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P.O.W.

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About this ebook

Guido, sottufficiale dell'esercito italiano, giunge a Massaua dopo un contrasto con il fratello Dario. Tutto sembra procedere nella normalità quotidiana, quando il 10 giugno 1940 Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra. Da questo momento in poi la vita di Guido e dei venticinquemila militari nell'Africa Orientale Italiana (A. O. I.) contro gli inglesi diventa dura, drammatica, al limite della sopportazione. Il momento peggiore e più significativo per gli schieramenti è a Cheren, dove migliaia di britannici continuano a bombardare le postazioni degli italiani superstiti che oppongono una strenua e quanto mai sofferta resistenza. Dopo molti scontri, anche corpo a corpo, giunge inesorabile la vittoria delle forze anglo-sudanesi. Guido e gli altri vengono deportati nei campi di concentramento prima in Africa e poi in India. Vivono in condizioni disumane, subiscono violenze, patiscono la fame e contraggono il colera che miete numerose vittime. Tutto sembra ormai irrimediabilmente perduto. Un romanzo tratto da una storia vera che mette in luce lo sforzo e l'eroismo di molti Italiani nell'A. O. I. in uno degli episodi più drammatici e più dimenticati dai libri scolastici: la battaglia di Cheren e i campi di concentramento inglesi.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 11, 2019
ISBN9788831602174
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    Book preview

    P.O.W. - Tito Olivato

    Romanzo

    Avvertenza per il lettore

    Il libro inizia con un’anticipazione dei fatti, quindi fa seguito la storia i cui eventi sono narrati in ordine cronologico.

    Il titolo del capitolo zero (anzi dodici) è flashforward almeno per due motivi. Il primo perché è una conseguenza che, anziché alla fine, scrivo all’inizio con lo speranzoso intento di coinvolgere il lettore a iniziare e continuare a leggere il romanzo.

    Il secondo perché al posto di una più ricercata prolessi ho optato per un lemma inglese, dato che il fulcro attorno cui gira tutta la storia è di sapore britannico.

    I fatti, quelli più drammatici per altro, sono realmente accaduti a mio padre e li ho voluto alternare con porzioni di storia verosimile attraverso dialoghi famigliari e militari, per trasformare questa testimonianza in un irruente, impetuoso, appassionato romanzo storico.

    L’auspicio è che la battaglia di Cheren e le conseguenze terribili subite dagli italiani, possano entrare a pieno titolo nei libri scolastici di storia.

    Una guerra tra le guerre che i nostri hanno vissuto sulla propria pelle per difendere quell’Italia che talvolta ha mancato di adeguata riconoscenza.

    Ringraziamenti

    Innanzitutto sono debitore a mia suocera Anna Maria Bonetti che alcuni anni fa si è fatta coinvolgere volentieri nel progetto e ha trascritto tutto il diario di guerra di mio padre. L’operazione, che ha investito molti mesi, è stata impeccabile, metodica, razionale. Un lavoro da archivista dato che la scrittura è parte a matita e parte a inchiostro. L’interpretazione è stata tutt’altro che spontanea e agile, anche perché i fogli del diario sono carta igienica di oltre settant’anni fa rilegata da uno spago.

    Grazie anche alla brava e competente collega di inglese Maddalena Chiatante per avermi fornito le espressioni militari in lingua. E poi gratitudine a mio suocero Luciano e a mia madre per i consigli e per il materiale fotografico. Al mio amico Mariano Sinisi che, da buon scrittore di genere fantasy, mi ha suggerito alcune tecniche descrittive. Al caro Andrea Pirro che ha voluto prendersi a cuore la grafica della copertina con la perizia e l’entusiasmo che lo contraddistinguono. Ai miei immancabili figli Chiara, Giacomo e Giulio che, con il loro affetto, hanno dispensato suggerimenti, opinioni, punti di vista estremamente utili, incoraggiandomi durante la stesura. Ed infine alla mia carissima moglie Paola, che mi ha accompagnato nello svolgimento del lavoro. Come di consueto il suo parere si è rivelato determinante.

