Mala(eu)ropa: tosarla senza ucciderla
By Tino Oldani
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Mala(eu)ropa - Tino Oldani
(t.o.)
1. Intervista a Tino Oldani di Goffredo Pistelli
( Italia Oggi, 7 Dicembre 2017).
C’è il rischio che l’Unione europea possa commissariare l’Italia: ai poteri forti franco-tedeschi fanno gola i risparmi degli italiani
.
Torre di controllo
è una rubrica popolare tra i lettori di Italia Oggi. Perché Tino Oldani, che la firma, ama affrontare i problemi in maniera documentata e per nulla prona alle letture alla moda. E questo, accurata documentazione e libertà dalle vulgate che vanno per la maggiore, è un po’ il marchio di fabbrica di questo milanese classe 1946, una lunga carriera nei periodici, soprattutto a Panorama.
Domanda. Oldani, partiamo dalle origini. Che famiglia era la sua?
Risposta. Gente semplice. Madre casalinga, padre tipografo. Lavorava a Il Giorno, di cui si considerava tra i fondatori, e con orgoglio.
D. Perché?
R. Perché quando Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, decise di farsi un suo giornale per difendersi dalle fake news
del Corrierone, ne affidò la direzione prima a Gaetano Baldacci, e poi a Italo Pietra, che era stato partigiano di spicco, anche se un gradino sotto Mattei.
D. Un momento, si riferisca alla campagna di Indro Montanelli contro il patron dell’Eni?
R. No, il Giorno è nato nel 1956, come risposta agli attacchi della Confindustria alla nascita dell’Eni, mentre la macchina del fango montanelliana arrivò pochi mesi prima dell’uccisione di Mattei, avvenuta nell’ottobre 1962: un omicidio vero e proprio, causato da un attentato al suo aereo, come ha dimostrato il sostituto procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, in un libro sconvolgente per la quantità di indizi e prove da lui raccolte, ma sempre ignorate su quel delitto e sui probabili mandanti.
D. Riprendiamo il racconto…
R. Per formare la squadra, Pietra incaricò Angelo Rozzoni, capocronista a La Patria, piccolo quotidiano milanese con la tipografia in piazza Duca d’Aosta. Una tipografia grande, che serviva più giornali, dove mio padre lavorava al cattolico L’Italia e conosceva Rozzoni, uomo chiave nella storia del Giorno. Pietra scelse gli opinionisti, ma fu Rozzoni, carattere forte e grande organizzatore, a costruire la spina dorsale del giornale, dai redattori ai tipografi, conoscendoli tutti da tempo.
D. Che cosa ricorda di quel giornale? Sarà stato un bambino ma credo che suo padre le avrà raccontato.
R. Del Giorno e dei suoi giornalisti conservo bei ricordi. Al centro del tavolo, nel salotto di casa mia, c’è sempre stato un posacenere in porcellana che riproduceva la prima pagina del primo numero del Giorno: 21 aprile 1956. Avevo dieci anni, e mio padre portava a casa ogni notte una mazzetta di giornali italiani e stranieri, che sfogliavo con curiosità, a volte senza capirci nulla.
D. Cosa le piaceva di più?
R. Quello che aspettavo di più era il Guerin Sportivo, che usciva il lunedì con la pagina di Gianni Brera intitolata L’Arcimatto
e le vignette di Marino. Una goduria.
D. Lei era uno di quelli che voleva fare il giornalista sin da bambino, immagino.
R. E’ vero, e il primo articolo l’ho scritto a 15 anni su La Zanzara del liceo Parini: era un’intervista a Gianni Brera, e faceva parte di un’inchiesta sul calcio ideata da Walter Tobagi, che decise di farla insieme a me. Eravamo amici ed entrambi figli di operai: Walter diceva che noi due eravamo i populares
del Parini, un liceo duro e selettivo, frequentato per lo più dai figli della ricca borghesia milanese
D. Mi parli della Milano di allora.
R. Sono un ragazzo di campagna, nato e cresciuto in un piccolo paese della bassa milanese, con meno di 500 abitanti, a 20 km da Milano: Zelo Surrigone. Da sempre, quando mi chiedono dove sono nato, spiego che Zelo viene dal latino agellum, diventato poi azellum, infine zelo: si trattava infatti di un ricco podere, in origine un tipico accampamento romano dalla forma quadrata, regalato da Roma alla famiglia Serugonum, da cui ha preso il nome.
