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Le guerre oscure. Il risveglio
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Ebook505 pages7 hours

Le guerre oscure. Il risveglio

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About this ebook

Anno 9750 del Terzoevo. Edward Penyghon, guerriero di Erellon, la città costruita sugli alberi, nel Bosco di Agraas, ha il compito di proteggere la sua casa e la gente della sua città. Nell'adempiere al suo dovere, s'imbatte in alcune strane morti, quanto mai macabre. Nel Bosco Proibito, alcuni suoi concittadini vengono trovati senza vita e privati del cuore. Insieme al suo amico Sebastian, s'imbatte in oscuri esseri che non si vedevano a Neteron da millenni. Alla ricerca di risposte, i due amici intraprendono un viaggio che si rivelerà più arduo di quanto pensassero. morte e distruzione anticipano i loro passi e un ancestrale potere sembra aver scelto Edward come sua dimora.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 6, 2019
ISBN9788831600262
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    Book preview

    Le guerre oscure. Il risveglio - Celestino Valerio Cassese

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1 - La caduta

    Capitolo 2 - La lezione

    Capitolo 3 - Edward e Sebastian

    Capitolo 4 - Il riposo

    Capitolo 5 - Alla taverna

    Capitolo 6 - Il regno di Gelos

    Capitolo 7 - Il dovere di un guerriero

    Capitolo 8 - Gli Hunker

    Capitolo 9 - Terribile sensazione

    Capitolo 10 - Il dono

    Capitolo 11 - L’ombra nel bosco

    Capitolo 12 - Echi dal passato

    Capitolo 13 - La bestia

    Capitolo 14 - La dimora dell’antico

    Capitolo 15 - Verivhna

    Capitolo 16 - Il Covo delle Ombre

    Capitolo 17 - Ardente

    Capitolo 18 - Vernon Thal di Astcott

    Capitolo 19 - Cenere

    Capitolo 20 - Lontani da casa

    Capitolo 21 - Il prigioniero

    Capitolo 22 - Oltre il bosco

    Capitolo 23 - Il prigioniero della cella accanto

    Capitolo 24 - Verso Elifyn

    Capitolo 25 - L’ispezione del re

    Capitolo 26 - Sonya

    Capitolo 27 - Il re Nahil

    Capitolo 28 - Tra i passi gelidi

    Capitolo 29 - Il tempio della notte eterna

    Capitolo 30 - La follia

    Capitolo 31 - Il ritorno del Re

    Capitolo 32 - Cena a casa Kenneth

    Capitolo 33 - Scacchiera

    Capitolo 34 - Il canto del cigno

    Capitolo 35 - Spezzare le catene

    Capitolo 36 - Sogni ardenti

    Capitolo 37 - Stoffe reali

    Capitolo 38 - Oltre il gigante

    Capitolo 39 - Il manufatto

    Capitolo 40 - La carovana

    Capitolo 41 - Nei regni degli uomini

    Capitolo 42 - Lavarsi col sangue

    Capitolo 43 - Grano marcio

    Capitolo 44 - La violenza delle fiamme

    Capitolo 45 - Proposta indecente

    Capitolo 46 - Ammonimento

    Capitolo 47 - Mani di velluto

    Capitolo 48 - Roccagloriosa

    Capitolo 49 - Listra

    Capitolo 50 - Al cospetto di Ander

    Capitolo 51 - Sogni di sangue

    Capitolo 52 - La biblioteca

    Capitolo 53 - Fiumi di sangue

    Capitolo 54 - Amici e nemici

    Capitolo 55 - Invito al banchetto

    Capitolo 56 - Dichiarazione d’intenti

    Capitolo 57 - Ultimi sospiri

    Cassese Celestino Valerio

    Le guerre oscure

    Il risveglio

    Youcanprint Self-Publishing

    Titolo | Le guerre oscure-Il risveglio

    Autore | Cassese Celestino Valerio

    ISBN | 978-88-27864-43-2

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta

    senza il preventivo assenso dell’Autore.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6 - 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Prologo

    L’inverno era ormai giunto al termine, indugiavano solo gli ultimi venti freddi che scendevano lungo le pendici del Caradoc a ricordare la stagione che stava passando. La primavera era alle porte e il bosco di Agraas riacquistava il suo aspetto lussureggiante. Il ghiaccio tratteneva ancora, in qualche esiguo punto, qualche fiore nella sua gelida, ma debole morsa. Il sole penetrava tra gli alti alberi ridestando il sottobosco che si ribellava alla presa del freddo.

    «Non possiamo spingerci oltre» Marc osservò i confini di Grande Bosco. Avevano superato il lago alberato di Owain e gli alberi fradici e marci segnavano il confine con il bosco proibito.

    «È appena iniziata la giornata, i predatori non escono a quest’ora» replicò Voun. Imbracciava un arco con la freccia già incoccata e guardingo osservava il bosco e ogni suo movimento.

    Marc era il più piccolo tra i due, era sulla quindicina ed era la prima volta che usciva a caccia da solo con il fratello, poco più grande di lui. «Nostro padre ci ha d…»

    «Lo so cosa ci ha detto nostro padre» lo interruppe prontamente Voun. «Ma se ricordi ci ha chiesto, anzi ci ha pregato di rientrare a casa con la cena» aggiunse.

    «Voun, ascolta! L’ho sentito bisbigliare con nostra madre, diceva che avevano trovato i corpi morti di due cacciatori ai confini di Grande Bosco» disse con voce tremante il piccolo.

