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Genesi di Atheris – L'assedio degli Erranti
Genesi di Atheris – L'assedio degli Erranti
Genesi di Atheris – L'assedio degli Erranti
Ebook582 pages8 hours

Genesi di Atheris – L'assedio degli Erranti

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About this ebook

È una genuina tempesta di crepe quella che su Atheris si propaga senza risparmiare la terra come il mare, fin nel cuore del sottosuolo. Ed è proprio sotto la Piana delle Ceneri, l’anima nera di Algol, che le fratture puntano con ferocia, a caccia di un Cancello Proibito per infliggergli l’ultimo scossone.

Mentre in superficie si combatte una guerra fratricida, nel Buio Profondo un rituale viene compiuto, forse prima di quanto previsto e con una Chiave diversa da quella attesa.

I cardini cedono, il Cancello si apre. E l’invasione ha inizio.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 23, 2019
ISBN9788827865422
Genesi di Atheris – L'assedio degli Erranti

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    Genesi di Atheris – L'assedio degli Erranti - Rita Arcidiacono

    volume.

    Riassunto

    (da La danza delle ceneri)

    Sulla Terra

    La cerca della Chiave non è terminata con la cattura di Mylian, e Kalistea scopre che sarà costretta a calcare il suolo di Algol per inseguire il suo nuovo custode, Astarion. Abbandonata la Precettalis e il suo equipaggio maledetto, raggiunge la terra dei barbari insieme a Hellgi, il mercenario a lei legato attraverso un oscuro rituale, ma l’intransigente regione dell’ovest mostra presto tutto il suo carattere; i due vengono catturati dagli helfeirch, leggendari uomini-bestia algoliani, e condotti presso Vhalcan, sede del dominante Fare del Lupo.

    Quando vi giungono, il villaggio fortezza appare davvero come l’anticamera dell’abisso: sommerso dalla coltre di cenere, vomitata dall’improvvisa eruzione del vulcano Corno Ardente, brilla in piena notte delle decine di falò attorno ai quali si sono raccolti gli abitanti. Il loro Signore, Demilar Warlash, è appena tornato dopo aver visitato l’antica sciamana Wini, detta Squama. Sottoposto a potenti droghe, il Warin dei Lupi ha fatto un lungo viaggio mistico, che gli ha rivelato l’inganno di Malisken e lo ha proiettato nel corpo di uno i merakensi, giunti in segreto sulla sua terra per catturare lo stregone.

    Riconoscendosi la colpa di non aver imposto la distruzione di un libro, oggetto sacrilego per le genti di Algol, e aver così involontariamente scatenato l’ira degli dèi su Algol, si offre al giudizio del proprio popolo che attraverso la voce di Gundemaro, uno dei più antichi guerrieri del Fare, infine lo perdona.

    Un canto di guerra si leva contro Merak l’invasore; Kalistea, figlia del Signore di Menkalinan, cavalca l’odio dei barbari, offrendosi come alleata. Ospite dei Lupi, la principessa illegittima coglie l’occasione per riprendere le ricerche quando alcune voci riferiscono l’avvistamento di stranieri presso un altro Fare, quello della Lince, e trascinando un recalcitrante Hellgi con sé, si unisce alla battuta di caccia, nella speranza di trovare il vecchio Astarion.

    In realtà, sono i due superstiti merakensi, Vaieeno e Reidon, reduci dal disastroso scontro presso il Passo del Corvo, ad aver trovato asilo presso le Linci; ancora decisi a perseguire la missione e catturare Malisken, guidati dalla sua ancella personale, Gaira, riescono a ottenere cibo ed equipaggiamento per riprendere la caccia. Stanno per abbandonare il Fare quando Corno Ardente comincia la sua eruzione e alcuni Lupi, guidati da Xaaloras, fratellastro di Demilar, irrompono nel villaggio. La colpa di aver dato ospitalità ai merakensi viene lavata nel sangue e il Fare di Lince viene dato alle fiamme.

    Gaira, Reidon e Vaieeno sfuggono al massacro per miracolo e trovano riparo presso un Dearg Wald, un bosco sacro ove è proibito combattere. Qui incontrano Mylian, Keremil e Valanjr, scampati ai dannati della Precettalis grazie alla magia dell’elfa. Dopo un burrascoso inizio, condividendo armi e provviste, si metteranno in viaggio, uniti dalla scoperta di avere una conoscenza in comune: Astarion.

    Frenati tuttavia da sfiducia e prudenza, nessuno di loro confida le ragioni della propria presenza su Algol, se non in modo superficiale, e di certo, nessuno fa menzione alla Chiave trovata presso la Torre di Selianth, o al libro maledetto, il T’anmo-Valafar, trafugato da Malisken.

    Nel frattempo, naufragati sulla Passeggiata dei Giganti, Astarion e Adriel trovano un passaggio per la costa attraverso un selvatico e piuttosto aggressivo pescatore di ostriche. Giunti su Algol, sono subito messi alla prova e attaccati dagli helfeirch. Adriel è costretto a difendersi usando la propria spada maledetta ed è sul punto di essere sconfitto, quando viene salvato dall’ultima creatura che si sarebbe aspettato di vedere su quella terra: un drow.

    L’elfo scuro, e la sacerdotessa di cui è guardia del corpo, hanno però piani tutt’altro che generosi nei loro confronti: vogliono essere condotti presso un varco per le regioni del Buio Profondo, e fare dunque ritorno a casa. Astarion accetta e vede i propri beni, tra cui la preziosa Chiave, confiscati dai due, mentre a Adriel viene lasciata la spada. Anzi, è proprio Jaluss, il guerriero drow, a offrirgli le prime nozioni su come controllarla.

    Esiste forse una volontà segreta, qualcosa che gli ignari chiamerebbero Fato, a condurre ogni singolo gruppo in un solo luogo, una delle fratture del mondo di Atheris: la Piana delle Ceneri.

