Quando sarai grande
By Matteo Porru
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Quando sarai grande - Matteo Porru
Matteo Porru
Quando sarai grande
© Copyright Matteo Porru per Edizioni LA ZATTERA
Prima edizione ebook: febbraio 2019
Edizioni LA ZATTERA di Alessandro Cocco
via Tuveri, 16/A - 09129 Cagliari
www.lazatteraedizioni.it
Email: info@lazatteraedizioni.net
Grafica: Galleria Progetti
ISBN: 9788885586352
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Nota dell'Autore
Prologo
Baleri
Milano
Retroscena
Meraviglioso
Papà
Natale
Juve-Ajax ‘96
La storia degli attimi infiniti
Mondaini
Giancarlo Salvatore
Quando sarai grande
Giacomo e Marilena
Lo stallo
Crack
16 agosto 2005
Sei settimane
Mamma
Croissant con la marmellata di mirtilli
La crisi
Motorino
Il gran finale
Sipario
Cinque minuti
Fine
Epilogo
L'Autore
Ringraziamenti
Ho sempre desiderato vestirmi da eroe.
Ma i vestiti di mio padre mi vanno larghi.
Lady_VAFFA, Twitter
Nota dell'Autore
Questa storia mi è arrivata addosso come una folata di maestrale. Portava luce, suoni, colori meravigliosi. E mi è arrivata a istanti, a episodi, a momenti di folle sobrietà. E so bene che i vostri occhi ci si tufferanno dentro. E se poi vi rimarrà sull’asciugamano anche solo una goccia di questo mare di storie, navigateci: basta una zattera, un filo di grecale, l’Orsa minore e la voglia di vivere una vita di parole nuove. Buon viaggio.
Prologo
2006
Monterosso.
Sera di agosto e una partita di scacchi persa da qualche ora.
Bobo fuma davanti al mare.
Era il quarto mozzicone di sigaretta che lanciavo sulla sabbia. E ne sarebbe arrivato anche un altro poco dopo. Me l’avevano sempre detto che se avessi iniziato a fumare poi non avrei più smesso. Dopo un po’ ti viene quasi naturale, non ci fai caso, te li lanci alle spalle come coriandoli di cenere.
Il baracchino con luci soffuse, il tavolino di plastica che barcolla, l’immancabile decaffeinato con mezza bustina di zucchero di canna. La pedana di legno instabile, terrazza sul mare, con una spruzzatina di scirocco che ti scompiglia i capelli ancora cosparsi di salsedine. L’ultimo caldo del giorno si appiccicava addosso alla mia maglietta di cotone e poliestere come un guanto di afa e sudore, con la collaborazione di un maledetto torcicollo che sulle spalle mi faceva sentire la stanchezza dell’estate intera. Mentre tiravo l’inizio della nuova Camel, per un secondo soltanto mi resi conto di quella meraviglia che mi circondava: Monterosso illuminata, un presepio di luci e fanali, di vite e colori, un piccolo e riservato caleidoscopio incastonato fra le colline, con vista mare.
Dicevano che nella notte sarebbe arrivato un temporale estivo, di quelli carichi d’acqua. Ma non c’era niente di diverso in quella solita serata di pioggia, quando scende così fine che non prendi neanche l’ombrello, tanto è leggera che sembra ti accarezzi, come i baci sul collo prima di fare l’amore.
E il mare, quell’immenso deserto blu che giocava con le gocce, un ticchettio alla volta, insegnando loro la meravigliosa arte del rimanere a galla. Loro, che avevano appena imparato a lasciarsi cadere.
Un lampo illumina un angolo di scogliera nascosto dietro un’insenatura. Una nave mercantile, al largo, sfida l’acquazzone. Mi ricordava Hemingway, il vecchio e il mare; forse c’è anche laggiù un tonno da prendere, mi dico. Forse anche quei marinai hanno le mani stanche, i giubbotti fradici. Vorrebbero tornare a casa, davanti al camino, un buon Averna liscio con ghiaccio e Billie Holiday, con Summertime di fondo alla radio che ogni tanto fruscia un po’.