    «Sono cazzate! Nessuno ha trovato nulla qui, altrimenti ne avrebbero parlato in città» ribatté a voce bassa.

    Marc non fu convinto dalle parole del fratello. Trasudava paura a ogni passo, mai era giunto così vicino al bosco proibito, così vicino a dove avevano trovato dei cadaveri. «Voun, andiamo via! Ci sono altre zone in cui cacciare» insisté a voce bassa.

    «Se e quando avrò bisogno di un tuo consiglio, fratello, sarò io a chiedertelo» replicò Voun stizzito, con gli occhi rivolti al cielo. «È da stamattina che giriamo per il bosco senza trovare nulla, se qualcosa si è svegliato dall’inverno qui lo troveremo» aggiunse. Nella sua voce c’era una punta di rabbia: erano ore che camminavano senza vedere alcun animale, nemmeno uno scoiattolo su un albero. Era la prima volta che cacciava col fratellino, doveva insegnargli come farlo e soprattutto a non aver paura del silenzio del bosco. Il padre più volte aveva portato Voun con sé, insegnandogli i segreti della caccia. Una volta gli fece cacciare un cervo: era raro che un giovane membro di una famiglia di cacciatori le cui uniche prede erano animali di piccola taglia cacciasse un grosso cervo. La divisione in caste aveva portato le persone meno capaci a cacciare i piccoli animaletti che veloci sfuggivano nel sottobosco, mentre alle famiglie più capaci toccavano le grosse bestie, bersagli più grandi ma dalla pelle dura e agili tra gli alberi più delle lepri o dei piccoli animali, che risultavano più facili da catturare quando si piazzava una buona trappola. Ma lui non fallì. Era bravo, il migliore per la sua età. Non ammetteva sconfitta, il suo orgoglio era stato nutrito troppo e troppe volte dal padre, lui che poteva essere alla pari con un cacciatore delle grandi famiglie di Erellon, l’alta città costruita sopra gli alberi. Con il volto guardingo e teso e la freccia sempre incoccata, oltrepassava i confini di Grande Bosco. «Nostro padre non dovrà sapere nulla di questo» ordinò Voun a bassa voce. Marc si limitò a rispondergli con un cenno del capo.

    Imbracciava un arco come il fratello, aveva i capelli rossicci come lui e come lui aveva i suoi stessi occhi verdi e indossava il foulard rosso dei Cavan, ma non era lui. A Marc non era mai piaciuto cacciare, il suo cuore era troppo dolce e buono, non era avvezzo alla violenza e al sangue. Eppure, era nato in una famiglia di cacciatori. Il padre gli aveva insegnato le basi come al figlio maggiore, ma, benché le avesse apprese velocemente, riusciva a cacciare poco o niente. Sarebbe stato meglio se fosse nato tra le schiere dei raccoglitori, che di rado uccidono qualche animale e solo quando strettamente necessario. Quando tendeva un arco le sue mani tremavano e la sua fronte sudava.

    «Cos’è stato?» chiese d’un tratto, impaurito, voltandosi freneticamente con l’arco teso e puntandolo in ogni direzione.

    «Sono stati i tuoi passi, idiota!» gli rispose il fratello con un tono seccato. «Qui non si sente proprio nulla» continuò a voce bassa Voun.

    Il bosco era silenzioso, troppo per essere una giornata di primavera. Gli uccelli non cinguettavano e non si udiva il suono degli animali nascondersi tra i cespugli, anche il vento dell’Ovest aveva smesso di far vibrare le foglie. Gli echi dei loro passi e del loro respiro risuonavano tra gli alberi, ormai era diventato l’unico suono che riuscivano a udire.

    Marc non smetteva di voltare con smania la testa in ogni direzione. «Questo posto mette i brividi» disse.

    Se suo padre fosse stato lì gli avrebbe ricordato che un buon cacciatore mantiene i nervi saldi, evita di guardare ovunque senza in realtà focalizzarsi su niente e si congiunge armoniosamente con la natura, fino ad annullare quasi la sua presenza. No, la caccia non era per niente fatta per lui.

    Gli alberi contorti formavano un passaggio angusto per addentrarsi nel bosco proibito. Si contorcevano ed emettevano strani versi, come se qualcuno stesse stritolando i rami. La luce aveva smesso di illuminare il loro cammino, solo un pallido riflesso li guidava.

    Un’eco cupa cominciò a invadere il Bosco Proibito. Di scatto Marc si voltò. «Cos’è stato?» disse ancora. Con gli occhi carichi di paura scrutava il bosco che lentamente si spegneva sotto il suo sguardo, come una candela che ha terminato lo stoppino. Tese sempre di più l’arco che si incurvò sotto le sue mani. «Hai sentito, Voun?» chiese, sempre più in preda al terrore.

    Voun fece un cenno contratto con il capo. Il suo sguardo e la sua sicurezza cominciarono a vacillare.

    Ci fu un attimo di silenzio.

    Marc cominciò a tremare come una foglia, il viso sbiancò. Il Bosco Proibito si stava chiudendo attorno a loro in una spirale di paura.

    Un’altra eco.

    Cominciò a distinguersi una voce, che parlava una lingua incomprensibile. Voun si voltò di scatto verso la fonte della voce, ma non vide nulla. Troppo silenzio nel bosco, troppo. Le mani gli cominciarono a sudare e con esse la fronte.

    Marc vide il fratello cedere al nervosismo. «Cosa c’è, fratello?» chiese impaurito.

    Voun freneticamente si guardava attorno, ma nulla, neanche le foglie si muovevano. «Niente!» rispose. «Andiamo via, troveremo un’altra zona di caccia» concordò infine.