    Kalistea, Hellgi e il Fare guidato da Demilar, trovano lupi morti lungo la via e sarà proprio nei pressi della Piana che il vendicativo Erarico, Warin di Lince, attende il Signore di Algol. Alleato al Fare del Corvo Spinato e a quello dell’Orso Pietroso, lo accusa di blasfemia per via di Malisken e del libro maledetto, prima di dare vita a una furiosa battaglia. Rimasti ai margini, Hellgi e Kalistea attendono la fine del massacro, quando una mastodontica colonna di fuoco si leva improvvisa sulla Piana delle Ceneri. Mentre i Lupi sono sconfitti e Demilar fatto prigioniero da Erarico, Kalistea punta gli occhi all’orizzonte in attesa dell’arrivo della Chiave che sente vicina. È però Mylian e il gruppo che la accompagna a fare la sua comparsa.

    Dopo averla creduta morta, Hellgi ha l’assassina del proprio gemello a portata di vendetta. Incurante della presenza di ben tre guerrieri al suo fianco, la attacca e Valanjr è rapido a ingaggiarlo, mentre Reidon e Vaieeno sono costretti a misurarsi con neri tentacoli che emergono dal terreno al comando di Kalistea. Nel tentativo di salvare il capitano merakense, catturato dai micidiali barbigli, Mylian invoca il Potere ma ancora una volta viene tradita e, ironia della sorte, Hellgi viene avvolto nelle fiamme come era accaduto al gemello. Il mercenario scopre così di essere immune al fuoco, un dono di Kalistea.

    Le sorti dello scontro sono disperate: Vaieeno muore e anche Reidon sta per essere trascinato sottoterra, quando Adriel, giunto infine nei pressi della Piana insieme ad Astarion e ai due drow che li accompagnano, interviene colpendo Kalistea alla nuca. Privata del controllo, la magia della donna-bambina collassa; i tentacoli svaniscono e Hellgi perde i sensi.

    Non c’è tempo però per riprendere fiato.

    Nel mezzo della magistrale colonna di fuoco, sagome scure si stanno alzando. I dannati camminano e circondano il gruppo, spingendo il loro richiamo sulla spada maledetta impugnata da Adriel, affinché lui diventi il loro condottiero. Mylian riesce a riscuotere la coscienza sopita del guerriero attraverso la propria magia, che questa volta non la tradisce, ma è Gaira, armata di un sacro bastone intagliato in Dearg Wald, colei di fronte a cui i dannati si inchinano, onorandola.

    * * *

    I Regni:

    Merak (est)

    In gran segreto, la regina Miziara incontra un vecchio amico di infanzia, Danashi, un emarginato che vive in solitudine cui lei ha affidato un prezioso incarico: custodire lo scrigno in cui le Pupille di Aruspice, inviate da Astarion, fanno la loro comparsa. Il messaggio recato dalla perla che è giunta dopo tanto silenzio però è fonte di grande sgomento per la regina: Malisken è stato ospitato e tenuto nascosto dagli algoliani.

    Rifiutato l’insistente invito di Miziara a seguirla presso la Fortezza di Ardesiantha in cui ella dimora, Danashi torna alla bicocca in cui dimora, solo per trovare il proprio cane morto e un manipolo di farabutti ad attenderlo per farlo prigioniero e sottrargli lo scrigno.

    Intanto anche la regina trova un ospite inatteso alla fortezza: si tratta addirittura di un Ashvin, Sahile Jvotis, Mastro di Aliothe. Ma dietro l’onore di ricevere uno degli Otto Maestri dei Venti Denebiani, Miziara riconosce la gravità della situazione. Deneb ha occhi sul mare e ha visto merakensi sbarcare su Algol. Il signore di Deneb, tramite Sahile, offre alleanza alla regina, ma vuole anche conoscere le sue motivazioni. Ritiratasi in una zona più riparata della fortezza, dove cerca di eludere le spie che la circondano, Miziara confida all’Ashvin la propria ricerca di Malisken e del libro dannato da lui sottratto.

    Menkalinan (nord)

    Dopo essersi battuto con le locuste, i banditi che infestano la montagna sulla via verso la Rocca delle Lune, Steanos, guerriero di gran pregio e fiducia per il Signore di Menkalinan, raggiunge la capitale, Arsybia. Qui riferisce ad Auris Stonn della battaglia sui mari e della sconfitta subita, ma soprattutto della perdita di Kalistea, la figlia illegittima. Auris affida allo stesso Steanos la missione di riprenderla.

    Deneb (sud)

    Ganimeu Watersy, Signore di Deneb, sta per prendere un’altra nacrâs, una sposa che simboleggia il possesso delle isole annesse al regno del sovrano. Valianna viene però da Essnora, un incantevole atollo finora mai guardato da alcuno, per via della propria vicinanza con la costa di Algol.

    A poche ore dalle nozze, Valianna incontra un uomo misterioso che, con fare inquietante e minaccioso, le suggerisce di rinunciare alle nozze. Ella rifiuta di farsi intimorire e le nozze hanno luogo; Essnora diventa denebiana.

    Sul Mare

    Chiamati a riscattare Kalistea dalle mani dei pirati, Steanos e l’equipaggio della Hifreann fanno rotta per Algol. Giunti a ridosso della costa, trovano la via sbarrata da un vascello in fiamme, una visione tanto terribile da indurli a caldeggiare la rinuncia alla missione e la rotta verso casa. Steanos però non vuole saperne e per mezzo di una lancia decide di avvicinarsi da solo al vascello misterioso e salire a bordo. Sembra addirittura atteso e durante la scalata, scorge alcune lettere sulla chiglia che riportano il nome della Spregiudicia. Il suo incontro con l’uomo che la governa e che si presenta come il Principe di Fumo, ha del surreale; egli rivela che Kalistea non solo è viva ma calca il suolo di Algol. Ammonito affinché la Hifreann non faccia rotta verso Menkalinan, Steanos cerca invano di convincere il capitano Ruaìri ad attraccare presso la terra dei barbari, ma questi rifiuta con fermezza, concedendogli una scialuppa per sbarcare insieme ad altri quattro uomini, decisi a seguirlo dopo aver interpretato brutti presagi sulla Hifreann.

    Pochi istanti dopo, all’orizzonte compaiono i vascelli denebiani e accanto alla Spregiudicia, emerge la perduta Precettalis.