    12

    Flashforward

    Guido è morto.

    Dopo la messa, nella cappella stracolma di gente, le spoglie vengono portate sulle spalle dai colleghi che si muovono con passo cadenzato all’interno della Ugo Mara, la caserma dove Guido ha prestato servizio dal 1956 e dove ha abitato per sedici anni.

    Molti colleghi di Busto Arsizio partecipano al funerale per sincera ammirazione e per rispetto verso un sottufficiale che ha vissuto sempre il senso del dovere fino all’ultimo respiro. Ma anche per stare vicino alla moglie di 44 anni e ai quattro figli rispettivamente di 22, 19, 16 e 10 anni.

    È una giornata di lutto, anche il cielo è nero di pece. Il feretro attraversa il viale alberato della caserma, dove i pioppi, in questo giorno di autunno, al suo passaggio sembrano ritti sull’attenti.

    Il cagnolino Fox, un bastardino molto legato a Guido, senza mugolare, piange per la scomparsa del suo padrone. Con il pelo nero lucido, ora ancora di più perché bagnato da una fitta pioggerella, è lì fermo, immobile come una statua, con la coda bassa tra le zampe, sguardo fisso sulla cassa che punta con il muso. Quasi in presentat’arm.

    Fox, che correva veloce come il vento a un solo fischio di Guido, che zigzagava tra le sue gambe facendolo ridere e barcollare, adesso sembra inerme.

    Passato il lungo corteo, china il muso, gira su se stesso e lentamente si incammina per tornare a cuccia.

    Guido, tabagista decennale, è morto per un tumore ai polmoni che in meno di due mesi lo ha annientato. I medici dicono che è stato fulmineo.

    E non poteva essere altrimenti, visto che Guido è sempre stato un bersagliere dal guizzo rapido e inarrestabile.

    Quella morte, che più di una volta Guido ha visto negli altri, nei suoi avversari e nei suoi compagni, negli animali, nei suoi amici di battaglia e di prigionia, ora ha bussato alla sua porta, minando rapidamente il corpo come anni prima la sua squadra aveva minato il ponte Mussolini per rallentare l’avanzata inglese.

    La morte gli ha dato appuntamento non ancora sessantenne, il 4 ottobre 1972, quasi per chiudere il conto aperto negli anni quaranta con tanti giovani falcidiati durante il combattimento.

    Guido è morto sul letto d’ospedale, come è successo al campano Esposito, dopo non poche sofferenze. Ma al contrario dell’amico napoletano, al suo fianco ha avuto l’affetto dei suoi cari, di sua moglie e dei suoi figli.

    Da ottimo sottufficiale, ha obbedito alla morte con il suo fiat. Si dirà che non poteva fare altrimenti, ma in realtà ha ceduto suo malgrado e per la seconda volta. La prima, infatti, è stata quando è passato in fila con i suoi compagni prigionieri al cospetto degli inglesi, che però hanno riconosciuto loro l’onore delle armi.

    Da buon pittore che era, l’ultima frase detta a sua moglie è stata: «Vorrei che questa stanza fosse tutta tappezzata di quadri con il volto dei miei figli».

    Medaglia al valor militare, cavaliere della Repubblica, maresciallo maggiore aiutante di battaglia, premiato con la medaglia d’oro per anzianità, ha dato molto al suo paese che ha sempre amato.

    Anche quando nel lager ha sentito dalla radio clandestina il proclama di armistizio di Badoglio dell’8 settembre 1943.

    Anche quando Mussolini ha interrotto inspiegabilmente i contatti per un paio di mesi con il viceré dell’Africa Orientale Italiana, duca Amedeo di Savoia-Aosta.

    Anche quando la lettera, inviatagli a guerra finita dal caporale Basso, gli ha instillato un dubbio atroce, che lo ha interrogato su quanto veramente i governanti tenessero ai propri militari che combattevano e audacemente resistevano a Cheren contro ogni previsione.