    Udite quelle parole, Marc sorrise nervoso. Riacquisì una calma apparente, che veniva turbata dal minimo fruscio. Aveva rilegato la paura nel ventre, per non sentirla attraversare le mani che per un attimo era riuscito e tener ferme. Per un attimo. Avanti a sé non vedeva più nulla, le ombre si facevano sempre più dense, diventavano quasi palpabili, una cortina impenetrabile e oscura, un respiro asfissiato dove ogni cosa taceva come morta ma viva al tempo stesso; una presenza incombente e invisibile aveva pervaso il Bosco Proibito dal sapore della morte, facendolo piombare nell’oscurità senza né inizio né fine.

    Marc divenne terreo in volto, era in preda al panico, le lacrime cominciarono a solcargli il viso. «C-che sta su-succedendo?» balbettò facendosi attraversare dal terrore che tanto difficilmente era riuscito per un attimo a imprigionare.

    Voun non gli rispose.

    Un brivido di paura percorse la schiena e i muscoli del fratello più grande, facendogli scoccare per sbaglio la freccia. Si vergognò di se stesso. Inspirò ed espirò profondamente, cercando di recuperare la calma e la concentrazione, ma invano. Ansimava, non per stanchezza dopo una lunga corsa, no, ma per paura. Si guardò le mani, gli tremavano come mai prima di quel momento. Con le mani tremanti, tentò di afferrare un’altra freccia dalla faretra e con enorme difficoltà riuscì a incoccarla. Un terribile pensiero si insinuò nella sua mente. Suoni sinistri provenivano da ogni parte di quel muro di oscurità. D’un tratto gli alberi, che si erano chiusi attorno a loro come una mano attorno a una pietra, ripresero la loro forma allontanandosi dai due ragazzi. Uno spiraglio di luce riuscì ad attraversare il fitto strato di oscurità, penetrando il muro di foglie e tenebre eretto dal Bosco. A pochi metri da loro, illuminato dalla debole luce che era riuscita a vincere le tenebre, si palesò una roccia nera, che come una lama si ergeva dalla terra. Voun si avvicinò incuriosito, una strana calma aveva preso il posto della paura.

    «Voun, cosa fai?» chiese con voce bassa Marc.

    «Voglio solo vedere» rispose.

    Voun si avvicinava alla roccia, che faceva echeggiare nella sua mente incomprensibili parole, attirandolo a sé, come le sirene sulle isole nella Lastra di Mare. Si avvicinò abbastanza da toccarla e quella voce, d’un tratto, smise di chiamarlo. Protese la mano sfiorando la roccia nera.

    Non successe nulla.

    Poi d’un tratto la roccia cominciò a emettere una luce rossastra, dissipando le tenebre del bosco. Un grido acuto fece portare le mani alle orecchie ai due ragazzi, che lasciarono cadere l’arco, restando completamente privi di ogni difesa. La roccia si spaccò in due e cominciò a sgretolarsi sotto lo sguardo sofferente di Voun. Quell’acuto strillo s’interruppe di colpo e le orecchie dei ragazzi smisero di soffrire. Restò solo la polvere e un oggetto che era rimasto sospeso a mezz’aria. Voun per un attimo indietreggiò, ma infine si avvicinò abbastanza all’oggetto da averlo a un palmo dal volto.

    «Che vuoi fare?» lo interrogò terrorizzato Marc.

    Voun non rispose. Era fermo dinanzi all’oggetto che roteava su se stesso a mezz’aria, lo osservava assorto come se l’oggetto stesse in qualche modo interagendo con lui. D’un tratto lo afferrò tra le mani. Era pesante e dorato e aveva la forma del sole. L’oggetto improvvisamente cominciò a emettere la stessa luce rossastra che aveva emesso la pietra. La polvere nera ai piedi di Voun si raccolse in una densa nube, cominciando a ondeggiare a mezz’aria come una nuvola carica di tempesta. Poi scomparve nel bosco.

    Il Bosco Proibito piombò nuovamente nell’oscurità e gli alberi ripeterono la tetra danza che chiuse nuovamente i ragazzi tra le loro spire. Pesanti passi cominciarono a scandire il trascorrere degli attimi. Voun fece cadere l’oggetto, ritrovando la sua lucidità, come se lasciandolo cadere si fosse rotto l’incantesimo che aveva chiamato il ragazzo a sé e lo aveva costretto ad afferrare l’amuleto a forma di sole.

    «Cos’è successo?» si chiese a metà tra il tono di uno che conosceva la risposta e quello di chi non ne sapeva niente.

    Il fratellino non fece a tempo a spiegargli nulla, quei passi erano giunti così vicini da poterli sentire rituonare nel cervello. Voun indietreggiò di scatto e raccolse il suo arco, incoccò la freccia e lo tese dritto davanti a lui. Marc fece lo stesso ma le mani gli tremavano e non riusciva a tener ferma la sua arma per più di qualche istante.

    Davanti a loro c’era l’oscurità più assoluta, riuscivano a stento a vedere i contorni degli alberi. I passi diventavano sempre più pesanti, sembrava che l’oscurità si protendesse famelica verso di loro. Dalle ombre spuntarono due terribili occhi che brillavano di una pallida luce violacea, come gemme tra le tenebre. Sotto quegli occhi terribili si allungarono argentee fauci, che mostravano due serie di denti affilati e bramosi. I due ragazzi restarono impietriti. Voun scoccò una freccia, ma rimbalzò sull’ombra. Marc fece lo stesso, ma ottenne il medesimo risultato.