    Non molto lontano, presso il Mare Rovente, prigioniero nel ventre di un due alberi senza nome, Danashi viene torturato finché non confessa il funzionamento dello scrigno, anche se nel farlo altera la verità per non tradire la Regina e il Decano Astarion. È ormai rassegnato al poco tempo che gli resta da vivere prima che la menzogna sia smascherata, quando un formidabile vascello denebiano, il Dahula, fa la sua comparsa e attacca.

    Nonostante la palese inferiorità, invece di fuggire, la piccola imbarcazione che i Guardiani dei Flutti hanno ribattezzato Adespoto sperona il Dahula e sul ponte della prima si scatena una feroce battaglia. Guidando l’assalto, il capitano denebiano, l’Ashvin Sahile Jvotis, ingaggia una sinistra figura cui tutti si riferiscono col titolo di Auraise, Primo in antico merakense.

    La straordinaria abilità di Sahile in combattimento non lo salva però dall’essere ferito, proprio nell’istante in cui nell’oscurità emerge la figura di un vascello in fiamme.

    Sottoterra

    Braccato dai barbari, ricercato dai merakensi, ferito e debole dopo lo scontro con Ivharos, Malisken cerca la salvezza presso i monti che segnano il confine tra Algol e le Terre Libere. Ciò che lo tiene in vita è la linfa maledetta, bevuta durante un delirio tra sogno e realtà, direttamente da uno dei bandwo della Piana delle Ceneri; ma gli incubi sono frequenti e durante uno di questi, sprofonda all’interno di un pozzo che conduce nel labirintico cuore della montagna, una profonda ferita riaperta durante i recenti movimenti tellurici e le eruzioni che squassano l’intera regione dell’ovest. La furia dei vulcani risvegliati sta coinvolgendo non solo la superficie, ma anche il sottosuolo dove nani e drow si stanno dando battaglia. La Valle Acida è la prima ad accartocciarsi su sé stessa, costringendo i due popoli a interrompere le ostilità per darsi alla fuga.

    Sospinti da fiumi di lava che si aprono ovunque, il drappello guidato da Rill e quello di L’yranna si incontrano; quest’ultima sembra aver catturato non solo un esploratore, Veldryn, ma anche due dei guerrieri appartenenti alla scorta di Nedyssia, colei che aveva perseguitato Asraena con ardore; si tratta di un Maestro d’Arme, Zhennuken, e un giovane che appare in fin di vita, Hyluan, il quale durante la prigionia presso i nani è entrato in possesso di informazioni su quella che potrebbe essere la meta del popolo barbuto. Con disappunto di L’yranna, Rill prende il comando di entrambi i gruppi e reclama i preziosi prigionieri, che trascina con sé fino a quando le vie di fuga dalla catastrofe incalzante sembrano esaurite.

    È in quel momento che Alixter, l’inaffidabile mago che Rill è stata costretta a portarsi dietro, tradisce. Afferrando Zhennuken, invoca un pericoloso Potere Arcano che trasporta entrambi lontani da lì, facendoli riemergere in una grotta troppo vicina al luogo in cui si sono raccolti i nani scampati alla Valle Acida. In silenzio, ascoltano quello che i dunewariani hanno definito il Consiglio delle Barbe.

    In tipico stile nanico la discussione è burrascosa, ma infine il sacerdote Bordarin mostra ai compagni un libro in cui figura la fiaschetta che hanno trovato; le incisioni parlano di Draxo, nonché delle leggende che la circondano. Proprio mentre la meraviglia per la scoperta ha calmato gli animi, Alixter, ferito durante la fuga da un quadrello avvelenato, crolla al suolo.

    I nani sono sui due drow all’istante e Zhennuken offre un’onorevole battaglia, prima dell’inevitabile epilogo e conseguente cattura. Interrogato, il Maestro d’Arme rifiuta di offrire la benché minima informazione e viene costretto a bere i residui di veleno della fiaschetta. I nani decidono dunque di interrogare Alixter, ma non ve n’è bisogno: è il mago stesso a offrirsi da guida per loro.

    Un’altra, insolita guida l’hanno trovata Rill e compagni, intanto, e proprio quando tutto sembrava perduto. Oltre una sottile parete di roccia, al sicuro dalla lava, Malisken accoglie il drappello e lo conduce attraverso il labirinto del Buio Profondo, per ricongiungerlo ad Asraena e ai suoi drow. Durante il cammino, l’uomo cade in una forma di trance e incontra la potente entità che lui in passato aveva cercato di asservire, tracciandola nelle Regioni dell’Ombra. Scopre così che il legame si è fatto più forte e che è lui questa volta a essere stato tracciato.

    L’entità gli impone un nuovo patto e, ricattandolo con la figlia morta che lui tiene in pugno, gli chiede di condurre sulla soglia dell’Abisso un’altra creatura, in una sorta di scambio di prigionieri. A Malisken non resta che accettare e una volta raggiunta Asraena, comincia il suo pericoloso gioco: la vicinanza con lo spillone, gli permette di scorgere la Mappa che la drow sta seguendo e, usandolo come tramite, anche l’entità la scorge. Non appena la nuova meta di Asraena gli è chiara, Malisken offre le proprie capacità di incantatore per aprire un Portale che ve la conduca. Per farlo però ha bisogno dell’Artefatto; è vicino – lo sente – nelle mani di qualcuno (Zaianira) che sta calcando la Piana delle Ceneri.

    Gli eventi cominciano a precipitare e, attirati come runiie verso la fiamma, tutti si avvicinano alla Piana.

    Mentre sulla superficie i barbari si danno battaglia, nel sottosuolo i nani seguono Alixter fino a trovarsi faccia a faccia con i drow capitanati da Arlene. Lo scontro è immediato e ferocissimo.

    Alixter non vede occasione migliore per tentare una nuova fuga, ma attraverso l’occhio strappato ad Arlene, Asraena lo vede e prepara per lui una trappola perfetta. Catturato, il mago si trova di fronte alla scelta cui ha sempre tentato di sottrarsi: servire l’entità delle Regioni dell’Ombra che da sempre lo tormenta attraverso misteriose visioni, o servire Asraena entrando a far parte della sua Casata e accogliendo infine il suo nome su di sé. Racchiuso in un cerchio di evocazione che inspiegabilmente gli impedisce di fuggire, si trova costretto a sdraiarsi su un altare sacrificale ove si compirà il rituale di passaggio.