    Su quanto veramente i governanti tenessero ai militari sfiniti, laceri, decimati in una guerra senza quartiere e poi portati nei campi di concentramento prima in Africa, quindi in India.

    Una vita senza umanità, trascorsa soffrendo la fame, la sete, il caldo, il freddo, l’ammasso in baracche sudice e lorde con le guardie anglo-sudanesi sempre pronte a infliggere violenti pestaggi per vendicarsi della resistenza italiana a Cheren.

    Gli inglesi, che hanno trattenuto i prigionieri di guerra oltre ogni tempo ragionevole, che li hanno fatti soffrire, che li hanno torturati, che si sono vendicati in particolar modo con gli ufficiali e i sottufficiali, ora non possono più nulla.

    Guido è morto.

    E adesso, insieme ai suoi compagni di guerra che lo hanno preceduto, conosce la verità di tante cose.

    1

    Si parte

    E dopo aver salutato i superiori, escono e si dirigono verso il cancellone del distretto militare di Massa. A passo da chiacchiera, camminano lungo il vialetto di querce che porta al circolo dell’oste Giovanni per brindare alla prossima partenza.

    Appena il tempo di qualche convenevole poi il sergente Pretto, appartenente al corpo dei granatieri, chiede con un po’ di preoccupazione: «Allora Guido, dici che staremo bene?». Pretto è giunto a Massa dal Veneto, antepone a un fare interrogativo un aspetto baldanzoso e ha due spalle così. Un pezzo d’uomo.

    «Certo, è territorio italiano», è la risposta di Guido, anch’egli sergente, ma dei bersaglieri, gambe poderose per il suo passato da ciclista, solido, con braccia forti quanto il suo senso della patria. Un uomo tutto d’un pezzo.

    «Sì, è vero», replica Pretto, «però Dessì che ha detto non dobbiamo temere nulla, ha poi aggiunto che è pur sempre territorio straniero, al di là del Mediterraneo. Questo non puoi negarlo, Guido».

    «Oh Pretto, Dessì è un sergente maggiore, non mente, suvvia! Pensa alle parole al di là del Mediterraneo è corretto, perché Addis Abeba là si trova».

    Tira fuori dal taschino un foglio di carta e la matita che porta sempre con sé e comincia a disegnare la geografia dei territori.

    Guido ha frequentato la scuola d’arte ed è sempre stato molto bravo nel disegno tecnico come in quello a mano libera.

    Con precisione tratteggia i confini e fa vedere a Pretto quello che aveva detto Dessì. Quindi continua: «Non ti devi preoccupare se il sergente maggiore ha detto è pur sempre territorio straniero, perché è una verità, anche se ora è colonia italiana». Mentre traccia una linea che unisce la Toscana all’Africa dice con tono risolutivo: «Insomma credimi, l’Impero è come se fosse l’allungamento della nostra Italia. Ce lo ha ribadito poco fa anche il tenente Guarnieri, te lo ricordi oppure no?».

    «Sì, me lo ricordo, ma sai com’è? Il viaggio è lungo, la meta lontana…».

    «Sì, Pretto, è vero, ma la patria è la patria…», rincalza Cestaro, come Guido sergente dei bersaglieri, un venticinquenne tutto muscoli e cervello, «…e bisogna difendere i confini della nostra nazione».

    Cestaro è un gigante d’uomo, intelligente, attento e perspicace, da sempre affascinato dalle scoperte e dai luoghi nuovi. Non ha mai abbandonato l’attività ginnica perché sa che l’addestramento formale è indispensabile per un militare e costituisce una marcia in più se accompagnato da prestanza fisica. Si può dire che è un astuto Marcantonio.

    «Ben detto, Cestaro!», risponde Guido. «Ora sediamoci là, al circolo di Giovanni e beviamoci del buon Chianti».

    «Va bene Guido, forse le mie sono solo preoccupazioni inutili… un bicchiere e vedrò tutto più chiaro. Giusto?».