    Voun era paralizzato dal terrore, pallido in volto, aveva gli occhi sbarrati, quasi assenti, le gambe gli cominciarono a tremare. Cercò di parlare, di farfugliare qualcosa, ma le parole non uscivano dalle sue labbra strozzandosi in gola. Marc si avvicinò al fratello in preda al panico, piangeva, e intanto quel ghigno malefico e i suoi occhi terribili si avvicinavano. Marc scosse con forza il fratello. «Voun, Voun!» gli gridò. Ma Voun non rispose, era perso nelle sue paure. Il cuore sembrava volesse scoppiargli nel petto. La vescica cedette, bagnando le braghe. Un solo suono riuscì a emettere. «Scappa» disse Voun.

    Marc lo scosse ancora ma lui restò immobile.

    «Scappa!» ripeté, stavolta urlando.

    L’ombra avanzava a passi veloci. Marc lasciò cadere l’arco e fuggì nella direzione da dove era giunto. Voun rinvenne dal suo torpore, l’istinto di sopravvivenza gli diede forza. Lasciò cadere l’arco e corse, corse con quanto fiato avesse in corpo, ma l’ombra era lì, ne riusciva a sentire l’odore e l’alito sul collo. Si voltò e urlò. Le urla del ragazzo riempirono il Bosco Proibito e giunsero a Marc come una pugnalata al petto.

    Marc si fermò di colpo.

    Voleva ritornare indietro da lui, ma l’ombra incalzava, lo stava raggiungendo. Strozzando un pianto di dolore e paura continuò a correre. Correva, correva come mai prima, aveva i muscoli delle gambe in fiamme. Riuscì a uscire dal Bosco Proibito.

    Si fermò di colpo.

    A pochi metri da lui, dall’alto degli alberi, cadde un corpo, si avvicinò a passo svelto e rimase inorridito da quello che aveva di fronte ai suoi occhi. Era il corpo inerme di Voun. Sul volto bianco cadaverico si era scolpita una smorfia di terrore, aveva gli occhi vitrei e la bocca spalancata. Il corpo era dilaniato, gli mancavano le braccia e le gambe, ed era vestito da un abito di sangue. Marc si avvicinò per toccare il volto del fratello, quando posò lo sguardo sul suo petto insanguinato. Sbiancò. Il petto era stato squarciato e il cuore strappato. Gli balenarono in mente le ultime parole del fratello, scappa. Marc prese coraggio e continuò a correre, ma si bloccò di colpo. L’ombra era lì, davanti ai suoi occhi. Si avvicinò al ragazzo, pietrificato dal terrore. Lo annusò, lo leccò e sogghignò.

    Un acuto urlo di dolore riempì il bosco. Poi più nulla.

    L’impudenza e il sangue avevano risvegliato qualcosa che dormiva da millenni, qualcosa di terribile che la gente del Bosco e di tutta Neteron non avrebbe potuto immaginare, qualcosa che avrebbe squassato l’intero continente portandolo alla rovina.

    Capitolo 1

    La caduta

    La notte rivestiva di tenebre fitte e quasi palpabili tutta la terra di Neteron. La luna era incastonata nell’oscurità solo per un quarto e le stelle, grazie alla sua assenza, ardevano forti nel cielo, soprattutto quella di Heddwyn, che si affacciava alla nuova stagione, la sua. Dal cielo così impreziosito, si staccarono due gemme che solcarono le tenebre su un’onda di fuoco. Attraversarono tutta Neteron, squarciando il velo celeste con un’intensa luce rossastra, seguita da un acuto e assordante tuono. Si diressero verso le terre desolate del Nord, direzione la Frontiera. divenuta ormai disabitata e inospitale. Accoglievano Troll, che erravano nei suoi deserti di ghiaccio, e barbari, deportati in quelle terre secoli prima e mercenari che avevano fatto della sua desolazione la loro roccaforte. La tribù dei Mangiaossa osservava dalle coste del Nord la terra di Neteron, irraggiungibile per il suo basso ingegno. Non erano mai riusciti a costruire un’imbarcazione che permettesse loro di attraversare il Mare Sospeso, un tratto di mare perennemente grosso, flagellato dai venti dell’Est che s’insinuano nello stretto del Mare Sospeso chiamando a sé alte onde che si infrangono su qualunque imbarcazione poco adatta navighi nelle sue acque. Videro le due stelle solcare il cielo e schiantarsi nella loro desolata terra. Byron, il capo della tribù, prese con sé due uomini e si diresse dove le stelle erano cadute formando un profondo solco nel suolo. Seguirono le tracce che avevano lasciato nel cielo, un denso fumo che ancora permaneva nell’oscurità insieme agli ultimi residui di luce e fuoco. In gran fretta giunsero nel luogo dello schianto e lì, in due profonde buche, c’erano due rocce nere come la notte. Una di esse era enorme, assomigliava per grandezza alle rocce di ghiaccio che erravano nel Mare Sospeso. Byron non aveva difficoltà a vederle, i suoi occhi si erano abituati all’assenza di luce. Sotto il suo sguardo, le rocce furono attraversate da un’enorme crepa e cominciarono a sgretolarsi diventando polvere. Dalla più grande Byron vide spuntare una grande mano rossastra, molto più grande della sua, e un essere che cercava di divincolarsi dalla stretta morsa della pietra. L’essere attese che tutta la roccia si frantumasse prima di uscire completamente. Non appena sentì l’aria fredda del Nord gelargli il volto, cadde in ginocchio, sorridente. Si portò le mani al viso e disse qualcosa di incomprensibile. Ancora barcollante, s’inerpicò per la voragine generata dalla sua caduta. Quando uscì si erse come una torre, alta e ritta. Vide tre uomini che lo guardavano, ma non se ne curò. Era completamente nudo e sulla sua pelle rossastra si scorgevano cicatrici di battaglie e strani simboli incisi nella carne. Si spostò i cinerei capelli che gli infastidivano gli occhi del colore del sangue. Le orecchie erano a punta come quelle di un elfo, ma a eccezione di questo piccolo particolare era troppo diverso dalle tribù elfiche di Neteron. Si guardò intorno, allungò la mano destra verso la buca generata dal suo impatto al suolo richiamando a sé i frammenti della pietra. La polvere di roccia cominciò immediatamente a levitare verso di lui, plasmando sulla sua pelle rossastra un’armatura nera. «Sono rinatoooo!» urlò, facendo vibrare la zona circostante.

