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Tryte

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Rovereto, anno 2020. Andrea Mainelli, scrittore romano di successo, creatore di una saga poliziesca ambientata negli anni Quaranta a New York, viene torturato e orrendamente trucidato da una squadra di sicari inviata dal Sindaco della Capitale, Spirati, personaggio potente e profondamente corrotto. La scomparsa dell’autore non ferma però la macchina che egli stesso ha messo in moto. La sua editor e segretamente amante Elena Regis, ha celato a tutti, casa editrice e marito compresi, i documenti che inchioderebbero Spirati e tutta la sua organizzazione, ponendo fine a un’epoca contrassegnata da agghiaccianti delitti. Lentamente, un vaso di Pandora dalla violenza impensabile si scoperchia; perduti gli affetti fondamentali e perseguitata da minacciose presenze, Elena troverà chiarimento e conforto nell’incontro con il Programmatore, uomo dal passato turbolento e oscuro, l’unico, forse, in grado di dare risposta alle tante, inquietanti domande rimaste aperte. Nel frattempo, un salto improvviso ci riporta, apparentemente senza motivo, nella New York degli Anni Quaranta dove il giornalista d’assalto Frank Logan viene travolto da una serie di eventi inspiegabili... 
Tryte è un rompicapo affascinante, complesso e magnetizzante. Il genio che lo ha generato è un concetto sul quale il lettore non smette di interrogarsi; le infinite possibilità della creatività letteraria vanno configurandosi in un incubo allucinatorio, i cui margini sembrano sfumare nella realtà. Un noir fantascientifico e pirandelliano che indaga in profondità le voragini di New York 1941. Forse, opera prima dell’autore, ma che, da solo, apre e chiude un cerchio perfetto, regalando al lettore momenti di altissima suspense ed emozioni vertiginose.

Luca Giribone nasce a Torino nel 1975. Sin da giovanissimo collabora per alcuni anni con La Stampa di Savona, entrando a far parte della redazione dell’inserto giovanile “Il Menabò”. Gli studi e gli interessi per il mondo della comunicazione di massa lo portano a Milano, dove lavora in agenzia di pubblicità come copywriter e brand manager, senza mai abbandonare la passione per la lettura e la scrittura. Nel 2016 ha pubblicato il suo primo romanzo, New York 1941. Forse (Europa Edizioni).
 
LanguageItaliano
Release dateFeb 2, 2019
ISBN9788855080422
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    Tryte - Luca Giribone

    Amleto)

    PREFAZIONE

    Luca Giribone con TRYTE ci riporta in quel contesto di suspense e colpi di scena che hanno già caratterizzato la sua prima opera.

    Ho letto con attenzione questo thriller che si gusta tutto d’un fiato, imprevedibile nel suo susseguirsi e che si apre con una scena tanto drammatica da togliere il respiro al lettore.

    Frank Logan incarna quei giornalisti d’inchiesta, per fortuna tanti, che con la loro caparbietà spesso nella realtà affiancano gli investigatori sino ad arrivare a quella verità, che purtroppo non sempre trionfa nelle aule di giustizia.

    È storia di questi giorni: associazioni criminali nei dintorni di Roma che grazie a dei coraggiosi giornalisti sono emerse in tutta la loro virulenza e pericolosità ed è una New York insondabilmente legata a Roma (il mistero di questo connubio sarà svelato pagina dopo pagina), il teatro in cui Frank Logan si muove seguendo il filo della sua inchiesta.

    È tutta fantasia o potrebbe davvero accadere?

    Speriamo di no, ma la realtà ci ha dimostrato che spesso supera la fantasia ed io stesso nelle mie numerose indagini svolte con i reparti investigativi, che ho avuto l’onore di dirigere, ho potuto constatarlo.

    Con piacere ho seguito il comportamento del Maresciallo Manlio Ricci, indubbiamente un investigatore di razza, che sa quando essere rigido e quando invece far finta di non capire lasciando muovere gli attori per poi tirare le fila della sua indagine.

    Uno di quei Marescialli come ce ne sono tanti nella realtà!

