’aulos, Atena aprì gli occhi e gettò un’occhiata tutt’intorno, per raccogliere un po’ di meritati apprezzamenti, e subito fu colta da un profondo senso di soddisfazione. Apollo la stava fissando a bocca aperta, con una mano morbidamente posata sul petto coperto dalla candida clamide: era senza parole. E Dioniso! I suoi grandi occhi verdi luccicavano come intrisi di pazzia e desiderio: si era innamorato dell’aulos e senza dubbio lo avrebbe provato, e forse anche introdotto nel proprio culto. Atena represse l’impulso di sorridere, mentre la folla incantata catturava il suo sguardo, ora di qua, ora di là. Vide le baccanti e i satiri scambiarsi occhiate entusiaste e parecchio sorprese; vide le ancelle di Artemide sospirare, poggiarsi l’una all’altra e accarezzarsi a vicenda i capelli, rapite dalla dolcezza della melodia; e Demetra, Hermes, Efesto, suo padre Zeus… persino Poseidone e Ares, dal principio seccati per l’interruzione del banchetto, stavano ora godendo di quelle note, uno più ammaliato dell’altro.

    E all’improvviso, la Dea guerriera sentì l’orgoglio scoppiarle in petto.

    Quant’era felice!

    Guardami, Padre! Guardatemi TUTTI!

    Prese un ampio respiro che le gonfiò le gote fino a farle male e con energia soffiò l’aria nell’aulos, allungando la nota più alta che lo strumento fosse in grado di produrre. Poi scese di tono, inventando una melodia nuova, meno mielosa e più ritmata. Voleva stupire tutti. Voleva vederli sciogliersi in un fragoroso applauso che la facesse sentire sommersa e, più di qualsiasi altra cosa, voleva rendere orgoglioso suo padre più di quanto non lo fosse già, e magari spingerlo ad ammettere a chiare parole, fosse stato anche sottovoce, che lei e solo lei era la figlia perfetta; la migliore tra tutti i figli e le figlie, immortali e mortali, che aveva avuto fino a quel giorno. Quella sì che sarebbe stata una soddisfazione inesprimibile.

    E mentre i suoi polpastrelli tamburellavano sui fori dell’aulos con grande destrezza, Atena tornò a spiare Apollo e notò che la sua espressione era mutata: ora stava sorridendo. Di nuovo, la Dea represse il desiderio di sorridere a propria volta e con gli occhi cercò nella mischia il volto del padre, quando d’un tratto il suo sguardo cadde su qualcosa di orribile.

    Qualcosa che spaccò in mille pezzi la sua concentrazione e il suo buonumore. 

    Afrodite ed Era stavano sghignazzando.

    E non si trattava di uno sghignazzamento qualsiasi, scatenato da chissà quale pensiero o pettegolezzo che nulla aveva a che vedere con la sua esecuzione.

    No.

    Le due stavano ridendo di lei.

    La gola di Atena si serrò, come bloccata nell’atto di deglutire. Le dita chiusero male i fori, facendo stridere le note. Un momento di pungente sgradevolezza, che tutti colsero ma subito dimenticarono, tanto rapida fu la guerriera a recuperare il controllo della situazione. La melodia prese a scorrere, liscia come un fresco ruscello di montagna, ma ormai a far cantare l’aulos era solo uno sterile automatismo, che nulla aveva a che vedere con la spontaneità e la passione.

    Atena era come ipnotizzata.

    Possibile che le due Dee stessero davvero ridendo di lei? E per quale ragione? Stava suonando così bene e tutti erano incantati dalla sua musica, persino quei buzzurri dei satiri! Eppure le vedeva! Eccome se le vedeva! Avevano entrambe gli occhi lucidi di lacrime e a fatica stavano trattenendo la propria ilarità, ridacchiando a testa bassa per non farsi sentire. A un certo punto, Afrodite sbirciò nella sua direzione e soffocò il sorriso con la mano, distogliendo subito lo sguardo, e lo stesso fece Era, sul punto di scoppiare a ridere. Infine le due si scambiarono quella che pareva essere l’ennesima occhiata d’intesa, farfugliarono qualcosa a bassa voce e sghignazzarono ancora, stavolta un po’ più forte. Atena notò le loro spalle scuotersi per i singulti; le dita salire ad asciugare le lacrime.

    Allora decise di averne avuto abbastanza.

    Tamburellò le dita sull’aulos in un crescendo frenetico inventato sul momento e alla fine si fermò, allontanando le labbra dallo strumento.