    Si voltò verso gli uomini che erano rimasti fermi a guardare.

    Byron, in un incontrollabile istinto, fece cenno con il capo ai suoi sottoposti di attaccare la creatura. I due Mangiaossa non esitarono, ma l’essere li fece fuori entrambi solo con lo sguardo. I due barbari caddero a terra senza vita con il corpo contorto come se questi fossero stati schiacciati dalle mani di un gigante. «E voi chi siete?» chiese. La sua voce era cupa e fredda, tanto cupa da scuotere le tenebre.

    Byron, il capo di una tribù che ammazzava qualunque cosa respirasse, restò impietrito per la rapida e improvvisa morte dei suoi uomini. Dinanzi a una tale differenza di forza non poteva fare altro che sottomettersi e sperare che la sua morte fosse meno dolorosa di quella dei suoi uomini. Si aggiustò la cresta e decise di inginocchiarsi al cospetto dell’essere.

    «Sono Byron, capo della tribù dei Mangiaossa. Al tuo servizio» rispose con un tono che voleva mostrare sicurezza, ma dal quale si evinceva solo paura e terrore.

    «Bene, uomo, già sai qual è il tuo posto. In ginocchio!»

    «Qual è il suo nome, mio signore?» chiese Byron.

    L’essere non rispose. Si guardava attorno alla ricerca di qualcosa. Riconobbe quella terra come sua. Ma era sterile, senza vita. «Dove sono i miei Abomini?» chiese.

    «Chiamalo il Re Rosso, uomo» rispose un essere dall’ombra.

    Byron udì le parole sopraggiungere dietro di lui, udendo anche l’inconfondibile suono di passi. Il barbaro non si voltò, per timore di rimanere stecchito si limitò a rispondere con un tono sottomesso: «Come desidera».

    Il Re Rosso si voltò, sospirò. «Ci sei anche tu, Savael?»

    «Sì, mio signore» rispose Savael.

    «Il mio esercito?»

    «Sono rimaste le ceneri del tuo esercito.» La voce era più dolce, non cupa come quella del suo signore. Indossava la stessa Armatura del re Rosso, nera come la notte, sul petto era inciso un drago a cinque code, che sfolgorava di un rosso carminio. Aveva capelli neri e degli strani occhi scuri dai riflessi rossastri.

    «Savael, il tempo è giunto. La chiave è stata trovata. Dobbiamo prepararci all’Avvento.»

    Savael fece un cenno di approvazione col capo.

    «Bene dunque, riportiamo in vita quello che resta del mio esercito.»

    Il Re Rosso, ancora debole per la caduta, levò le mani al cielo: un’oscura energia cominciò a pervadere il suo corpo, manifestandosi in una densa nube nera carica di elettricità, che si diffuse tutt’intorno come un morbo. L’oscura nube si riversò sull’aspra terra del Nord, penetrando sotto di essa, negli antri più oscuri.

    Ci fu un attimo di silenzio.

    Byron guardava attonito l’opera del Re Rosso con reverenziale paura. L’oscura energia squassò le lande desolate del Nord e, come mossa da un potente terremoto, la terra cominciò a smuoversi e a respirare sotto gli occhi del Re Rosso, di Savael e di Byron, sempre più meravigliato e terrorizzato allo stesso tempo. Dalle viscere fangose della terra desolata emersero esseri mostruosi dal corpo grosso e grigio. Un lungo crine d’ossa affiorava dalla pelle purulenta, zanne gialle uscivano dal loro muso bavoso e occhi neri senz’anima scrutavano dal loro incavo osseo, trafiggendo con lo sguardo qualunque cosa avessero di fronte. Emersi dalla terra si schierarono, come un esercito, dinnanzi al padrone che li aveva richiamati a sé.

    Il Re Rosso osservò gli Abomini che erano emersi. «Sono meno di duemila Abomini e mille Karadas» disse scontento.

    Si voltò verso Byron, che aveva trovato la sua comodità in ginocchio. Il barbaro subito abbassò lo sguardo.

    «Tu, essere abbietto. Quanti uomini hai tra le tue fila?» gli chiese il re Rosso sprezzante.

    Byron alzò lo sguardo, incrociò gli occhi del Re Rosso e lo abbassò nuovamente. «Cinquecento, mio signore» rispose.

    «Così pochi?»

    «Ma ci sono altre tribù, con le quali siamo in guerra sulla Costa Rigida. Sono almeno duemila uomini» aggiunse.

    «Savael, raduna queste tribù di cani. Uccidi i loro capi, se obbiettano. Mostra loro la nostra forza. E portali innanzi a me.»