    Questo binomio tra giornalista e investigatore, a mio sommesso avviso, impreziosisce ancor più la storia e induce a divorare letteralmente il romanzo.

    Mi auguro che vogliate condividere il mio pensiero.

    Buona lettura!

    Generale Pasquale Muggeo

    Dal 1980 al 1990 ha comandato le Compagnie di Anagni (FR), Venaria Reale (TO) e Torino San Carlo. Nei primi anni ‘90 ha comandato il Nucleo Investigativo di Torino. Nel 1995 è chiamato a dirigere il Comando Provinciale di Novara. Nel 2000 è destinato alla guida del Comando Provinciale di Milano. Conclude la sua quarantennale carriera al Comando dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Lascia il servizio attivo nel 2015 e, nello stesso anno, viene eletto Ispettore Regionale del Lazio dell’Associazione Nazionale Carabinieri.

    ANDREA

    La fiamma di mille candele non basta a rendere più chiari i miei concetti. Anzi, i piccoli fuochi danzano minacciosi per tutta la stanza, e la confusione che affoga ogni mio pensiero in una nebbia benedetta, che spero mi avvolga definitivamente, e in fretta, per farmi scivolare nell’oblio, non fanno altro che allontanarmi maggiormente dalla realtà.

    Realtà.

    Quanto ho giocato con questo termine… quanto con la parola e il concetto di finzione.

    Forse ho stuzzicato gli Yin e Yang dell’esistenza e della non esistenza, se mai essi hanno una consistenza, fino al punto di evocare i loro demoni, ed eccomi qui, tutti loro intorno, come una giuria chiamata a condannare i miei peccati.

    Ma non rinnego niente.

    Rifarei tutto.

    So bene quello che avverrà adesso, ogni cosa è calcolata, e la mia vita non è stata spesa invano.

    Perdonami, Frank, non c’era altro modo, e non potevo chiederti il permesso. Ma ora nemmeno tu sai quello che ti aspetta, la strada è libera, verso qualunque cosa ci sia oltre la linea imperfetta dei grattacieli.

    Per quanto riguarda me, la morte, innanzitutto, perché statene certi, io non parlerò, possono farmi quello che vogliono, ma non tradirò il risultato dello sforzo di una vita, la mia, che sta per finire. La macchina si è messa in moto ed è lontana, così lontana, che nessuno dei loro maledetti tentacoli potrà cercare di sfiorarla.

    Respira Andrea, con calma, concentrati sulla potenza straordinaria dell’opera che hai creato. Tutto il resto è dolore. Atroce. Umiliante.

    Sopportalo, fra poco finirà.

    Pensa ai tuoi figli. Perdere il loro padre li farà soffrire moltissimo. Ma capiranno e sapranno che il tuo sacrificio ha avuto un enorme valore.

    «Che fai scrittore, preghi?» dice senza ironia una delle figure scure e irriconoscibili, immobili dietro la danza delle candele. Sembrano vestite come gli scagnozzi che hanno pestato Frank nel romanzo, cos’è, sarcasmo? Oppure sono diventati miei ammiratori e sono corsi a comprare i loro bei cappelli a tesa larga perfetti per celare parte del viso, come se fosse una moda? Mi sfugge un sorriso. Lo interpretano male. Non dovevo farlo. Ho perso la mia concentrazione. Loro no.

    «Ride» dice quello che sta in piedi, immobile, alla sua destra. «Vediamo se ride anche adesso?».

    Prende una pinza riscaldata alla fiamma di una delle candele (così piccole quelle luci che danzano, così innocue in apparenza), stringe forte l’estremità dell’unghia del mio indice destro, poi spinge fino a far penetrare la parte inferiore della pinza fra unghia e tessuto ungueale. Il mio urlo è stridulo, disperato, indegno di un eroe, ma inevitabile per un essere umano. Quando strappa via tutto, grido così forte che mi viene da pensare di essermi assordato da solo.

    Poi piango.

    «Se continuiamo così dovrai comporre i tuoi libri sotto dettatura, scrittore» ridono loro stavolta, tutti e quattro.