    Gli applausi scoppiarono immediatamente, scroscianti come una pioggia torrenziale, e con essi esplosero i complimenti. Zeus, Artemide, Dioniso, Demetra… Persino Apollo si unì alle ovazioni e ammise che l’aulos, pur non potendo essere considerato al livello della lira, era uno strumento degno di nota e che la sua esecuzione era stata magistrale.

    In piedi di fronte a tutti, Atena sentì il sorriso tendersi innaturalmente, mentre il tanto agognato riconoscimento le pioveva addosso e l’avvolgeva senza offrirle, però, neppure l’ombra del piacere che aveva sognato di provare. Afrodite ed Era avevano rovinato tutto e, mentre si sfilava il cordino di cuoio che reggeva l’aulos, Atena notò che anche loro stavano applaudendo, col viso rosso e gli occhi ancora umidi per le risate. E nel vederle battere le mani come tutti gli altri, la Dea si sentì ancor più presa in giro.

    Tremendamente presa in giro.

    Poi, tutto finì.

    L’ovazione si placò, Atena si sedette al suo posto e il banchetto riprese, più vivace di prima. Vino, nettare e succhi d’arancia tornarono a traboccare dalle coppe; discussioni sciocche e bisticci senza senso ripresero dal punto dov’erano stati interrotti, mentre la lira d’oro di Apollo colmava di nuova musica il vuoto lasciato dall’aulos. Ma per quanto deliziosa e gaia fosse quell’atmosfera di festa, la guerriera non riuscì più a rilassarsi: non capiva cosa fosse andato storto durante la sua esibizione e il non riuscire a comprendere qualcosa la rendeva sempre inquieta.

    Scrutò le Dee, senza farsi notare. Entrambe si stavano asciugando gli occhi, più calme rispetto a poco prima ma ancora sorridenti e con le guance arrossate. Prese un ampio respiro che le sollevò la corazza di bronzo; la struttura in osso dell’aulos scricchiolò tra le sue mani nervose.

    Non riusciva più a stare lì e finalmente si alzò, scattante come se avesse appena ricevuto l’offesa peggiore di tutta la sua vita, e voltandosi a momenti si schiantò contro Ebe. Sussultò per la sorpresa e la coppiera sobbalzò insieme a lei: stava reggendo una grande brocca colma di nettare, che per poco non tracimò.

    «Perdonami» disse Ebe, mostrando riverenza nei confronti della sorella a lei superiore.

    Atena le posò una mano sulla spalla, frettolosamente, e si allontanò dal banchetto nell’indifferenza generale.

    Pochi passi e la natura l’avvolse col suo rigoglioso fogliame dalle mille tonalità di verde. Il chiasso del banchetto si fece più distante, fino a svanire alle sue spalle come uno strano ricordo. Si rigirò l’aulos tra le dita, continuando a camminare, mentre tra la terra e il cielo le fronde frusciavano al sussurrar del vento e i passeri cinguettavano allegri: l’inconfondibile voce della foresta.

    Ma Atena era troppo turbata dalla mancanza di risposte per riuscire ad apprezzare quella dolce quiete e, senza ancora una meta precisa, proseguì il suo cammino tra gli alberi, fin quando giunse in un’altra radura; uno spazio ampio e nascosto, che sembrava essersi disteso al centro esatto della foresta, scacciando indietro piante e arbusti. E al centro di quella radura, un laghetto dalla superficie azzurra scintillava al chiarore del giorno.

    La Dea vi si avvicinò e osservò l’acqua limpida e pura nella quale si rifletteva il suo volto corrucciato. Schioccò la lingua, nauseata da se stessa e dal proprio nervosismo.

    Non sono io. Sono quelle là che non capiscono niente!

    Con ritrovato orgoglio guardò l’aulos che stringeva tra le dita e, prima di rendersene conto, se lo portò alle labbra e cominciò a suonare, spargendo la sua struggente musica dappertutto. E per la seconda volta, la foresta reagì a quelle note commoventi, accogliendole con delizia. I rami delle querce si allungarono come nell’atto di stiracchiarsi. Bacche rosse, blu e viola spuntarono dai fitti cespugli, mentre l’aroma di terra e muschio si faceva più inebriante.