    «Come desidera, mio signore.» Savael fece uscire dallo schieramento dieci Karadas. Esseri mostruosi senza volto, solo occhi neri, senz’anima. «Tu, uomo, come hai detto di chiamarti?»

    «Byron, mio signore.»

    «Raduna il tuo popolo e portalo qui. Sarete sfamati e avrete uno scopo: quello di servire il Re Rosso» disse.

    «Sarà un onore per me e il mio popolo.»

    Terrorizzato da quello che aveva visto e consapevole che niente avrebbe potuto fare contro degli esseri tanto potenti e oscuri, con l’amara consapevolezza che il suo compito da quel momento in poi era quello di servire, pena la morte, si apprestò a fare ritorno sulla Costa Rigida, per ordinare al suo popolo di seguirlo.

    *

    Trascorsero due interi giorni. Il Re Rosso li trascorse seduto su una roccia, per riacquisire le forze spese nel far rinascere i suoi Abomini caduti.

    Savael ritornò, con un nuovo esercito al suo seguito, formato dagli uomini delle tribù della Costa Rigida. «Mio signore! Ecco le cinque tribù radunate ai suoi ordini» disse.

    Il re Rosso si alzò dalla roccia, che aveva assolto nei due giorni precedenti il compito di temporaneo trono, e li osservò camminando tra le file scomposte. Torreggiava tra gli uomini, era due volte la loro altezza e dal fisico asciutto e possente, facendoli sembrare bambini che giocavano alla guerra al suo cospetto. «Quanti ne sono, Savael?» lo interrogò.

    «Duemilacinquecento, mio signore» rispose Savael.

    Il re Rosso si fermò dinnanzi al suo nuovo esercito di barbari. «Non mi interessa se voi moriate o meno. Sta a voi decidere come. Ora sono io il vostro supremo signore e se mi obbedirete potrete morire in battaglia, come ognuno di voi ha sempre sognato, altrimenti…» serrò il pugno e stritolò tra le urla uno dei barbari nella prima fila, poi lo indicò, come se quella morte dovesse servire da monito per gli altri, «morirete come lui. Tra atroci sofferenze» concluse.

    I barbari rimasero inorriditi e spaventati. In fondo era meglio servire quell’essere e morire in battaglia con onore, piuttosto che morire in quel modo.

    Il Re Rosso rivolse uno sguardo a Savael. «È arrivato il momento di ricostruire il Covo dell’Ombra e di spargere i semi del disprezzo» disse.

    Savael si allontanò di qualche passo dal suo signore, facendo segno agli uomini dietro di lui di fare lo stesso.

    Il Re Rosso raccolse l’oscura energia che lo pervadeva. Si vedeva che era debole e ogni qualvolta l’energia lo attraversava lo sfiancava. Per diverso tempo restò a raccogliere l’energia che gli serviva, molto più di quanto avesse fatto per risvegliare il suo esercito. Cadde in ginocchio, visibilmente provato. Con le dita della mano rossastre, scavò un piccolo solco nella gelida terra e vi indirizzò tutta l’energia oscura che era riuscito a raccogliere. Sfinito, si alzò. Barcollava. Savael giunse dietro il suo signore, che si lasciò cadere su di lui.

    «Siete ancora molto debole, mio signore» disse Savael.

    Il Re Rosso lo guardò con gli occhi stanchi. «Ci vorrà tempo prima che recuperi tutta la mia forza e il mio potere» rispose con voce flebile.

    Savael annuì.

    I Barbari cominciarono a dubitare della forza e della ferocia di quell’essere, che ai loro occhi era così strano. Poi d’un tratto la terra cominciò a tremare sotto i loro piedi e quel dubbio sulla forza di quell’essere essere svanì, portato via dalla terra che sembrava avesse preso vita. Tra le pietre e il fango cominciarono a farsi strada otto germogli con un lungo, grosso e contorto stelo rosso, sulla cui cima dominava un bocciolo grande quanto la testa di un cavallo, ancora chiuso.

    «Bene, sono usciti! Ci vorrà del tempo prima che sboccino» disse il Re Rosso.

    «Attenderemo!» convenne Savael.

    «Savael! Trova la chiave. E ordina a questi esseri abbietti e al mio esercito di ricostruire il Covo dell’Ombra. Presto ci servirà una casa dove poter organizzare la nostra ascesa.»

    «Come desidera, mio signore.»

    Savael depose il Re Rosso sulla roccia che gli aveva fatto da seggio nei giorni in cui egli aveva eseguito gli ordini impartitigli dal suo signore. Ora aveva un altro compito, ancor più importante: doveva trovare la chiave. Savael subito si adoperò, cercò tra i barbari gli uomini migliori, ordinando loro di recarsi sulla Costa Rigida ad attendere.

    Seduto sulla roccia il Re Rosso si assopì, lasciando che il gelo del Nord avvolgesse il suo corpo in una crisalide di ghiaccio.

    Capitolo 2

    La lezione

    Il maestro Darius, un uomo sulla quarantina, aveva attorno a sé i piccoli di Erellon, che non avevano più di una decina di anni. Gli era sempre piaciuto insegnare ai più giovani la storia della scoperta del bosco e della creazione di Erellon, la città tra gli alberi. Il volto di Darius non era poi tanto affaticato, ma i suoi occhi lo erano eccome. Tutti i giorni trascorsi tra libri e pergamene avevano infossato i suoi occhi provocandogli evidenti borse paonazze. Ma lo faceva con amore, insegnare e trasmettere la conoscenza è l’unica vera missione dell’uomo era solito ripetere.