    Trafitto dalla sofferenza, riesco tuttavia, nel parossismo che provoca una specie di elettroshock lungo i miei nervi, a viaggiare nel passato.

    Avrò avuto dodici anni, venivo in questa baita a trovare mio nonno, vedovo da tempo, che aveva scelto di ritirarsi in un posto nel quale potesse contare sulla prossimità con una città a misura d’uomo, sufficientemente vicina da non farlo sentire solo al mondo, ma abbastanza distante da tenerlo lontano dagli altri esseri umani, la cui vista non sopportava quasi per niente.

    A parte me, ovviamente.

    Facevamo lunghe passeggiate per i sentieri, in primavera, mi insegnava a riconoscere gli animali. Io ero un topo di città, abituato a vedere intorno a sé solo cani e gatti, e non sapevo quanto potesse essere grande il cielo in montagna, e quante stelle potessero abitarlo la notte.

    Era forte e vigoroso, mio nonno, non cedeva il passo al tempo o alla depressione, e mi trasmetteva tutta la sua tenacia. Andavamo a far legna, e mentre armeggiavo goffamente con l’accetta, lui dispensava metafore:

    «Andrea tu sai cosa stai imparando ora, vero?».

    «A centrare un pezzo di legno con questo coso, nonno?» rispondevo stizzito, dal momento che non riuscivo in nessun modo a portare a termine il mio compito.

    «No, ragazzo, stai imparando a non mollare mai di fronte alle prime difficoltà».

    Mio nonno sapeva tradurre quasi qualunque cosa in una massima.

    Quando la mia giovane mente partorì il primo abbozzo di narrazione, un racconto breve ambientato in un medioevo distopico popolato da fiere, draghi, coraggiosi cavalieri e bellissime dame in costante pericolo, fu mio nonno l’involontaria fonte ispiratrice.

    In un pomeriggio immerso in un paesaggio da quadro trecentesco, dopo un ricco picnic in uno spiazzo erboso che pareva creato apposta per noi, ci distendemmo sull’erba a guardare il mondo che ci girava intorno. Davvero, pareva di poter percepire chiaramente la rotazione della terra fra verde, azzurro e bianco.

    Il bianco delle nubi ricche, gonfie, delineate nei loro profili che poi, dopo un istante e un colpo di vento, si trasformavano in altro, mutavano, si univano e sfilacciavano in forme differenti e indistinte. E poi ancora si facevano chiare e leggibili. Un quadro perfetto.

    Ed ecco la magia. Quando l’illusione ottica prende vita, ogni volta che si fissa troppo a lungo una porzione di spazio, mescola e unifica le forme, le confonde rendendole luminose, quasi scintillanti, e alla fine la fantasia afferra le redini delineando un quadro coerente.

    L’ispirazione.

    La storia.

    Fu allora che compresi di voler diventare uno scrittore. Non per un qualche tipo di illuminazione divina o per la consapevolezza reale o presunta di avere cose fondamentali da dire, ma per la coscienza del fatto che esistevano storie.

    E andavano raccontate.

    Mi chiedo cosa direbbe mio nonno in questo momento. Ogni sua massima, ripescata ostinatamente dal fondo della memoria, appare sbiadita e inefficace.

    Mi sento solo e abbandonato.

    Non me ne vogliano i miei familiari, i miei amici, Elena, le persone reali che popolano il mio mondo al di fuori della pagina scritta: ora quelli che sento più vicini nel momento estremo sono i miei personaggi.

    Frank, Dorothy, Jim, Bob.

    «Adesso» gracchia il terzo, «ci dirai dove si trovano le carte vere. Con il tuo romanzetto da bancarella possiamo pulirci il culo. Ti sembrerà impossibile in questo momento, ma il nostro capo è un tipo molto più severo di noi. Ora: tu taci, noi continuiamo. Tu parli, noi smettiamo, e ti finiamo in un modo rapido e indolore. Mi pare un accordo accettabile, che dici? Molto migliore di quello che devi avere firmato con la tua casa editrice».