    Brandendo il T’anmo-Valafar, Malisken regge il cerchio che lo imprigiona e comincia l’invocazione da cui nascerà l’immensa colonna di fuoco che divorerà la Piana delle Ceneri.

    I corpi cominciano a cadere, gli antichi Audha si accalcano intorno e tra loro appare la figlia di Malisken, ma l’Artefatto, la Chiave, ancora non giunge e il tempo comincia a stringere per il mago umano che sta esaurendo le energie. Dalla scelta di Alixter dipende l’apertura del prossimo Portale: verso l’Abisso di Spine, se sceglierà Asraena, verso un altro, ben più oscuro Abisso, se sceglierà l’entità delle Regioni dell’Ombra.

    Malisken offre quindi al drow l’occasione di liberarsi, convinto che ripudierà Asraena e il pugnale sacrificale che minaccia di trafiggergli il cuore; cambia l’invocazione, indebolendo il cerchio, e volge il T’anmo-Valafar verso Alixter in modo che possa leggere l’ultima stringa e aprire il Portale per l’Ombra.

    Ma Alixter sceglie Asraena.

    E Malisken è condannato alle Regioni dell’Ombra.

    Prologo

    Ecco la tua pira, onorato avo.

    Il tuo Tempo è giunto,

    il mio sorride e siede qui accanto.

    Tu vai, e a me è dato restare,

    prigioniero nei cieli di vetro,

    che si rovesciano per un nuovo giro.

    Non sei ancora cenere,

    e io ho già dimenticato la tua voce

    e le lanterne che destavi nella tempesta.

    Le ho estinte tutte,

    soffocate nel mio manto di peccati,

    per l’avvento della notte più lunga e malata.

    Sono l’ultimo granello

    e il Tempo mi chiama.

    Benvenuto all’Inferno.

    È l’Inizio della Fine.

    * * *

    In un frullio di ali, il corvo atterrò con un doppio rimbalzo prima di soddisfare l’equilibrio e gracchiò arrogante.

    Aveva mangiato così tanto che volare era diventato un fastidio necessario, giusto per spostarsi da un convivio all’altro e nonostante il ventre fosse più che appesantito, l’ingordigia aveva continuato ad avere la meglio sulla pigrizia. Giornate eccezionali come quella non andavano sprecate.

    Scrollò il piumaggio, zampettò in avanti per accomodarsi meglio e piegò il collo per affondare il becco nel pasto successivo. Se la fortuna fosse stata dalla sua, e nessuno dei solerti compari lo aveva preceduto, poteva essere la portata più prelibata: occhi. Con la precisione di un sarto, spostò una ciocca di capelli e li trovò senza la buccia delle palpebre, spalancati. Ed essi si mossero!

    Offeso, il corvo manifestò il suo sommo disappunto in un sussulto di piume insieme a una protesta stridula, e si librò in volo molto più lesto di come fosse atterrato, imitato dai convitati più vicini che presero il cielo senza sapere perché. Il rancio ringhiò loro una minaccia in un groviglio gutturale, poi si mise a sedere a gambe incrociate. Puzzava di sangue rappreso. Lo aveva sulle mani, sul monolitico torace, in bocca. E non era tutto suo.

    Affaticato dal brusco risveglio, l’uomo deglutì tre volte nel tentativo di disincagliare la lingua dall’appiccicoso palato, mentre un’alba sfilacciata si trascinava con passo stanco fra le schiere di ombre claudicanti della notte, lente ad abbandonare il campo, così come lo erano i suoi pensieri a tornare lucidi. Non c’era fretta. Ci stava comodo in mezzo a quella oscurità perché, da qualche parte dentro di lui, sentiva incombere un’angoscia pronta a sbaragliare le macerie sotto cui era sepolta, ansiosa di traboccare per irrorarlo e riempire tutti i vuoti.

    Con sguardo assente, l’uomo fissò la linea che sul terreno spezzato tracciava il confine tra la giovane luce e le tenebre, pago del proprio attardarsi a misurarne le conquiste, una pietruzza dietro l’altra, finché non la vide marciare troppo vicina alle ginocchia. Allora le raccolse al petto infastidito e fu del tutto sveglio.

    Figlio.... Il dolore ruppe gli argini e Gundemaro cercò aria da respirare. Gundemaro. Sì, questo era il suo nome. Lo travolse un sapore di fumo, ferro e cenere, condimento amaro che si aggiunse al gusto dolciastro del sangue aggrappato in gola, e la reminiscenza di una lunghissima battaglia strattonò i suoi occhi sui dintorni.

    Deserta e opaca, la distesa rispose avvolta in una bruna coltre sonnolenta e il barbaro stentò a riconoscerla. Dove un tempo si ergevano i leggendari scheletri dei bandwo, adesso sedevano mucchietti di carbone sfrigolante; le braci, non del tutto spente, ammiccavano sotto la crosta e a tratti scoppiavano, lanciando spruzzi di scintille nell’aria sporca. Un giorno il vento avrebbe disperso anche quei resti e nessuno avrebbe più potuto riconoscere i confini della Piana delle Ceneri.

    Quanti di quei mucchietti non erano alberi, ma uomini? Quanti Lupi? Gundemaro li fissò, cercando di scorgerne le vestigia. Erano tutti uguali nella morte. Tutti avanzi. Dove si fermano i corvi..., comprese e si voltò per non guardarli mentre banchettavano.

    Alle sue spalle, sulla roccia nuda, un reticolato scomposto di crepe si contorceva a perdita d’occhio, fino ad annegare nell’imponente voragine che aveva divorato il cuore del bassopiano. Mancava la cenere. E soprattutto, mancavano le armi. I sopravvissuti le hanno portate via, ma era un pensiero stonato. I sopravvissuti, se ne esisteva qualcuno, lo erano perché avevano abbandonato il campo fuggendo dalla devastante colonna di fuoco, ed era la propria pelle, insieme al sangue che erano riusciti a non farsi estorcere, l’unico equipaggiamento che avrebbero avuto il tempo di trascinare con sé. Feriti e cadaveri erano stati lasciati indietro. Ma allora dove erano gli spadoni, le scuri, i martelli da guerra di coloro che erano caduti? D’istinto Gundemaro piegò le dita e trovò l’elsa del proprio acciaio. Risparmiato. E abbandonato.

