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La pietra e il sogno
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La pietra e il sogno

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“Produrre Arte è come trasformare un sogno in una pietra, sono i limiti stessi della materia che ti impongono una simile sciagura”.
Parigi. Un aspirante scrittore, la ricerca della storia perfetta, la fatica che lo consuma nel tentativo di emergere nel mare magnum delle belle Lettere e quella profusa nella conquista di un mare più impetuoso ancora; lei, il cui nome lo riporta alle origini della vita, alla Genesi del mondo e all’intimità del proprio vissuto nella ventosa Bretagna, seduta a un tavolo del Le Dauphin dove Robert lavora come cameriere. Un incontro casuale, salvifico, come il balsamo che Océane stende sulla sua pelle martoriata, prodromico dell’imminente dipendenza da lei, dalle sue cure, dal suo amore esclusivo. 
Torna Fabrizio Voltolini con un nuovo, appassionante romanzo che parla di sentimenti puri, primitivi, violenti, totalizzanti; l’amore, certo, ma anche l’ambizione e l’amicizia, legati tra loro da un sottile filo tagliente. Colpisce la purezza del protagonista, caratteristica che sfiora l’inettitudine in un mondo popolato di draghi; tutto intorno a lui sembra volerlo divorare, persino quegli elementi in cui  va ricercando le proprie sicurezze. Si esce dalla lettura con un profondo senso di spaesamento; è possibile elevarsi, credere nei propri sogni o è piuttosto necessario cedere al peso della pietra che ci ancora a terra? 

Fabrizio Voltolini ha pubblicato: Fragmina (silloge poetica) (Italia Letteraria, Milano 1984) Malyn (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2009) Il cercatore di armonie (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2011) Hy-hoon (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2013) Maledetto Mendelssohn (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2015) Eduard Epstein (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2016), Caffè Felicità (Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma, 2018).
LanguageItaliano
Release dateFeb 4, 2019
ISBN9788830601420
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    La pietra e il sogno - Fabrizio Voltolini

    Rochefoucauld

    CAPITOLO PRIMO

    Parigi, gennaio 1976

    Erano anni che non si vedeva un inverno così rigido qui a Parigi. Il freddo era talmente pungente e saturo di umidità, che sembrava penetrare fino dentro alle ossa e non te lo scrollavi più di dosso neppure la notte, anche se dormivi sotto il peso di tre coperte e, talvolta, confortato dal calore di un corpo che abbracciavo a cucchiaio, quello di una compagna di corso che aveva scelto me per quella sera, e non era dato sapere per il domani. Ma andava bene così. In quegli anni magnifici l’incertezza pareva essere l’unica cosa seria a cui affidarsi. Perfino la Letteratura, la dea a cui mi ero votato e che dopo un paio di esami e la discussione della tesi mi avrebbe concesso il tocco nero del dottorato, neppure quella, dicevo, mi stava sembrando così certa e affidabile. Come se, arrivato a un ipotetico quarto della mia esistenza, tutti i progetti e le convinzioni che li sorreggevano avessero cominciato a scricchiolare sotto il peso di evidenze che rendevano la realtà molto, troppo diversa da come me la figuravo, o forse semplicemente speravo fosse.

    Avevo trovato casa al numero cinquantuno di Rue du Telegraph al terzo e ultimo piano di una decorosa palazzina in stile primi anni del Novecento, la più bassa di tutte quelle che si affacciavano sulla via alberata. Era di uno scialbo colore panna con file di finestre alte e regolari interrotte solo da una colonna di finestroni che illuminavano il giro scale. Sembravano tetri crocifissi sempre pronti a ricordarti la miseria della tua condizione umana. Sopra il terrazzone che sovrastava la palazzina, cinque comignoli cornuti da tubi di emissione dei fumi. Anche quelli parevano testimoniare con un’inquietante similitudine che quello in cui viviamo, non è che un mondo parallelo costantemente controllato dagli acuti sguardi di demoni maligni. La via non era troppo frequentata, ci trovavamo sul confine della periferia, in un quartiere tutt’altro che elegante, a dieci minuti da Porte de Lilas, e i negozi erano rari, il più vicino era un Cabinet d’orthophonie gestito da un tizio ebreo che parlava poco e faticava a salutare. La vista non era un granché, dalle finestre dello studiolo potevo gettare lo sguardo su di un piccolo cimitero, il Cimetière de Belleville, pieno di gente tranquilla che non disturbava mai e soprattutto non si lamentava se alla sera si faceva un po’ di cagnara per strada con gli amici, ma non capitava così di frequente. Per passare la notte, si andava spesso invece alla brasserie Le telegraph, in fondo alla via. Era una semplice trattoria con la pretesa di essere un ristorantino molto particolare, frequentato soprattutto da studenti fuori sede come me. Si affacciava proprio sull’angolo con Rue de Belleville, con le sue tende a strisce nere e rosse a protezione della decina di tavolini tondi ordinati sul marciapiede. Il vino alsaziano correva a fiumi e si beveva parecchia birra, e poi si fumava troppo, ma ci sentivamo immortali e alcuni di noi, ne erano assolutamente certi, avrebbero lasciato traccia indelebile di sé nelle antologie di altri studenti che sarebbero venuti con le future generazioni, rendendo quella brasserie un luogo di culto dove i turisti avrebbero fatto la fila per vedere dove quel tal poeta o romanziere andava ad ubriacarsi o per trovare una ragazza con cui passare una notte d’amore. Uno di noi, appunto.