    Come ogni giorno attese che i piccoli andassero da lui per fare lezione, al quinto cantone. Indossava sempre una lunga tunica di colore nero, li attendeva sempre seduto sulla sedia nella sua casa con in mano una tazza di tè. E quando giungevano i piccoli iniziava sempre col narrare le antiche storie di Neteron, almeno quelle che lui conosceva. Si alzò dalla sua sedia, con ancora la tazza piena per tre quarti, si sedette per terra, di fronte ai suoi allievi che erano lì assiepati, pronti ad ascoltarlo. «Oggi iniziamo con la scoperta del bosco di Agraas e la creazione di Erellon!» esclamò soddisfatto.

    I bambini non attendevano altro. La voce di Darius era ammaliante e riusciva a tenere sempre alta l’attenzione.

    «Nel profondo Sud di Neteron,» cominciò a raccontare, «nella sua punta più occidentale, lontano dai grandi regni dell’Est, sorgeva un bosco florido e rigoglioso. Gli alberi crebbero senza alcuna influenza dell’uomo per migliaia di anni, protetti e nascosti a Nord dai monti Caradoc, le cui vette trafiggevano come lame le dense nuvole. A Sud e a Ovest, le alte scogliere si gettavano a picco nel Mare Ignoto proteggendolo, come una barriera, da qualunque pazzo incosciente avesse voluto avventurarsi per le sue acque perennemente in burrasca. Infine, a Est c’erano le Gole di Eiran, un fitto labirinto di sentieri che si snodavano tra le rocce affilate e le crepe senza fondo. Il nome fu dato, come narra la leggenda, da un nano di nome Agraas, che, in cerca di oro e di altre preziosità, si perse nei meandri del bosco.

    Era piccolo, con la barba irsuta e con sé portava sempre un martello-piccone, con il quale aveva scavato una profonda galleria che lo aveva fatto sbucare nel mezzo del bosco.

    Non appena lo vide, restò meravigliato dalla magnificenza del bosco, ma la sua meraviglia fu di breve durata. All’ombra degli alti alberi di sequoie e tra i fitti rami di quercia vivevano alcune delle creature più grandi e feroci di tutta Neteron, che nel bosco regnavano incontrastate. Le tigri dai denti lunghi controllavano il Bosco Proibito e nessun altro animale vi si avvicinava, tranne che per abbeverarsi. Il lago Owain, alimentato dalle acque del fiume Ildrhun, che si generava grazie ai perenni picchi innevati dei monti Caradoc, era la fonte più abbondante di cibo e acqua. L’Owain era al confine col Bosco Proibito e non di rado cervi, lupi-spettro e altri animali si affacciavo alle sue acque per rinfrescarsi. Era proprio in quei momenti che le tigri dai denti lunghi banchettavano, senza fare alcuna distinzione tra chi giungesse nelle loro terre o lì vicino. C’erano poi i lupi-spettro che vivevano tra il Grande Bosco e il Bosco Proibito. Né di qua, né di là. Se avessero varcato i confini del Bosco Proibito, le tigri avrebbero dilaniato i loro corpi, se invece si fossero fatti vedere nella zona più prospera del Grande Bosco, ci avrebbero pensato gli orsi grigi a dilaniare i loro corpi. Vivevano in branco e ancora oggi vivono così. La loro forza è la notte. La luna fa risplendere il loro manto dei colori del bosco rendendoli invisibili a qualunque occhio.

    Agraas non attese nemmeno una notte prima di fuggire. Lasciò il suo martello-piccone, sul cui manico c’era inciso il suo nome, ripercorse la galleria che aveva scavato e ritornò nella sua dimora, in lidi più tranquilli, nelle profonde caverne dei monti Caradoc. Dopo che Agraas lasciò il bosco, per secoli nessuno sguardo si posò su di esso, lasciando che la natura di Neteron regnasse incontrastata. Ma poi giungemmo noi, gli uomini, che ci impadronimmo con forza del bosco. I primi uomini trovarono il piccone, ormai fossilizzato, del nano. Qualcuno di loro conosceva la sua leggenda, quella di Agraas il dorato, il nano o figlio della roccia, che più di tutti si era arricchito scoprendo le miniere d’oro abbandonate di Alcaleen nel regno di Naor e le miniere di Rast nei monti Caradoc. Così i primi uomini diedero al bosco il nome del nano che lo aveva scoperto.»

    «Maestro Darius, come ci siamo arrivati qui, visto che questo bosco era sconosciuto?» chiese uno dei piccoli.

    «Hai posto un’ottima domanda, Fiorn.»

    Il piccolo arrossì e sorrise.

    «Non si sa quando e come siamo giunti. Ma le antiche storie e le leggende narrano di un uomo, di nome Ismahil, che, giunto dal Nord, condusse i primi uomini che abitavano quelle terre fredde al bosco di Agraas. In centinaia seguirono quel forestiero, che apparve a Neteron come per magia. Le leggende narrano che attraversò tutta la regione, passando le cocenti dune del deserto del Serin, a Ovest dei Caradoc. In molti perirono avvolti dalle sabbie del deserto; ma i sopravvissuti continuarono la traversata, con i piedi roventi e le gole riarse. Per cinquanta giorni vagarono nel deserto seguendo la parola di Ismahil. Ma non tutto fu vano. Dopo cinquanta giorni nel deserto, il vento caldo che seccava i volti dei viaggiatori lasciò il posto all’aria fresca delle montagne. Le dune di sabbia cominciarono a vestirsi di erba e fiori e la terra cominciava a diventare solida sotto i loro piedi. Si dice che i sopravvissuti, quando giunsero nel bosco, piansero lacrime di gioia per essersi salvati e per essere giunti in un luogo meraviglioso ai loro occhi ormai stanchi. Ed è proprio da quelle lacrime che nasce il lago Owain.»