    Perché?.

    La luce lo sfiorò di nuovo e un’onda di rabbia gli contrasse i muscoli, una sferzata al corpo che lo trasse in piedi. Chiunque fosse passato a depredare le spoglie sul campo di battaglia, non si era accorto di lui, non lo aveva visto, non lo aveva considerato. Quella era l’arroganza di un vincitore e il vecchio Lupo seppe dove guardare.

    Il ricordo si risvegliò prima nella carne che nella mente, torbido sfamarsi di una lama che lenta addentava il torace, il filo tagliente spinto con dissoluto piacere per imprimere il proprio marchio di prigionia. Gundemaro annaspò e portò la mano disarmata a una ferita che non c’era. Non era stata la sua carne quella.

    Demilar... figlio....

    Gli spettri di Cniva del Corvo Spinato, Tulga dell’Orso Pietroso e di Erarico, Warin del decaduto Fare di Lince, ripeterono la danza sulle corde della sua memoria, laggiù dove aveva visto Demilar Warlash l’ultima volta, mentre soccombeva nella loro morsa randagia. Non aveva gridato. Non lo avrebbe fatto nemmeno lui.

    Un raggio di sole trafisse le nubi del mattino e i fantasmi che Gundemaro stava contemplando scolorarono nel suo alone scintillante, vaporizzandosi per inseguire il respiro della notte ormai consumata. Una notte in cui nessuna delle lune aveva trovato lo spazio per affacciarsi. Una notte lontana dallo sguardo degli dèi.

    Gundemaro squadrò le spalle, levò il mento e sospinse negli abissi dell’ira ogni preghiera. L’ultima l’aveva pronunciata sulla pira funebre del figlio, Recaedo, e qui comunque non c’erano dèi da onorare. Ci sarebbe stato però un giuramento, c’era già stato.

    A te, fratello che combatti al mio fianco, io consacro il mio ultimo respiro.

    E Gundemaro respirava ancora.

    Incapace di staccare gli occhi dall’orizzonte che aveva divorato l’immagine di Demilar, il vecchio Lupo passò la mano con fare assente sul torace, sulle braccia, sulla coscia e ovunque ricordava di essere stato ferito. La sua pelle era sporca adesso, ogni squarcio nascosto dietro una poltiglia ombrosa tanto densa da impedirgli di distinguere fango da sangue. Nemmeno il dolore venne a fargli visita, scalzato in qualche angolo remoto dalla prepotenza animalesca che si stava riaccendendo in lui, la stessa che lo aveva accompagnato per lunghi anni dalla morte del primogenito Recaedo.

    Aveva fame però. Forse era colpa dei corvi che banchettavano con tanto gusto intorno a lui, o forse era il lascito di un eterno giorno di combattimento, dove non aveva risparmiato una sola scintilla di sé.

    La luce del mattino si fece più intraprendente e gli baciò i piedi. Irragionevole, Gundemaro la maledisse, cercò sulle proprie spalle la pelliccia di lupo senza trovarla e, ringhiando frustrato, rinfoderò la spada ancora incrostata della vita strappata ai nemici. Tempo di percuotere il terreno con la sua marcia vendicativa.

    Aveva fame, sì, e il pensiero dipinse a tinte forti il volto di Erarico, l’ultima smorfia che si sarebbe composta su quella pelle bronzea dopo che lui lo avrebbe avuto per le mani. Ne avrebbe fatto scempio, giurò.

    Piegandosi sulle ginocchia, scacciò un corvo che aveva sperato di essere abbastanza discreto da non essere visto e senza nemmeno guardare dove chiudeva le grosse dita assassine, gli rubò il pasto e se lo portò alla bocca. I denti si tuffarono in un groviglio di tendini e carne cruda, ne strapparono un brandello, e la bocca fu lavata da un generoso getto di sangue fresco. Continuò finché non sentì l’osso ringhiare sotto i robusti incisivi, gli occhi ancora incatenati sul pezzo di roccia che aveva osato vedere le ginocchia del Warin del Lupo.

    Quando fu sazio, passò l’avambraccio sul mento e lasciò cadere i resti del pasto sul suolo dannato della Piana.

    Demilar, vengo a prenderti.

    Ai suoi piedi, le ossa spolpate di una mano rotolarono in silenzio.

    Capitolo I - A un passo dall’Ombra

    Qualcosa gli sfiorò la schiena nel buio e in un impeto di repulsione mista a orrore, il naufrago spalancò la bocca. Un’onda salata la riempì, le mani raccolsero schegge nel tentativo di trattenere il pezzo di legno cui si aggrappavano e la testa fu un tumulto di imprecazioni. Un altro cadavere. Ne aveva scorti una mezza dozzina ormai, tutti pallidi come lumache, gonfi d’acqua, abbandonati a una passeggiata molle e priva di meta. Galleggiavano su un mare che sembrava ammuffire.

    Da qualche parte non lontano, una voce nella bruma gorgogliò parole di una lingua straniera che lui non comprese, quindi tacque e non rispose. L’altro non si arrese.

    «Danashi...», questo lo capiva. Era il suo nome.

    «Sono qui...».

    Il suono bastò perché il denebiano che lo aveva strappato alla prigionia e che adesso spartiva con lui le onde di Shay Iarthar, il Mare Rovente, non domandasse altro. Inutile sprecare fiato prezioso in un dialogo che nessuno dei due avrebbe potuto portare avanti, specie quando era molto più sano serbare le energie nello sforzo di tenersi a galla. E poi Danashi non amava parlare con i suoi simili, nemmeno quando condivideva lo stesso idioma. Comunque non avrebbe dovuto preoccuparsene ancora per molto.