Agosto ormai andava avanti col contagocce: una manciata di giorni e ci saremmo ritrovati tutti dietro i banchi di scuola. O immersi fra i manuali come me, a dare quel maledetto esame di economia internazionale.
E no, non avevo ancora capito cosa fare della mia vita. Mi è sempre piaciuto scoprire, curiosare, intrufolarmi fra gli sguardi della gente. Avevo imparato quasi subito a farlo: i miei si sono separati quando io di anni non ne avevo neanche sei, li avrei compiuti tre giorni dopo, torta per i compagni di scuola ordinata e cinque candeline blu più una rosa. Buon compleanno, Bobo. Era stata mia madre a farmi capire davvero che tutte le cose sono possibili, che il banale diventa straordinario e che non ci vuole molto, solo un pizzico di follia e una puntina di meraviglia. Lei, che mi faceva gridare Piove!
quando mi lavavo le mani. E nei suoi occhi aveva la stanchezza di una giornata intera passata dietro una scrivania fra pratiche e circolari, nel pantano di una frenetica monotonia. Lei che chiudeva l’acqua, che lasciava che quel sole da ottanta watt splendesse un po’ sul lavandino. E la pioggia che diventava il suo sole, quando mi guardava. E mi diceva sempre di lasciare che acqua e sapone facessero l’amore e nascessero le bolle e di soffiarci sopra, farle volare in alto, sempre più su. Diceva che la vita è un continuo fare bolle di sapone, piccole, grandi, durature o fatte di istanti. E che dall’alto loro ci osservano e galleggiano nell’aria, e che dall’alto mi avrebbe guardato sempre anche lei.
Lei che soffriva di vertigini.
Fra amici ci eravamo detti che quella sarebbe stata una delle ultime sere in cui parlare tutti insieme, prima che qualcuno tornasse a casa, dicesse Scendo in spiaggia
e poi non scendesse mai, prima dello Scusa, ho da fare
e dei tanti inutili saluti che non ho mai sopportato.
«Bobo, sei già qui?»
«Gli altri arrivano fra poco, Gigi.»
Gigi l’avevamo soprannominato così perché il suo vero nome non ce l’ha mai detto. Aveva appena preso la gestione del baracchino, niente di serio, solo tre mesi per farsi l’estate. E rimaneva sempre lì dentro a lavorare, in spiaggia non veniva mai. Viaggiava sulla cinquantina, barba grigia ma sempre ordinata, capelli lunghi fino a metà collo e un anello dorato che non abbiamo mai capito se fosse una fede. Ci abbiamo scommesso decine di cocktail, su quell’anello. Ci lasciava sempre le casse per mettere musica, lui non era di quelli eternamente giovani, diceva sempre che del ‘68 l’unica cosa che ricordava era il primo incidente in motorino: una Lancia che gli aveva tagliato la strada e centocinquantamila lire di danni. Si toglieva abitualmente le ciabatte, sollevava i pantaloni, andava in riva a camminare sul bagnasciuga, con i piedi ammollo. Poi prendeva una sedia dal suo sgabuzzino e la piazzava sulla sabbia, a volte con due massi quando c’era vento. E mentre noi ce la spassavamo, lui se ne stava seduto lì, come se volesse dominare il mare. Suo padre gli diceva che era un fallito, che avrebbe dovuto diventare come lui, comandante della marina militare.
Gigi, che non riusciva neanche a nuotare.
Mi bastarono un paio di passi sui ciottoli, capii subito chi stava arrivando, o forse lo sapevo già da prima, erano sempre loro che venivano dopo di me. Lui, Riccardo Fontana, ventenne con gli ormoni ubriachi di Martini. Lei, Maria Celeste Drassi, neocatecumenale, una da sorriso arcaico ma con un cuore d’oro.