    Zacharie sembrava essere quello che ci credeva più fermamente di altri. Merito, sosteneva, di quello strano nome da profeta minore che gli era stato imposto, nel quale era racchiuso tutto il suo incredibile destino di poeta maledetto. Uno sfrontato, almeno apparentemente, anarchico e idealista, Zacharie, un bel ragazzo moro che amava portare i capelli sempre arruffati e la barba incolta, minuto nel corpo, ma indubbiamente arguto nello spirito, mente ancor più acuta nelle ore del primissimo mattino se corroborata da abbondante alcool e altrettanta nicotina. Zacharie era stonato come pochi, eppure insisteva nel comporre canzoni che, secondo lui, erano destinate a diventare celebri. Brani d’autore e musica colta, come lui stesso sosteneva, ben altro delle solite canzonette d’amore. Ordinarie banalità, come invece pensavamo francamente noi amici. Staremo a vedere chi di noi avesse ragione, cosa avrebbe prevalso tra la leggerezza di un anelito giovanile o il macigno della realtà. Certo era che questo poeta scapigliato sapeva utilizzare al meglio la strategia seduttiva dell’artista ombroso dall’animo tormentato. Camille, Fleur, Morgane e Sophie, erano già passate per il suo letto ad una sola piazza sistemato nella camera numero quattro del pensionato universitario poco distante dalla brasserie. L’unica difficoltà era stata farla in barba ai gesuiti che reggevano il convitto e che non vedevano di buon occhio ospiti ulteriori nelle stanze degli studenti, soprattutto se femmine.

    Io avevo preferito abitare da solo in un appartamento che credevo fosse anche troppo grande per me, invece mi ero dovuto ricredere. Mi ero accorto che le stanze ampie e con soffitti molto alti, quali venivano costruiti agli inizi del secolo scorso, mi piacevano terribilmente. Nonostante vivessi in città, potevo respirare quasi come facevo nella casa di mio padre, nella ventosa Bretagna, nel dipartimento del Finistère, a Brest, là dove il mondo sembra finire in riva ad un oceano freddo e immenso. Mi sono trasferito a Parigi grazie alla caparbia e rabbiosa opposizione di mio padre, un alto ufficiale della Marina Militare, tutto d’un pezzo e con una livrea d’ordinanza carica di medaglie. A Brest esiste da sempre una grande base navale e mio padre, che vi prestava servizio come capitaine de vaisseau, avrebbe voluto, come forse è legittimo e naturale, che io seguissi le sue orme e i suoi ferrei insegnamenti. La strada della mia brillante carriera militare sarebbe stata da subito tracciata e spianata da quella sorta di sottaciuto nepotismo che invece è la scandalosa regola in taluni grandi apparati. Ma la mia anima mi portava altrove, ne ero consapevole fin dalla più tenera età, lontanissimo dai desiderata paterni e dalle grigie e possenti murate delle navi da guerra.

    «Un figlio omosessuale!» ringhiava papà con il viso paonazzo per la rabbia. «Un figlio smidollato e irriconoscente che preferisce studiare letteratura invece di servire la Patria come suo padre e prima ancora come quel galantuomo di suo nonno, Robert Joseph! Sei indegno di portare il nome e il cognome del nonno, non sei che un coglione pieno di piscio!» sbraitava fuori di sé.