    Disperso in una distesa di nero e nebbia, aveva solo un dannato frammento di legno a separare vita da morte e il mare si stava già prendendo da lui un pezzo alla volta. Aveva cominciato dalla gamba ferita, inutile orpello che penzolava inerme in preda alle correnti. Era già da un po’ che Danashi non l’avvertiva più, come se il perfido squarcio vicino all’inguine, inferto dal bastardo sul battello da cui era fuggito, si fosse riaperto e avesse svuotato in mare tutto il calore che la coscia conteneva. La immaginò bianca, tumida, molle come i morti che gli galleggiavano intorno e gli venne voglia di staccarla dal proprio corpo. E se fosse già successo? Se qualche mostro degli abissi l’avesse già divorata?

    Il pensiero fu così vivido da ribollire dritto sulle onde, straripando in un strofinio concreto sul fianco e prima che potesse gridare, Danashi si trovò impigliato nella visione di un abominio a due teste. Scalciò, si dibatté e per poco non rischiò di perdere la presa sul frammento di legno, prima di riconoscere il volto del denebiano, a stento scolpito nell’oscurità di fronte a lui, e quello di un altro uomo accasciato a peso morto sulle sue spalle.

    Nel silenzio, la voce dello straniero gli parve la marcia di un esercito. Lo stava incoraggiando, questo gli era facile leggerlo nella ripetitività delle parole, nel tono apprensivo, malamente celato dietro il velo di un nobile tentativo di conforto, e nello sforzo che fece per tendere una mano a offrirgli sostegno.

    Certo. Come se non bastasse quel cadavere che ti porti dietro. Danashi rifiutò l’aiuto. Sebbene non sapesse nuotare, e l’idea di finire nel ventre di un grosso predatore marino lo rendesse più rigido del legno che stringeva, era certo che si sarebbe portato negli abissi anche il generoso sconosciuto se avesse aggiunto il proprio peso a quello che costui si ostinava a trascinare con sé.

    Da cosa mi hai salvato?, si domandò spingendo lo sguardo nel vuoto che lo circondava. Persino le fiamme, scorte subito dopo il tuffo spiccato dal natante senza nome, avevano disertato adesso, lasciando in scia un lezzo di fumo e silenzio sconfinati. Non fosse stato per i rottami e i cadaveri sparpagliati sulle coltri marine, lambiti da stracci di nebbia, Danashi avrebbe giurato che la battaglia non c’era mai stata.

    Il vascello dalla chiglia bianca gli aveva consegnato un pezzo di sé per galleggiare, insieme a un uomo che si era battuto come una furia per liberarlo. Poi era scomparso, ritirandosi nelle nebbie da cui era stato sputato. Poco dopo era toccato al due alberi senza nome su cui era stato prigioniero, il dannato pezzo di legno governato dall’Auraise, ripiegare, quasi l’apparizione dell’abominio fiammeggiante lo avesse spaventato. Anzi, quasi avesse spaventato entrambi i contendenti.

    Ma l’ho visto davvero?. Danashi adesso non ci credeva più molto e diffidava della propria lucidità. Gettato in pasto al nulla, aveva fin troppo spazio da riempire con la propria fantasia, e le inconfessabili paure, che la dignità avrebbe saputo tenere a bada in qualunque altro momento, adesso avevano preso il comando delle percezioni. Ecco perché immaginava flotte di squali, per nulla schizzinosi nei confronti della sua carne segnata, aggirarsi pazienti nel profondo spazio vuoto sotto i suoi piedi e aveva visto la loro pinna scolpita in ogni dannata cresta di ogni dannata onda. Il tocco di un’alga, lo schianto dell’acqua sui relitti che invisibili gli danzavano intorno e la voce umida della nebbia si erano aggiunti in contorno. Ma soprattutto, gli occhi avevano cominciato a vedere quello che volevano. Proprio come ora. Danashi sbatté le palpebre tre volte e capì di essere impallidito, perché lo straniero di fronte a lui si decise a tacere e si voltò.

    La dèa Naeviel, che nessun occhio umano avrebbe dovuto violare, si stava levando dagli abissi.

    * * *

    «Non ci arriverà vivo comunque».

    «Non puoi saperlo».

    «Ti sbagli, lo so. Ho già visto ferite come questa e non guariscono».

    «Cosa dovrei fare allora? Ucciderlo?!».

    «Sarebbe più misericordioso».

    Stanno parlando di me....

    «Tu stai delirando! È un Ashvin!».

    Sì, stanno davvero parlando di me.

    «E anche gli Ashvin muoiono».

    Sahile Jvotis sollevò le ciglia, ma lo spiraglio di luce che si gettò ingordo nel varco gli tagliò gli occhi e lo costrinse a serrarli subito. I sensi si stavano riaffacciando con passo lezioso e anche se ancora incerti, furono sufficienti per fargli individuare una delle due voci. Nirad.

    Non c’è tempo Nirad. Portalo sulla Dhaula!

    Quelle era state le ultime parole che gli aveva detto, l’ultimo comando prima di dedicarsi anima e acciaio allo spaventa-corvi.

    «Se deve morire, succederà a Seyema! Tu non hai l’autorità per decidere, Chirag!».

    Chirag... non siamo sulla Dhaula allora....

    «Sei un Ashvin anche tu, Nirad?».

    «No, ma...».

    «Ma ha ragione...», le parole si trainarono un sentore salmastro dal fondo della gola e Sahile lottò per un momento prima di riprendere rauco, «a bordo di una Echo è il Chirag a decidere. Se lui cade, un altro Guardiano dei Flutti prende il suo nome e la sua carica», recitò, ricordando il Codice del Sale.

    Non aprì gli occhi e non li vide, ma sentì il fruscio del Chirag che si inchinava per ringraziarlo e immaginò il volto di Nirad increspato di frustrazione.

    «Ma Ashvin...».

    «Ti prego, Chirag... la luce...».

    L’ombra si accomodò fresca sulla fronte accaldata e Sahile seppe che l’oblò era stato oscurato. Quando azzardò levare le palpebre di nuovo, intravide ciò che aveva immaginato.