    «Proprio così, Pretto!».

    E tra una risata e una sigaretta nazionale senza filtro, i tre con la divisa militare invernale un po’ abbondante indosso, scendono la strada poco alberata, accarezzata da un vento mite che li accompagna al circolo.

    Tolta la bustina dal capo e inserita sulla spalla sinistra, i tre entrano in ordine di altezza Guido, Pretto e il gigante Cestaro.

    Corre a servirli un ragazzo esile e allampanato che i tre militari conoscono bene.

    «Gebbedè», dice Guido di getto, «portaci tre rossi e un portacenere». Con il solito sorriso che gli spacca in due il viso imberbe, Gebbedè corre da suo padre Giovanni, proprietario del circolo, e in poco tempo porta le ordinazioni al tavolo.

    «Bravo Gebbedè», gli dice Pretto che ora appare più convinto e sorridente. «Sei una scheggia! Quando sarai più grande ti porteremo con noi nelle terre dell’Impero. Che ne dici, Giovanni?».

    «Pretto, fallo diventare grande», replica Giovanni. «Ora a jè la scuola, poi a se mire»¹. Intanto Guido, con la nazionale accesa tra le dita giallognole soprattutto in prossimità dei polpastrelli, appoggia la sua poderosa mano sulla spalla del ragazzo agitando tutto il corpo pelle e ossa e gli dice sorridendo: «Da grande devi fare il bersagliere, il bersagliere!».

    «Fa’ una cosa Gebbedè, portaci anche due fette di biroldo² con un po’ di pane», aggiunge Cestaro che ha appena spento la nazionale. Quindi si china ad allacciarsi gli stivaletti e intanto alza il capo e osserva distrattamente il monte Brugiana che fa capolino subito fuori dal circolo.

    In quel mentre il suo sguardo è attratto da un grande masso che, staccatosi dall’alto, rotola sul crinale, rimbalza e nell’impeto porta dietro sé una frana di sassi che lo raggiunge e lo seppellisce.

    Uno spettacolo maestoso, che lo coinvolge emotivamente e gli fa sentire qualcosa che lo scuote e lo ammutolisce allo stesso tempo. Qualcosa che lo turba dentro e che avverte come un inspiegabile presagio.

    «Cestaro, Cestaro, sveglia! Che stai guardando, le montanare?».

    «No, Guido, guardavo la Brugiana e…».

    «… e cercavi di intercettare qualche bella ragazzotta. Di’ la verità Cestaro, ormai penso di conoscerti».

    All’incalzare di Guido, Cestaro non replica, tira giù la testa e gli altri cominciano a prenderlo in giro e a ridere di gusto. Anche Gebbedè se la ride con le ginocchia una contro l’altra, mentre chino muove il busto avanti e indietro. Filiforme com’è, pare un burattino mosso a scatti.

    Il padre Giovanni accenna a un sorriso e continua imperterrito a pulire i bicchieri della sala con uno straccio appoggiato sopra la spalla sinistra.

    Giovanni non ha così tanta voglia di ridere come i clienti del suo locale, come il suo stesso figlio. Vedovo, robusto, pochi capelli perennemente grassi, fronte bassa, non si sente più molto bene ormai da alcuni mesi. Accusa un affaticamento in tutto il corpo e non si sa dare spiegazioni. Al figlio preferisce non dire niente, ma di tanto in tanto, tra un cliente e un altro, dà un’occhiata al foglio degli esami appena fatti in ospedale che tiene nel cassetto del bancone. Non capisce molto bene cosa dicano, però si sente preoccupato anche per la continua spossatezza e si ripromette di andare dal dottore appena avrà un attimo di tempo.

    Anzi, in quell’istante di confusione, prende l’occasione al balzo e chiede a Guido: «O Guido, tu pò venire qui doman ca deve uscire? Mi, tu sta’ un’oretta e poi a ritorne».³ Prima che Guido risponda, con un guizzo tutto pieno di vita Gebbedè irrompe bruscamente: «Va’ pure babbo, ci sto io, ormai sono grande».