    Ansimo, rantolando. Sangue su tutta la mia mano, sul bracciolo della sedia, sul pavimento. Possibile che ce ne sia tanto dentro di noi?

    Mi trovo nella baita, quella che doveva tenermi al sicuro, e di fatto il suo compito l’ha svolto egregiamente fino al momento giusto. L’arredamento è quello classico di montagna, è semplice e rustico; la scrivania al centro, il mio piccolo tempio personale di parole e pensieri, ora è violato dalle candele. Non sono migliaia in realtà, solo qualche decina; se ne immagino mille è a causa dello shock chirurgico, mi fa vedere cose che non ci sono, per questo devo fare uno sforzo e rimanere lucido nonostante il dolore.

    Te ne ho fatto sopportare molto di dolore fisico, Frank, non è vero? Forse questo me lo merito. Ma devo resistere, o il progetto potrebbe saltare, e non riesco nemmeno a immaginare la mia morte senza che sia avvenuto quello che deve accadere a tutti i costi.

    Sono fissato a una solida sedia anch’essa di legno. Fissato, non legato. Mi hanno inchiodato le mani ai braccioli, i bastardi, certi che non sarebbe servito legarmi i piedi, sarebbe stata sufficiente questa parodia di crocifissione a farmi stare buono.

    E hanno ragione. Stare fermo è un supplizio, ma tentare di muovermi sfiora l’impensabile.

    Il fuoco del camino, candele a parte, è acceso e vivace. Io però sono a torso nudo, e lo sconvolgimento a cui il mio corpo è soggetto mi fa tremare di freddo.

    Il quarto, quello che non aveva ancora parlato, decide che è arrivato il suo turno – i quattro paiono non avere una vera gerarchia interna – e per farlo sporge il viso verso di me. Puzza di marcio. Lo fisso negli occhi: tanto mi uccideranno comunque.

    «Stiamo aspettando, scrittore, o preferisci che partecipi anche io al gioco?Sono pronto al tuo servizio, perdente, se non confessi, io ti faccio urlare. Molto semplice».

    Prendo fiato. Tutto quello che mi resta nei polmoni dolenti. Raccolgo la poca saliva che rimane nella mia bocca riarsa e gli sputo in faccia.

    Prima di avventarsi su di me con un coltello arroventato, resta interdetto per un minuto buono, sufficiente a lasciarmi dire:

    «È trascorso il tempo necessario. Io non parlerò. Voi non potete fare più niente, è troppo tardi, stronzi». Faccio ancora una breve, infinitesima pausa prima di averlo addosso, pura rabbia e frustrazione. «Dite al vostro capo che siete tutti fottuti».

    Chiudo gli occhi e mi preparo a quanto mi aspetta.

    Penso ai miei amici. E riesco perfino a sorridere.

    Urlo. Urlo. Urlo da perdere la voce. Impazzisco. Svengo.

    Sogno. Pensieri non miei. O meglio, pensieri miei che ho consegnato a un giornalista che non esiste:

    "I rapporti di polizia li ricordo molto bene. Parlavano di una retata estremamente importante, diversi camion carichi di whisky di contrabbando proveniente dal Canada attraversavano il ponte di Brooklyn in piena notte, era stata una soffiata preziosa che li aveva consegnati in blocco al Dipartimento di Polizia di New York. C’era uno schieramento tale da mettere in fuga un esercito.

    Ne nacque una sparatoria selvaggia. I contrabbandieri rovesciarono subito i camion per farne barricate. Gli agenti, da parte loro, si nascosero dietro alle automobili, che divennero presto un ammasso di lamiera crivellata.

    La disposizione era doppia. Polizia ai due estremi del ponte, barricate di camion in un senso e nell’altro, e, al centro di tutto, un nutrito manipolo di contrabbandieri armati fino ai denti, tanto che ci fu chi disse che nessuno osava lanciare bombe a mano perché temeva di ricevere una risposta uguale e contraria nel giro di pochi secondi.

    Una vera carneficina.