    Il Chirag era un uomo senza volto, cinto in abiti comodi, tessuti con una fibra che fluttuava dal grigio al verde, capo e volto imprigionati dentro una guaina aderente con un’unica fessura per lo sguardo che, per pura coincidenza, in questo individuo replicava le tinte indossate. Tutti i Guardiani dei Flutti vestivano così e l’unica araldica a distinguere un Chirag, l’uomo al comando di una Echo, dal resto dell’equipaggio era il Jeevan, una piccola ampolla ciondolante sul petto, scavata nel quarzo e riempita di acqua salata.

    Caparbio, Nirad avanzò di un passo verso il giaciglio.

    «Ashvin, tu puoi comandare sopra un Chirag...».

    «Lo so», la cabina prese a girare quando tentò di sollevarsi e Sahile dovette accontentarsi di poggiare sui gomiti, «dov’è Danashi?».

    «Sei ferito, meglio se non ti muovi...».

    «So anche questo. La schiena è un inferno. Dove-è-Danashi?».

    Nirad sospirò. Il tono di Sahile si era fatto tagliente e lui dovette piegarsi. «A bordo. Dorme».

    Ce l’aveva fatta dunque, lo aveva salvato. Ma io come ci sono arrivato qui?. L’ultimo ricordo era quello di una spada che lo azzannava, il volo oltre la battagliola, e l’abbraccio freddo del mare, dove avrebbe dovuto annegare.

    «Mastro di Aliothe», il Chirag parlava senza alcuna inflessione emozionale, ma Sahile colse lo stesso del rispetto nella sua voce, «abbiamo pulito e fasciato la tua ferita. Tuttavia non arriverai a Seyema vivo, se quella è la rotta che desideri comandare».

    Niente giri di parole.

    L’Ashvin deglutì amaro e cercò di tener saldo il decoro di un volto inespressivo, quasi non si parlasse della sua imminente dipartita.

    «È tanto infetta?».

    «No».

    Gli occhi saettarono sul Chirag, la fronte un groviglio di domande inespresse.

    «Una Lama Inversa», spiegò l’uomo senza farsi sollecitare e Nirad risucchiò l’aria tra i denti.

    «Sono solo leggende...», osò con poca convinzione, ma già mentre le parole si sedevano sull’ultima sillaba, la speranza cui si aggrappava prese ad annaspare sulle rive del sorriso triste di Sahile. Morire in battaglia era un conto, ma dover decidere il momento in cui privarsi della vita era tutta un’altra storia. E avrebbe dovuto farlo presto, prima di varcare la soglia proibita delle Regioni dell’Ombra e rimanerne imprigionato.

    «Leggende», ripeté Nirad con la forza di chi vuole convincere sé stesso a svegliarsi da un brutto sogno, «nessuno ha mai visto una lama simile e meno ancora le ferite che infligge».

    «Io sì», se il Chirag stesse provando una qualche forma di compassione, di sicuro non lo stava dando a vedere, «non è la prima volta che ci imbattiamo nell’Adespoto».

    «Nel... cosa?».

    «Nell’Adespoto. Il due alberi senza insegne. L’Ashvin non è il primo uomo a uscirne con quel marchio. Un altro lo ha preceduto».

    Sahile ignorò il dolore del corpo, schiacciato da quello della mente, e dopo un paio di tentativi infelici, alla fine si trasse in piedi. Nirad stava ancora dicendo qualcosa, poteva sentirlo come un ronzio di fondo che volle esiliare, mentre le mani intrecciavano con fare assente le stringhe del giustacuore. Quando giunse a infilare gli stivali, la rabbia si era gonfiata e stava già schiumando amara in lui. Se solo avesse danzato meglio! Se solo avesse capito chi... cosa stava affrontando! Una singola torsione, solo una dannata manciata di centimetri e la lama non lo avrebbe toccato. Le voci tornarono a galla.

    «...vascelli su Shay Iarthar. Combattono».

    «Insegne?», domandò l’Ashvin, traendo conforto nel senso del dovere.

    «Tre denebiani, due di Menkalinan, e un altro...», il Chirag ebbe la sua prima esitazione.

    «Cosa?», lo spronò Sahile.

    «Impossibile a dirsi. È in fiamme».

    «Non serve contarlo allora».

    «Temo di sì, invece, Ashvin. Brucia da molti giorni ed è ancora a galla».

    Sahile guardò a lungo il Chirag. Lame Inverse, vascelli fiammeggianti. La sua fiducia nell’uomo al comando della Echo stava cominciando a vacillare e non gli dispiaceva nemmeno così tanto. Se il Chirag fosse stato davvero pazzo, lui non era condannato. L’uomo ricambiò lo sguardo e nel prolungato silenzio lesse tutte le parole che l’Ashvin non pronunciò.

    «Posso portarti al suo cospetto, se desideri vederlo. La Echo sa essere invisibile e né Nirad, né Danashi saranno in pericolo».

    Mi esclude, quasi fossi già un cadavere, con l’amarezza del pensiero negli occhi, Sahile annuì.

    «Poi farete rotta per Merak».

    Nirad raccolse il fiato e dischiuse le labbra, ma si trovò a boccheggiare contro il muro dello sguardo che l’Ashvin gli oppose.

    «Adesso voglio parlare con Danashi».

    I suoi passi malfermi calpestarono il silenzio dei due uomini, ma quando fu sulla soglia dell’alloggio si fermò e, senza voltarsi, parlò di nuovo in un sussurro.

    «Chirag, l’altro uomo, quello che mi ha preceduto... che ne è stato di lui?».

    «Morto. Nel sonno».

    «Opera tua?». Il Chirag non rispose, ma non ve ne fu bisogno.

    * * *

    L’Astro Cinereo. Le perle compaiono quando è cieco.

    La punta d’argento del pennino inciampò sulla trama ruvida della pergamena e le ultime gocce di inchiostro che la bagnavano sciamarono in uno spruzzo puntiforme, una nuova costellazione color seppia a doppiare quelle che la precedevano sul foglio. L’Auraise imprecò tra i denti e scagliò uno sguardo ostile all’oblò. Seppure non di molto, Shay Iarthar e le sue nebbie lattiginose erano alle spalle ormai, insieme a tre quarti del misero equipaggio con cui aveva affrontato quella sventura di nome Dhaula. Ma soprattutto, all’orizzonte il mare cominciava a separarsi dal cielo. Una nuova alba.