    Certo aveva ragione circa il mio amore per le belle Lettere e forse anche per il piscio che secondo lui mi riempiva il cervello, ma si sbagliava di grosso a proposito del resto. E intanto mia madre piangeva, non sapeva far altro, quella povera donna, anche se lo faceva con riservata tenerezza. Avrei voluto abbracciarla, dirle che sapevo bene che solo lei poteva capire quanto io stessi amando la magia delle parole, confessarle che nascostamente avevo letto i suoi piccoli racconti scritti a mano, sepolti e protetti in un cassetto del canterano della sua camera, dirle l’orgoglio di avere una madre che sapeva narrare, per poi cambiare idea crescendo, e scoprire i limiti puerili delle sue storie. Ma tacevo.

    Così come tacevo meravigliato quando, sul terrazzo della casa paterna, osservavo fiorire i tagete, ordinati e numerosi nei lunghi vasi di cotto. I boccioli mi sembravano dei piccoli pugni pronti ad aprirsi per mostrare il loro giallo tesoro. Soltanto il silenzio mi illudeva di comprendere il loro fiorire, quasi mi riuscisse di capire lo sforzo, graduale e terribile, di quelle piantine e forse il mio sguardo attento le confortava, anzi, allora ne ero certo. Sapevo che la meraviglia del giallo, dell’arancione e del rossastro non sarebbe durata che pochi giorni e poi, inevitabilmente, la morte li avrebbe raggrinziti e seccati per lasciare posto ad altri ugualmente superbi, ma non primi. Le forbici mondatrici di mia madre avrebbero poi mozzato quei marciti tesori, senza la pietà che io avvertivo e avrei desiderato dirle, ma restavo ancora in silenzio.

    E ancora, nel mio silenzio bambino, mi confondevo con la pioggia. Essa poteva carezzare discretamente la mia persona, dava un senso ai miei silenzi, dava loro ritmo e armonia, battendo persistente sulle larghe foglie dei fichi o delle palme in giardino, li colorava di confidenza e protezione, io rifugiato nel polveroso solaio per meglio sentire la musica delle gocce sui coppi, o per udire tremare penosamente i vetri degli abbaini, scossi dalla tumultuosa prepotenza dei tuoni. Circondato dalle vecchie cose che nel tempo erano state scartate dalla protettiva famiglia, traballanti armadi e cassettoni, piatti per lo più sbeccati o rotti, due vecchi bauli pieni di vestiti odorosi di muffa, annate di giornali e libri gualciti. Un tesoro da esplorare in solitudine e in silenzio, alla ricerca di un qualcosa di inaspettato che infuocasse la mia fantasia e facesse del mio gioco un epico eroismo. Lo stesso che mio padre, forse, avrebbe voluto vedere accendersi nel mio sguardo all’esecuzione della Marsigliese, io rigido sull’attenti, candidamente vestito sul ponte della portaerei Clemanceu.

    A quindici anni, invece di carcerarmi nei fasti dell’Accademia Navale di Brest, come mio padre a tutti i costi esigeva, frequentavo con profitto l’Ecole Saint Joua e scrivevo elzeviri per il giornalino del liceo. Con l’insperata e insospettata complicità di mia madre, ero riuscito a farmi trasferire presso l’abitazione di una zia a Plouvien, a una quarantina di chilometri da Brest, e al diavolo mio padre, la sua malnata Marine Royale e le sciocchezze come honneur, patrie, valeur e discipline cacciate a forza nei giovani e vergini cervelli dei cadetti dell’Accademia!

    Zia Lalie era semplicemente deliziosa. Sorella molto più giovane di mia madre, poteva dire di aver già conosciuto abbastanza dei dolori della vita, sposandosi a vent’anni nel fiore acerbo della sua prorompente bellezza e rimanendo precocemente sola per l’improvviso abbandono dello scapestrato marito. Nondimeno ella aveva puntato il fulcro della propria esistenza su una gioiosa solitudine. Solitudine che ella amava riempire con la cura del piccolo giardino, dei gatti randagi, con la frequentazione di alcune sceltissime amiche e soprattutto scrivendo lunghe lettere che sapeva bene non avrebbe mai imbucato. Mi capitò di scoprire il suo segreto per caso. Erano circa le nove di sera, dopo la solita cena consumata insieme ridendo del caratteraccio di mio padre. Ella stava elegantemente seduta al suo tavolino da notte, intenta a scrivere a chissà chi, sorrideva, talvolta asciugava gli occhi, forse per stanchezza, forse per commozione, davvero non riuscivo a capire. Da quella volta, ogni sera, mi misi a spiarla dalla porta semichiusa del suo studiolo. Magnifica la calda luce dell’unico lume acceso sullo scrittoio, armoniosa la sua splendida figura intenta alla stesura, sembrava un quadro di Jan Vermeer del Seicento olandese. Volevo capire se nella vita di una giovane e ancora bellissima donna ci fosse spazio per un secondo amore. Ai miei occhi turbati di adolescente cresciuto in provincia, tutto questo appariva più affine alla perfezione della trama di un romanzo, piuttosto che alla quotidianità della vita di una zia. E fu in quei primi giorni a Plouvien che cominciai a chiedermi se l’ipotesi di una predisposizione genetica per le belle Lettere non fosse per caso scientificamente verificabile nella mia famiglia. Più ci pensavo e più mi convincevo che il colonnello Paul Gaillard non potesse essere mio padre biologico, ma soltanto colui che mi aveva dato il proprio cognome. Tuttavia, mi rendevo chiaramente anche conto che il mio naso, la mia bocca e il mento, parevano tratti dal calco in gesso della sua faccia e i dubbi che si affacciavano alla mia mente immatura, erano solo relativi al rifiuto di un’educazione autoritaria, così come della religione, concetti ai quali mi sentivo francamente allergico con sommo dispiacere degli stimati genitori.