    Alla fine, le bombe a mano volarono sul serio. Sopravvissuti: pochi, e nessuno fra i contrabbandieri. L’alcool levava fiamme talmente alte che si potevano vedere quasi da tutta New York. Nonostante l’ora tarda, una grande folla si raccolse a debita distanza ad ammirare il trionfo della stupidità umana.

    Mio padre da quel punto in poi esiste unicamente nei rapporti di polizia. Vennero a raccontarceli con il cappello in mano pochi giorni dopo, prima dei funerali, due agenti in alta uniforme.

    Mia madre, tutta occhi, incavati in un viso fatto di ossa e pelle tirata, bianca, che scompariva in se stessa. Io, tremante, non una lacrima, le trattenevo tutte.

    Era avvenuto qualcosa di incredibile. Qualcosa... Frank per l’amor del cielo cosa dissero quei poliziotti... Cosa?

    Ah, sì certo, eccoci: mio padre abbandonò la scena dopo il termine del massacro. Aveva con sé la bottiglia di metallo che nascondeva con estrema attenzione all’interno della giubba per non farsi scoprire. Si allontanò lentamente.

    Fu una recluta, completamente terrorizzata, a vederlo mentre si approssimava alla balaustra del ponte, lontano, in direzione della folla. Distante, tanto che la folla stessa non poteva cogliere i suoi gesti. Soltanto lui e la recluta, Joseph McGrady, me lo ricordo bene il suo nome.

    Mio padre abbandonò ogni prudenza, estrasse la fiaschetta, la stappò, gettò il tappo nel fiume, bevve tre lunghe sorsate, poi fece seguire alla fiaschetta lo stesso destino del tappo. Faceva così freddo, le sue mani tremavano; la recluta poteva vederlo perfino da lì, tremavano quando estrasse la pistola d’ordinanza, ancora carica. Avevano tirato fuori un arsenale, ma nessuno aveva ancora usato quella. Si puntò la canna in bocca fino in fondo, quasi a voler morire soffocato senza bisogno di premere il grilletto, e a quel punto... No Frank, no... I due uomini... Tua madre... Quante volte hai parlato con tua madre? I dettagli, Frank, i dettagli! Tu li conosci, non hai scordato anche quelli. Li sai da sempre, non li hai sepolti nella memoria. Tua madre non morì di crepacuore, ne parlaste a lungo in seguito. Tuo padre non si uccise, venne ammazzato; un colpo vagante rimbalzò contro il cofano della macchina e lo colpì proprio sotto l’occhio, non ci fu scampo, la recluta... Frank, tu la verità la sai. Frank che ti succede. Cos’è questa nebbia insensata che avvolge i ricordi più importanti?

    Tu la verità la sapevi, ora non sai più. Tua madre morì anni dopo ma in un sanatorio, non di crepacuore sulla sua poltrona mentre riceveva la notizia della morte di suo marito.

    Confusione, caos...

    Mia madre quella sera... Loro... Vennero a dirci che lui era morto, il racconto non me lo ricordo. E io non so più rievocare quella storia, così carica di dolore.

    Mia madre morì di infarto. Poche parole, poche, degli ufficiali bastarono a darle il colpo finale. E io da allora non ricordo più nulla.

    I lavoretti, la gavetta, rimasi solo. Solo al mondo.

    Troppo occupato per perdere tempo a ricordare la verità. Per pensare ad altro che non fosse sopravvivere, e grazie al cielo la casa era nostra. E mia sorella non si fece più vedere.

    Tirai su quanto bastava per campare, frequentando corsi serali di giornalismo ed elemosinando lavoretti da scribacchino, prima nei giornali di quartiere e poi sempre più su...

    Frank, tu lo sapevi com’era morto tuo padre, per un attimo hai rivissuto tutta la verità, tua madre… No, certo, tua madre... Morì... Quella notte...

    Annie Forster Logan morì quella notte.

    Annie, no, Amanda Forster Logan... Morì...

    Frank, come si chiama tua madre....

    Chi era il sindaco di New York nel millenovecentoquarantuno, Frank?".