    «È nato davvero così il lago?» chiese Brad.

    Darius sorrise amabilmente. «Certo che no, piccolo Brad. È solo una leggenda» gli rispose. Poi riprese: «Ma quel luogo nel quale erano giunti non era poi un’oasi di pace e tranquillità. Le bestie più grandi che avessero mai visto cominciarono a banchettare con i corpi dei sopravvissuti. La notte era diventata un vero incubo. Dovevano scegliere se combattere o fuggire. Ma Ismahil ebbe un’idea che cambiò la loro vita. Non bisogna per forza vivere sulla terra disse al gruppo che lo aveva seguito.

    Ismahil aveva intuito che gli alti e solidi alberi del bosco di Agraas, alti cento metri e più, erano un luogo ideale dove costruire delle case, perché gli animali, per quanto grandi e feroci, non avrebbero mai potuto raggiungere quelle vette. I primi uomini cominciarono subito la costruzione delle prime case, a un’altezza di quindici metri, attorno all’albero più grande, alto più di duecento metri, che chiamarono Lancia di Legno. È da quelle basi in legno che è stata fondata Erellon».

    «Maestro, ma è vero che il Bosco Proibito era abitato da esseri mostruosi e da altre terribili e spaventose creature?» chiese Frion. Sul volto dei bambini si impresse una smorfia di paura.

    Darius ci pensò per un attimo. «La conoscete la canzone La notte dei mostri?» chiese.

    «Sì!» esclamarono tutti i bambini col timore nel cuore.

    «Il Bosco Proibito è popolato da strane e terribili creature. Forse ci sono o forse no. Le leggende narrano di esseri mostruosi con pelle nera e denti aguzzi e intensi occhi neri. E non hanno esitazione a mangiare la carne dell’uomo» disse. I bambini ansimarono dalla paura.

    «Maestro! E Ismahil, che fine ha fatto?» chiese Frion.

    Darius si alzò, si sgranchì le gambe e cominciò a passeggiare per la piccola stanza. «Di lui non si seppe più niente. La leggenda narra che quando le prime case furono costruite, Ismahil organizzò quello che allora fu il primo villaggio sospeso di tutta Neteron. Disse ai primi uomini come governarsi, dividendo gli uomini per caste. Diede loro nuove idee e invenzioni e poi scomparve. Ora conoscete come è fondata Erellon?»

    «Sì!» rispose Brad.

    «Ah, sì? E dimmi, piccolo Brad, cosa conosci?» gli chiese curioso.

    «Il primo cantone» rispose.

    «Allora non conosci niente, piccolo» replicò col sorriso Darius. «Erellon è divisa…» continuò «…in cinque cantoni. Ogni cantone ha una forma circolare e tutti i cantoni sono attraversati da Lancia di Legno, il grande albero eterno, l’albero più grande del bosco di Agraas. Il primo cantone dista dalla terra solo quindici metri ed è abitato dai Raccoglitori. Il secondo cantone è lontano dal suolo trenta metri ed è abitato dai Cacciatori; il terzo quarantacinque metri ed è la zona del mercato; il quarto è a un’altezza di sessanta metri ed è abitato da Sapienti, Curatori e Inventori. Infine, abbiamo il quinto cantone, il più alto da terra. Dista dal suolo settantacinque metri ed è la dimora del Consiglio dei Dieci e dei Maestri. Ogni cantone comunica con l’altro tramite una complessa rete di pontili pensili, scale e corde ascensionali, che mettono in comunicazione ogni singola zona di Erellon. Le case, su di ogni cantone, sono state costruite seguendo la natura circolare degli alberi, è per questo motivo che gli alberi accanto ai quali sono costruite le nostre case sono gli stessi che videro i nostri antenati. L’attività più redditizia è la raccolta, ma è soprattutto la caccia la vera linfa vitale di Erellon. La città è governata dal Consiglio dei Dieci, un gruppo di dieci uomini scelti tra tutti per la loro saggezza e anzianità. Vengono scelti solamente i maestri e le maestre che, giunti al quarantesimo anno di età, hanno mostrato con i loro insegnamenti e la loro saggezza il miglior modo di vivere la vita nel bosco. Sapete, la divisione in caste per abilità ha apportato molti benefici al nostro modo di vivere. Niente guerre, niente avidità né ribellioni; essere consci che quello è il posto che ci spetta per la nostra forza e il nostro ingegno facilita la vita a tutti noi. È grazie a questa suddivisione che siamo riusciti a sopravvivere e una delle creazioni è questa…» disse, levando la mano in alto e mostrando un attrezzo che tutti i piccoli ben conoscevano: il guanto. Era un attrezzo molto particolare: simile per forma al guanto di un cavaliere, si differenziava da quest’ultimo per alcuni congegni come gli artigli, che vengono estratti a comando dal cacciatore, o il più importante, la corda. Essa è stipata in un piccolo alloggiamento sul dorso della mano e viene lanciata dal cacciatore quando più ne ha bisogno. Il guanto, detto anche grinfia d’acciaio, è figlio della separazione delle caste e la leggenda fa risalire la creazione del guanto a Ismahil stesso. Ma fu un ragazzo ad avere l’idea e a inventare gli artigli e i meccanismi che li azionavano. Halfonse era il nome di questo e pensò bene di

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