    Vivere con zia Lalie mi sembrava meraviglioso, quasi una nuova avventura ogni giorno. Mi sentivo finalmente libero. A cavallo della vecchia bicicletta della zia potevo andare alla scoperta di una cittadina sconosciuta, delle sue stradine linde e ordinate fiancheggiate da villette basse, bianche, grigie e quasi tutte uguali tra loro. Potevo andare fino al mare, raggiungere piccole spiagge, tavole di sabbia scura tra un brulicare di scogli tormentati dall’oceano. E poi avevo conosciuto compagni di scuola tanto diversi da quelli che avevo avuto accanto a Brest, quasi tutti figli di militari in servizio alla base navale. Quasi tutti tetragoni come i loro padri.

    Mi piaceva da morire abitare a Plouvien, in Rue Laennec con zia Lalie. E certamente piaceva anche a lei vedermi ciondolare per le sue stanze, mi coccolava con cibi saporiti secondo il mio gusto, dolci perfetti e biancheria sempre di bucato, ero arrivato alla conclusione che io incarnassi per lei il figlio che mai aveva avuto da quel disgraziato di Clovis, il marito che un bel giorno l’aveva piantata in asso per una prostituta di passaggio a Plouvien. Spesso mi portava a cenare a Le Styvell, una trattoria a pochi passi da casa, diceva che per quella sera non aveva voglia di cucinare, o che non aveva abbastanza cibo in frigorifero. In realtà mi esibiva, ne ero sicuro, alle amiche e ai conoscenti occasionali mi presentava come un nipote, ciò che effettivamente ero, ma in cuor suo sperava fossi suo figlio.

    O forse no. L’ho creduto per due anni di permanenza a casa sua, fino all’inizio dell’ultima classe di liceo. In tutto questo tempo avevo fisiologicamente armonizzato il mio corpo, maturando le forme della massa muscolare e le posture, com’è normale che sia, per chiunque raggiunga i diciott’anni. Nei due mesi estivi che trascorrevo a Brest in vacanza nella casa paterna, mi ero potuto rendere conto, sorprendendomi io stesso, di questo mio cambiamento. I sogni di adolescente si facevano sempre più possibili, le coetanee, già donne molto tempo prima di quanto noi divenissimo ragazzi, non si limitavano a sorridermi, forse compatendo la mia goffaggine. L’aria salmastra della vacanza e delle notti trascorse sulla spiaggia cantando con gli amici attorno ad un falò, le rendeva maggiormente inclini ad un abbraccio e a baci sempre più appassionati, avendo tuttavia grande cura di allontanare da sé le mie mani voraci e invadenti, rimandando ad altro tempo e a differenti e più seri progetti il culmine del mio assoluto desiderio.

    L’estate è come la giovinezza pensavo. Non riesci a renderti conto che è arrivata ed è già settembre, si deve tornare a scuola. Alla soglia dei miei diciotto anni, ero indietro di varie lunghezze rispetto ai miei coetanei più svelti di me a concludere con le ragazze. Pensavo di dover aspettare ancora, senza sapere quanto, ma intanto i miei anni migliori stavano volando via come le mie ventose estati a Brest, e mi chiedevo cosa mai potessi fare per realizzare quello che mille volte avevo visto e fatto con la fantasia. La perfezione dell’idea, ancora racchiusa nella mente, cosa sarebbe divenuta una volta calata nella concretezza della realtà? E, rovesciando un ben più nobile problema, mi domandavo come e cosa potesse essere nell’anima di uno scrittore l’immensa idea che ha generato la realtà di una sublime poesia o di uno straordinario romanzo. La levità e la perfezione del pensiero, da sogno sarebbe divenuto pietra, una volta calato e circoscritto nella materia, ne ero purtroppo convinto, sperando che questo valesse per l’Arte, ma che non fosse altrettanto vero per il mio acutissimo desiderio di gioventù.