    Fiorello La Guardia, Frank, era Fiorello La Guardia, un brav’uomo, non come Alan Richmond. Posso spiegarti tutto, Frank. Potrei. Tutto su tua madre Annie Forster Logan, donna distrutta ma che non mollò mai fino all’ultimo, su tuo padre che prese coraggio ancora una volta dalla fiaschetta del suo demone salvatore prima di estrarre la pistola e gettarsi in una mischia insensata, come un pazzo, come un eroe, come un Logan, e allora quel proiettile vagante... fu questo che la recluta firmò in veste di testimone oculare, e aveva le lacrime che scendevano lungo le guance, perché era giovane, perché era terrorizzato, perché l’aveva scampata, perché aveva visto qualcosa che in pochi possono dire di aver visto, perché aveva stimato tuo padre fino all’ultimo, ed era certo che il suo estremo gesto sarebbe stato folle ma vile no, vile mai. Potrei dirti di tua sorella, del suo triste destino di bellezza di fuoco che lentamente si spense, sfiorita e sconfitta, dopo che aveva inseguito il carro del vincitore. Potrei dirti di come morì. Ma a che servirebbe ora?

    Siamo all’epilogo, il tuo e il mio. Quello che è stato narrato è stato narrato, quello che non è destinato a essere letto rimarrà sepolto e morirà con noi. Se solo avessimo ancora tempo.

    Se solo avessimo una seconda possibilità.

    In fondo all’anima, nel buio insondabile del subconscio, avverto un brivido, e per un istante non credo che siano le torture, né la follia che sta avanzando, né una mera impressione della mia soggettività.

    È qualcos’altro.

    Sorrido ancora, non so con quale forza.

    «Non troverete niente di tutto questo in quello che chiamate romanzetto» sussurro tremante, il petto devastato, mentre il Quarto mescola qualcosa di inquietante in una specie di pentolone.

    Si materializza una pausa attonita. La seconda. Penso ancora ai miei figli e al male che ho fatto a mia moglie e a quello che ancora le farò. Non riesco a capire se, a questo punto, i miei aguzzini credano di aver piegato definitivamente la mia lucidità mentale (volesse il Cielo, sarei inutile, potrebbero farmi fuori in maniera rapida, le informazioni che riuscirei a fornire non sarebbero più affidabili, saprebbero che potrei mandarli in giro per le montagne a scavare buche per mesi alla ricerca di un rotolo di appunti che non si trova lì), oppure se pensino che io sia un osso duro, duro davvero, di quelli che sembrano degli impiegatucci attaccati alla gonnella di mamma per tutta la vita, poi ti trovi a torturarli per qualche ora e scopri che sono più tenaci di un guerrigliero serbo.

    Non lo so.

    Ma la pausa c’è.

    «Che hai detto, scrittore?» risorge infine con voce, incredibile a dirsi, incerta, uno di loro, non so quale.

    Non attende risposta. È il dolore a investirmi, uno di quelli che nessuna fantasia può anche solo avvicinarsi a immaginare, forse uno di quelli che nessun cuore per quanto sano può sostenere, e infine è il buio, di nuovo, e per sempre.

    ELENA

    Maledetti tacchi, maledetta pioggia, maledetto questo libro maledetto, sì, perché un’opera capace di generare tanto odio e tanta angoscia non può che essere oggetto di un incantesimo di morte. Ora vorrei sapere perché sto correndo, ho perso il senno definitivamente? Lo stampatore ha tutto, Andrea ha il cellulare spento, avrò già provato a chiamarlo cento volte, e questo vuol dire una cosa sola. Sono arrivati da lui, quel pazzo masochista di Andrea non è salito in macchina per scappare il più velocemente possibile non appena inviato il visto, si stampi, ha voluto fare pure da esca, per essere sicuro che il libro arrivasse indisturbato sugli scaffali senza che nessuno di noi fosse costretto a fare una scelta che lui sapeva benissimo quale sarebbe stata, prendere il primo volo e andare a salvarlo. No, quel cretino suicida avrà distrutto in tempo il cellulare e fatto sparire la SIM perché nessuno degli aggressori potesse risalire a me o a chiunque provasse a chiamarlo; avrà fatto a pezzi il disco rigido del computer

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