Nessuno ha mai capito come abbiano fatto due persone così diverse a stare assieme. Ma era una relazione estiva, la loro, nata sotto un blu che il mare invidiava al cielo, fra la sabbia di Monterosso. Erano cresciuti facendo i castelli di sabbia assieme. Poi una cosa tira l’altra, si diventa grandi e i castelli li si fa in aria. E si immagina come non si è fatto mai. Lei lo invita a casa, chiacchierano del più e del meno, c’è la meravigliosa vista dalla camera da letto, l’Aurora dita rosate a far da scenario e il rumore del nonno che gira a mo’ di sentinella con due zoccoli con i bordi smussati.
E lui le guarda gli occhi.
Cavolo, che occhi che ha.
Da un lato sbucò perfino quel cretino di Massani, il filosofo fallito. Occhialoni, camicia fantasia abbottonata fino all’ultimo come il primo dei mormoni, neo enorme in centro fronte che gli era valso l’eterno soprannome di buddista
. Al terzo esame negativo lasciò la facoltà di filosofia perché si riteneva troppo avanti per i tempi. Avrebbe trovato una sede molto più prestigiosa per i suoi studi, ne era certo. E la trovò: il Dams.
Arrivarono come un fiume tutti gli altri: Francesco Taffi, Luigi Mannarelli, Tania Ippalco, amici da una vita. Quelli con cui zampetti sugli scogli cercando di staccare le patelle, armato di paletta, secchiello e del primo pezzo di lenza che si trovava lungo il cammino; quelli dei tuffi dai faraglioni, dei falò a ferragosto, delle ubriacature senza senso; quelli che a biliardino erano i campioni, o presunti tali.
«Bobone!»
«Francè, te la sei fatta ieri?»
«Ma chi, Flavia? Abbondantemente!»
«Prendi qualcosa, Tani?»
«Un caffè, mi ci vuole proprio!»
«Gigi, un caffè, per cortesia!»
Tazzina.
Cucchiaino.
Piattino sotto.
«Zucchero, signorina?»
«Sì, due bustine, grazie.»
«Luigione, come la vedi una gita a Nizza, la settimana prossima?»
«Una figata, Bobo!»
«Ragazzi, lo dico a tutti, settimana prossima macchina carica e tutti a Nizza!»
«Grande idea, Bobo!»
«Che bello, sulla Promenade!»
«Dobbiamo farci la foto lì: estate 2006!»
«Ma con quale macchina andiamo?»
«Pensavo che potessero andare bene la tua Lancia e il Pandino.»
«Seriamente? Il Pandino? Ma è una carriola!»
«Macchè! C’è Padre Pio sul cruscotto, va meglio di qualunque airbag!»
«Ma se venissi anch’io? Mi metto nel bagagliaio!»
«Leo!» esclamai.
Era arrivato anche Leonardo, finalmente. Lui e i suoi sarebbero ripartiti il giorno dopo per Milano, avevo paura di non rivederlo più. Era stata un’estate particolare, per lui. Ma si era ripreso alla grande, non ne avevo dubbi.
«Ho portato anche Lele.»
No, cazzo. Tutti, perfino Massani. Ma Lele, no.
Non so cosa avesse quel ragazzino da irritarmi così tanto. Forse un tipo un po’ montato. Vulcanico, parecchio esuberante, voti buoni a scuola e qualche piccolo pelo sul mento che spacciava prontamente per barba davanti alle ragazzine. Per farla breve, un libertino nato. A Monterosso tutti lo conoscevano per nome e cognome, ma non sempre era vero il contrario. Qualunque cosa facesse finiva sempre per attirare l’attenzione di tutti. Uno che forse la sconfitta non l’ha mai accettata per definizione. Abbastanza robusto, palestrato, determinato, uno di quelli che quando ha qualcosa in mente non gliela leva nessuno. Ecco, questo bisognava riconoscerglielo: Lele aveva una perseveranza da far invidia.
«Lele?