D. Un’immersione nelle sue radici.
R. All’esame di latino, facoltà di Lettere della Statale, mi bastò questa spiegazione sull’origine di Zelo, più una traduzione a vista di Tacito, eredità pariniana, per avere un buon voto dal tremendo professor Cazzaniga, uno che di solito bocciava tutti al primo appello.
D. Ci regali un ricordo fotografico di quegli anni.
R. Dalla quarta ginnasio in poi ho studiato a Milano e per arrivare alla fermata del pullman delle 7.00 che partiva da Abbiategrasso e percorreva la statale vigevanese, ogni mattina dovevo alzarmi alle 6.00 e fare qualche chilometro in bici, con qualsiasi tempo, anche con la neve. Così in inverno mi venivano sempre i geloni ai piedi.
D. Un’Italia che si doveva dar da fare, quella.
R. Negli anni Sessanta il boom era agli inizi, a Milano si vedevano ancora i segni dei bombardamenti, e l’Italia era un paese povero. Ma tutti avevano una gran voglia di fare, di progredire. Per vestirmi in modo decente, visto che il Parini era una scuola per ricchi, mia madre portò un paio di giacche di mio padre dal sarto e le fece rivoltare a misura per me. Non ci voleva molto a capirlo: il taschino per la penna, invece che a sinistra, io l’avevo a destra.
D. Lei prima citava il Parini, liceo che, a fine anni ’50, registrò gli albori delle prime lotte studentesche. La politica l’appassionava, da giovane?
R. A venti anni ero democristiano, iscritto alla Dc, anche se poi, emigrato a Roma, vidi all’opera certi ministri e decisi di starne alla larga. All’inizio mi aveva condizionato l’esperienza di mio padre, che era stato un partigiano bianco: dopo la caduta del fascismo, era stato lui a ricevere in Comune le prime liste per l’elezione del sindaco.
D. Che cosa le raccontava, della Liberazione?
R. Che rimase di stucco quando vide che la lista socialcomunista era formata tutta dagli ex fascisti del paese, convinti che mio padre fosse comunista. Invece era un partigiano cattolico, di un gruppo guidato da Malvestiti, amico di Mattei, che poi diventò deputato Dc. Per me, allora e per anni, comunisti e fascisti diventarono la stessa cosa: fautori di dittature, nemici della democrazia.
D. Poi sarà arrivato il giornalismo.
R. Il praticantato l’ho iniziato a 22 anni al quotidiano cattolico Avvenire. Il direttore che l’ha fondato, Leonardo Valente, veniva dal Giorno, dove aveva conosciuto mio padre e sapeva molto di me. Prima di assumermi, mi mise alla prova come insegnante privato di suo figlio, che era stato rimandato a settembre in latino e greco.
D. Test drive, diciamo.
R. Ricordo che trascorsi due mesi nella loro casa al mare: forte della preparazione ricevuta al Parini, con otto ore di lezione ogni giorno, diedi al quel ragazzo le basi per superare bene non solo gli esami di settembre, ma anche i successivi anni di liceo. E a ottobre del 1968, quando nacque Avvenire, arrivò anche la mia assunzione.
D. Per occuparsi di cosa?
R. Fin dall’inizio, sono stato responsabile della pagina Economia e lavoro
, con l’economista Giancarlo Mazzocchi come supervisore. Mazzocchi era docente alla Cattolica e diversi suoi assistenti scrivevano per la mia pagina. Venivo dalla facoltà di lettere, e di economia non sapevo nulla. L’ho imparata sul campo, aiutato moltissimo da Giacomo Vaciago, un signor economista.