    Che magnificenza! pensò Atena, tamburellando le dita lungo tutta la lunghezza dello strumento. Sentiva di essere brava, lo sentiva nel profondo del cuore e quella musica meravigliosa gliene dava conferma. Quale leggendaria invenzione mi appresto a donare al mon-

    D’un tratto, il suo sguardo cadde sull’acqua del lago e lì si paralizzò, pieno di orrore. Una nota stridula, simile al grido d’una cornacchia morente, strisciò fuori dall’aulos e l’intera radura vibrò vistosamente, come colta da una fitta di dolore. Atena non se ne accorse neppure. Era sconvolta. Così sconvolta che non riusciva a staccare le labbra dallo strumento, né a distogliere lo sguardo dal proprio acquoso riflesso.

    Che ne era stato del suo bel viso? Cos’era quell’essere mostruoso, con le guance gonfie e paonazze, che da là sotto la fissava imitandola in tutto e per tutto? Era davvero lei? Possibile che fosse davvero così brutta quando, sotto sforzo, suonava l’aulos?

    Incapace di crederci, Atena soffiò ancora e ancora dentro lo strumento, tappando dei fori a casaccio giusto per fargli sputare fuori delle note, e con immenso raccapriccio notò che durante l’esecuzione non solo la sua espressione non migliorava, ma addirittura peggiorava.

    Che vergogna! Sono bruttissima! Un mostro inguardabile!

    Finalmente la Dea realizzò cos’era accaduto al banchetto con Afrodite ed Era.

    Non stavano ridendo della mia musica! Stavano ridendo della mia faccia! E come dar loro torto? È INCREDIBILE CHE NON ABBIANO RISO TUTTI!

    «Grrrhh!» Imbarazzata e furibonda, la guerriera scagliò l’aulos per terra. Il cuore le batteva fortissimo: tutto l’amore per quel cilindro d’osso che le sue stesse mani avevano intagliato, forato e lisciato con tanta cura, si era come incendiato, trasformandosi in odio accecante.

    «Stupido aggeggio! Sparisci dalla mia vista!»

    Sferrò un violento calcio allo strumento che, tra sassolini e zolle di terra sollevate in aria, rotolò malamente al suolo fino a urtare il tronco d’un faggio caduto. Quindi lo additò e, col suo divino potere, gli scaricò addosso una terribile maledizione. «Che sia colto da indicibile sventura e sofferenza chiunque avrà l’ardire di raccogliere e suonare quest’odioso strumento!» tuonò, col volto scarlatto e sudato per la rabbia.

    Infine se ne andò, scomparendo nei boscosi meandri della Frigia. 

    E in quell’ampia e tranquilla radura che profumava di muschio, legno e resina, l’aulos maledetto rimase in attesa di una mano ignara, completamente dimenticato dal mondo. La luce d’oro del giorno e il blu della notte si alternarono sulla sua superficie, scorrendo frenetici insieme allo scorrere del tempo; la pioggia lo bagnò, gocciolando nei suoi fori; il vento lo asciugò col suo soffio soave, e ciò accadde ancora e ancora e ancora, fin quando una mattina la maledizione di Atena cominciò a compiersi.

    Lo sventurato si chiamava Marsia ed era un satiro frigio. Un giorno di sole, gironzolando per la foresta com’erano solite fare tutte le creature selvatiche, sbucò nella spaziosa radura in cui sorgeva il laghetto dalle acque turchesi. Non si era perduto e non vi capitò per caso: essendo nato e cresciuto in quei boschi smeraldo – in cui i cacciatori dei villaggi vicini venivano a scoccare le proprie frecce contro cervi, cinghiali e lepri – Marsia poteva dire di conoscerli come i palmi delle proprie mani e fu per spegnere la sete che si diresse verso il brillante specchio d’acqua nel quale, a sua insaputa, la Dea della Sapienza si era rimirata tempo addietro con orrore.

    Mancava ancora un paio d’ore a mezzogiorno, ma già dalle prime luci dell’alba il satiro aveva capito che quella sarebbe stata una giornata insolitamente calda per quel periodo dell’anno; una giornata in cui si sarebbe trovato a vagare tra gli alberi in preda alla noia, sperando d’incrociare sul proprio cammino un allegro gruppo di menadi con le coppe piene di vino o, perché no, una bella ninfa solitaria, tutta da baciare. Ma anche un faccia a faccia con dei tagliagole fuggiaschi sarebbe andato benissimo perché avrebbe rappresentato uno stimolo, una crepa nella confortevole, ma a volte soffocante monotonia della vita tra i boschi. E uno stimolo di qualsiasi genere era proprio ciò che Marsia stava svogliatamente cercando.

    Si chinò sul laghetto e bevve. L’acqua era fredda e pulita,

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