    «No, a tu deve andare a scuola».

    «Ma babbo a jè per un’ora sola! A entre po a scuola e poi a recupere. Tu lo sa ch’a i son bravo. Come tu dice? A me le so cavare le mosche dal naso».

    «Mondo, o Gebbedè! O Guido vien te, ca jè mejo».⁶ Ancora con il sorriso in bocca per la risposta di Cestaro, Guido risponde: «Non temere che domani posso uscire per un’ora dal distretto intorno alle undici e vengo qui».

    «Va ben, cuscì a vade tranquilo».⁷ Sottovoce continua: «Ai son preoccupato, a voje te al posto di Gebbedè».⁸ Poi alza la voce per farsi sentire: «A voje te al posto de Cestaro, ca me pare a mire altre co’, no?»⁹ e intanto strizza l’occhio per far credere di stare al gioco.

    Giovanni rimette in moto il coro di risate e di scherzi, che deviano l’attenzione dei militari dalla sua preoccupazione sempre più percepibile al solo sguardo.

    «A domani, Giovanni», dice Guido con una mano sulla spalla di Pretto e l’altra sulla schiena dell’altissimo Cestaro.

    «A doman o fanti», risponde Giovanni ancora intento ad asciugare bicchieri e caraffe con il lungo cencio legato in vita.

    «Sissignori, a domani!», replica Gebbedè con il saluto militare. Tutto ritto, in attenti, mento alto, sguardo fisso in avanti. A vederlo così, sembra proprio un soldatino.

    L’indomani i tre si ritrovano nel circolo di Giovanni tra un di quel bon¹⁰ e qualche fetta di biroldo accompagnato dal pane sciapo toscano.

    Guido getta lo sguardo fuori dall’ingresso del circolo e vede ritornare Giovanni visibilmente provato. Cammina come un automa con lo sguardo perso, e l’aspetto è malconcio e disordinato anche perché il vento gli alza il riporto che ricopriva parte della testa calva.

    Ora l’immagine di Giovanni appare più malata, Guido si alza, gli va incontro prima che entri nel locale e con un tono basso di voce gli chiede: «Hai fatto quello che dovevi? Tutto a posto?».

    «Ho fatto, ho fatto», risponde malinconico Giovanni, «ma a njè niente a posto».¹¹

    «Spiegati Giovanni».

    «A te, sa? A jè poco da spiegare. Il dottoro m’à dito ai siam! T’à capito Guido? T’à capito? Ai siam!».¹²

    Guido continua a sentire quello che Giovanni gli dice sulla sua salute, sul suo circolo e soprattutto su suo figlio che in quel momento sta discutendo con Cestaro e Pretto di cosa significhi fare il militare e partire come volontario.

    Guido prova a incoraggiare Giovanni e a infondergli qualche speranza: «Magari non è così, magari c’è una possibilità, magari…».

    Qui lo interrompe bruscamente Giovanni con occhi mesti: «Magari al more».¹³ Ancora alcuni momenti uno di fronte all’altro per parlarsi e darsi conforto, ma Guido si sente impotente di fronte a Giovanni. Dopo essersi guardati negli occhi, Guido si volta e torna da Pretto, Cestaro e Gebbedè che stanno ancora parlando della vita militare.

    Giovanni si rimette a posto il riporto, entra, saluta tutti e va dietro il bancone per continuare a sbrigare le sue faccende.

    Un bicchiere di Chianti tutto d’un fiato e Guido invita a uscire dal circolo. Cestaro e Pretto si alzano, salutano militarmente Gebbedè che risponde al saluto battendo il tacco per terra. Poi i due salutano Giovanni che non risponde e li guarda nostalgicamente.

    Guido aspetta che i compagni escano dal locale, quindi si rivolge a Giovanni con tono amichevole: «Per qualsiasi cosa chiamami attraverso il distretto militare.

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