    E settembre giunse come sempre troppo presto, preceduto e annunciato dal rinforzo dei venti atlantici e dagli improvvisi rovesci. Molti amici erano già tornati nelle città di provenienza, all’interno della Francia, carichi di abbracci e delle mille promesse di rivederci presto che sapevamo non avremmo mai mantenuto. I fratelli Alban ed Etienne erano rientrati a Rennes, Horace ad Angers e Donatien a Pontivy. Non mi restava che organizzare i miei bagagli per rivedere la zia Lalie a Plouvien, dove sarei restato per almeno tre mesi, fino alle vacanze di Natale. E mia madre aveva ricominciato a piangere. Non che la cosa mi dispiacesse, tutt’altro! Stavo per riprendere gli studi che amavo e che mi ero caparbiamente conquistato arrivando in vista del traguardo della maturità, avrei riavuto tutta la libertà di cui sentivo il bisogno per poter vagabondare in bicicletta, sognare, riflettere e progettare il mio futuro forse di romanziere, senza sentirmi un coglione pieno di piscio. Per contro, sapevo di lasciarmi alle spalle un’evidente spensieratezza, l’accecante luce estiva e i primi batticuore abortiti sulla spiaggia. Convinto com’ero che il divenire delle circostanze non potesse che essermi favorevole, partii con animo lieve.

    Era domenica, in una tarda mattinata di pioggerella fitta. Mi accompagnava, con l’automobile di servizio, il caporale Moreau, uno dei tanti inconsapevoli tirapiedi di mio padre. In poco meno di un’ora di viaggio avremo scambiato sì e no una dozzina di parole, e tutte riferite al cattivo tempo e all’uggia che ispirava. Evidentemente il giovane sottoufficiale aveva ricevuto ordini ben precisi dall’amato genitore capitaine de vaisseau Paul Gaillard, nessuna confidenza con i civili, soprattutto se dichiaratamente critici verso la carriera militare. Per me fu una meraviglia di trasferimento, chiuso a riccio nei miei pensieri e osservando, dietro il velo di vapore che il mio respiro dilatava sul vetro del finestrino, la palese dolcezza dei bassi rilievi entro i quali si snodava il nastro d’asfalto e l’ordine meticoloso delle colture, delle fattorie e dei recinti per gli animali. Trovavo fosse confortante e per certi versi commovente ammirare come gli agricoltori, in quella regione, avessero estrema cura di colei che li stava sostenendo da sempre: la terra. Contrariamente a quanto l’arrogante idiozia della chiesa aveva sempre sostenuto a proposito del fatto che un non meglio identificato dio sanguinario avesse messo a disposizione dell’uomo l’intero patrimonio naturale, autorizzandolo di fatto a depredarlo, devastandolo senza il minimo rispetto per tutto ciò che vive.

    Arrivati al cancelletto che chiudeva il giardino di zia Lalie, scesi dall’auto di servizio e ringraziai il caporale Moreau con un saluto militare talmente goffo da sembrare una presa in giro e che, ne ero certo, sarebbe stato riferito al superiore come una voluta mancanza di rispetto. Faccenda che mi lasciava del tutto indifferente e che semmai poteva solo divertirmi. Zia Lalie mi stava aspettando in fondo al vialetto di ghiaia chiara, sulla soglia dell’elegante portoncino verde. Non la ricordavo così bella. Portava un sobrio abito intero stretto alla vita sottile, stampato a fiorellini primaverili, che lasciava intravvedere le gambe lunghe e affusolate. Sopra l’abito, un grembiule blu da cucina, simile a quello che usano indossare i montanari delle alpi e, in mano, un mestolo di legno, a significare di essere stata sorpresa dal mio arrivo intenta a cucinare chissà quale manicaretto per Robert, il suo amato nipote. Tuttavia, non potei fare a meno di notare che grembiule e mestolo stonavano non poco con una calzatura elegante e un più che percettibile profumo da toilette evaporato intorno a lei. Le buone letture, oltre alle giocose e comunque educative frequentazioni estive, mi avevano insegnato molto, abituandomi ad osservare i dettagli più che le evidenze, le sfumature dei comportamenti, più che le dichiarazioni altisonanti buone soltanto per chi volesse fermarsi a considerare la superficie delle cose. Di più; l’abitino, per quanto vezzoso e di buon taglio, mi sembrava

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