    Stregato, contemplò per qualche tempo i profili delle nubi autunnali incendiarsi, l’indaco scalare i bastioni della notte e le ultime stelle sbadigliare negli sprazzi di cielo libero, stanche della lunga veglia. La mano ebbe un tremito, il pennino tintinnò sulla boccetta di inchiostro e l’Auraise si riscosse. Era diventato difficile trovare la piccola apertura ove intingere la punta, quasi le nebbie di Shay Iarthar si fossero imbarcate in clandestinità e insediate nei suoi alloggi. Presto lo avrebbero reso cieco del tutto.

    Svelano... acqua... Eblyss compiuto.

    Non avrebbe potuto scrivere di più. Anzi, non avrebbe scritto per niente se solo la memoria di ciò che compiva qui, nelle Regioni del Prisma, non avesse avuto la pessima abitudine di impigliarsi in quella che lui chiamava assenza, sparpagliandosi in briciole disgiunte a ogni ritorno, quasi fosse costretta a passare per un varco troppo stretto.

    Arrotolando in malo modo la pergamena, la aggiunse alle altre, stipate tra le scie sfilacciate del proprio manto e non provò né a ripulire il pennino, né a richiudere l’inchiostro. Non li vedeva più e nemmeno gli importava. Ciò che contava invece era quel tesoro conquistato a un prezzo che aveva rischiato di essere molto caro: un piccolo, insignificante forziere che raccolse alla cieca per occultarlo accanto al grumo di memorie vergate.

    È tardi, riconobbe scontento, eppure si avvicinò all’oblò e armeggiò finché non riuscì a dischiuderlo. Il mare irruppe violento sulle sue percezioni, soffiandogli sul volto il proprio aroma sontuoso di salsedine, il canto frizzante delle onde e lo scintillio dei gioielli che sfilavano sulle loro increspature, lucenti araldi dell’arrivo di Sraedian. L’Auraise si lasciò abusare, come non faceva da tempo.

    Dall’alto del suo torrione, baciato dai raggi di un sole pulito, li guardò fiero, ascoltando il ritmo della marcia che li conduceva a rendere omaggio a lui, latore di vittoria e salvezza.

    Lode a te, S....

    Il ricordo si spaccò e l’Auraise gemette, piegandosi sulle ginocchia e premendo forte i palmi sugli occhi. Aveva guardato abbastanza, respirato abbastanza, desiderato troppo.

    Si scostò e cercò tregua nell’ombra che riuscì a trovare ancora acquattata in un angolo della cabina. Sulla punta delle dita, volate ad aggrapparsi all’impugnatura della spada, sentì l’orgoglioso ricamo di sei gemme e il vuoto lasciato da una settima, perduta in battaglia. Anche quella l’aveva dimenticata, ma il segno era rimasto e lui sapeva che era una cicatrice d’onore.

    «Onore...», gracchiò alla solitudine che lo circondava, la parola vomitata con il più caldo disprezzo.

    E prima che la smorfia sulle labbra secche si ricomponesse, sussultò forte. Pessimo segno. Stava oltrepassando la soglia del controllo e l’incoscienza nostalgica in cui aveva indugiato troppo a lungo venne a chiedere pegno, sfumando nelle prime avvisaglie di una paura profonda. Cosa sto facendo?!.

    Impigliato nei propri stracci, arrancò carponi, la mano a tratti distesa nell’aria bianca che lo inseguiva nella conquista del suo alloggio, e infine trovò il lungo drappo scuro che avrebbe sbarrato l’oblò.

    Peccato non vedere l’atollo bagnato dalla luce dell’aurora. La costa sarebbe apparsa all’orizzonte da un momento all’altro e lui poté solo immaginarla sfilare vanesia davanti alla prua, agghindata nella fierezza smeraldina delle sue colline. Non che lui ricordasse come fosse fatto il colore verde. Lo aveva sentito raccontare da Ramazza, il mozzo. Ogni volta che avevano fatto rotta per il rifugio, quella sorta di ragazzino dalla faccia di rana aveva poi passato la notte successiva a celebrare il proprio entusiasmo, ignorato o deriso dagli altri. Avrebbe parlato degli strali lucenti, sospirati dalle stalattiti di sale lungo la galleria che conduceva alla loro tana, e avrebbe giurato di aver contato almeno cento arcobaleni, mentre qualcuno gli avrebbe ricordato che lui non sapeva contare. Di nascosto, l’Auraise li avrebbe ascoltati, come sempre.

    «Signore...», la voce gorgogliò ovattata oltre la porta, anche se non era quella della vedetta, morta durante lo scontro con i denebiani. Questo era il timbro stropicciato del timoniere e pur sicuro che avesse un nome, l’Auraise non lo ricordava, né lo aveva appuntato.

    «Mantieni la rotta e non cercarmi fino al tramonto».

    Gli rispose un breve silenzio incerto, poi l’uomo parve trovare il coraggio.

    «Sì, mio Signore. Volevo solo informarvi che... il vascello in fiamme...». Altre parole si rincorsero, sempre più lontane, soffocate dal sibilo di un vento che non scuoteva le tende del suo giaciglio, ma ululava forte nella testa. Sdraiato, con gli occhi chiusi, l’Auraise sentì che c’era qualcosa di importante da ascoltare, un allarme che si depositò greve tra le pieghe della coscienza.

    Ma era troppo tardi e lui stava scivolando nell’Ombra.

    * * *

    Consumarono un pasto infelice, occhi bassi e assenti, schiene accasciate contro il fianco della scialuppa, tratta in secca con le ultime, umide energie.

    Il rifugio era avaro: una spelonca scavata dal paziente lavoro dell’alta marea che, era dopo era, aveva depositato flotte raggrinzite di valve e crostacei lungo le pareti, ma non v’era stato tempo per cercare qualcosa di meglio prima dell’estinguersi della notte, preziosa alleata che aveva mascherato il loro approdo. L’alba si era arrampicata sul mare di malavoglia in verità, e non si era mai denudata

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