D. Chi scriveva con voi?
R. Tra i collaboratori più brillanti c’era anche Pierluigi Magnaschi, che poi prese il mio posto quando partii per il militare. La nostra amicizia nacque così.
D. Ma lei non si fermò adAvvenire.
R. Appena diventai professionista mi chiamò Lamberto Sechi, offrendomi un posto a Panorama su indicazione di Franco Serra, capo servizio dell’economia. Confessai a entrambi che non mi sentivo ancora pronto, sul piano professionale, per una sfida così impegnativa. E rifiutai. Ma Serra non mi perse d’occhio, e qualche anno dopo mi convinse a passare con lui a Espansione, mensile economico della Mondadori, per fare il corrispondente da Roma.
D. Ma poi aPanorama ci sarebbe arrivato
R. Sì fui assunto qualche anno dopo, quando avevo maturato altre esperienze anche nei settimanali. Credo di essere l’unico giornalista italiano che ha lavorato nei quattro grandi settimanali del dopoguerra: Tempo Illustrato, L’Europeo, L’Espresso e Panorama. A L’Espresso sono rimasto soltanto un anno, mentre a Panorama per più di venti.
D. Molti direttori, immagino. Si sente tributario di qualcuno in particolare?
R. Ho lavorato con molti direttori, e credo di avere imparato sempre qualcosa da ciascuno. Franco Serra, con il suo carattere di torinese spigoloso ed esigente, mi insegnò a documentarmi sempre a fondo prima di scrivere qualsiasi cosa: un’inchiesta o un pezzo di dieci righe. Un maestro. A cambiarmi la vita, in meglio, sono stati Leonardo Valente, che mi ha assunto per primo, realizzando un mio sogno, e Claudio Rinaldi, che mi fece tornare a Panorama dopo la mia breve parentesi all’ Espresso.
D. Come mai quel ritorno?
R. All’ Espresso non mi trovavo bene. Proprio allora la Mondadori stava uscendo da una crisi, e per la prima assunzione dopo il blocco dei nuovi ingressi Rinaldi suggerì il mio nome a Mario Formenton, dicendo: Oldani è uno che lavora per tre
. Nel biglietto d’auguri che Formenton mi inviò dopo l’assunzione, citò proprio quella frase per spronarmi nell’interesse dell’azienda. Altri tempi.
D. Di questi direttori, Rinaldi però è stato senza dubbio quello di cui si è parlato di più. Il suoPanorama fece scuola. Com’era?
R. Lavorare con Rinaldi è stato un onore: avevamo la stessa età, giocavamo a calcio insieme, ma sul lavoro era sempre un passo avanti a tutti. Con lui Panorama superò ogni record di vendite, e impose all’editore che anche i redattori ne avessero un beneficio sullo stipendio. Cosa rara nel giornalismo. Era amico di Carlo De Benedetti e considerava Silvio Berlusconi un avversario da abbattere. Per questo lasciò Panorama, insieme a Giampaolo Pansa, quando il Biscione prese la Mondadori.
D. E lei?
R. Io la pensavo diversamente, ma siamo rimasti egualmente amici fino all’ultimo. Purtroppo è morto giovane, e ogni anno, il 4 luglio, vado a portare un fiore sulla sua tomba, nel cimitero di un piccolo borgo, Barbarano Romano, dove aveva la casa di campagna.
D. C’è un articolo a cui è particolarmente affezionato?
R. Un pezzo sulla Cina, prima della strage di piazza Tienanmen del 1989, in cui raccontavo la vita quotidiana dei cinesi: il figlio unico imposto dal partito comunista dopo la morte di Mao, i salari e il tenore di vita, l’ammirazione e l’invidia dei cinesi per i prodotti tecnologici giapponesi, che allora pochi in Cina potevano permettersi. Lo scrissi dopo un viaggio a Pechino, grazie alle lunghe chiacchierate fatte con l’interprete, una giovane donna con cui avevo stabilito un buon rapporto: quella donna era stata una guardia rossa e non era mai uscita dalla