Chiama Quando Arrivi
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Anteprima del libro
Chiama Quando Arrivi - Daniela Palumbo
tutto
Parte Prima
1.
Non c’è dolore più grande che portare una storia
non raccontata dentro di te.
-Maya Angelou-
Stanotte, come spesso accade ultimamente, non ho dormito.
Mi sono alzata alle cinque, ho fatto una doccia e indossato un abito nero.
È uno dei miei preferiti, fino a qualche settimana fa mi stava aderente, fasciava tutte le mie curve in modo impeccabile, mi faceva sentire bella, desiderabile. E solo una donna sa quanto è importante un vestito che ti fa sentire bene. Ti regala sicurezza e non è mica una cosa da niente!
Adesso veste piuttosto largo, sembro un sacco di patate, uno di quelli in juta che restano flosci su sé stessi, ma l’ultima cosa che voglio è uscire a comprare qualcosa che mi stia bene addosso.
Alle sei sono lavata, pulita e profumata, siedo sull’isola che troneggia al centro della nostra cucina.
È una cucina grande, l’ho desiderata tantissimo, bianca, laccata e con questa grande isola al centro dove si può mangiare comodamente in sei.
Tant’è che non mangiamo mai al tavolo, anche perché, testarda come un mulo, ho voluto un tavolo in vetro temperato… must-have intramontabile… potevo non averlo?
È tremendamente scomodo, si sporca appena lo guardi, anche se lo guardi di nascosto, lui lo sa e si sporca.
Paolo, mio marito, si è appena svegliato, preparo il caffè per entrambi, nero e senza zucchero, bevo il mio, il suo è nella tazzina del cuore quella che abbiamo comprato quando per la prima volta siamo andati a Parigi, lì dove esattamente diciannove anni fa è stato concepito nostro figlio, Tommaso.
Aspetto, aspetto troppo, inizio a picchiettare nervosamente le unghie sul ripiano, il suo caffè si raffredda, vado a vedere perché impiega tutto questo tempo.
La porta è aperta, come sempre, se fosse per lui le porte non esisterebbero, sono superflue, dice.
Chissà magari è stato concepito al Colosseo.
Paolo, tesoro, tutto bene?
, domando.
Che domande
, risponde piccato.
Bè si… intendo…
, che intendo? Mah, non lo so neanche io.
Tutto bene, sono pronto
.
Mi accarezza una guancia, lo guardo, mi guarda, ormai tra noi ci sono solo silenzi assordanti, carichi di una tenerezza quasi utopica.
Anche lui veste di nero, è smagrito, ha le occhiaie molto pronunciate e i suoi occhi hanno preso una curvatura tendente al basso in pianta stabile.
Il mio Paolo, il suo viso era così pieno, tonico, fino a poco tempo fa, adesso quasi stento a vederci mio marito in quel faccino.
Si avvia in cucina, beve il suo caffè, osserva la tazzina, un ricordo si affaccia in viso, ha gli occhi lucidi. Io so perché.
Si gira. Mi sorride, o per lo meno, si sforza.
Liv, andiamo
, annuncia perentorio.
Si e che… forse non me la sento
.
Cosa non ti senti?
, chiede scocciato.
Niente Paolo, non sento niente
.
Se preferisci vado da solo
, dice, anche se so che non è quello che vuole.
Non si può fare Paolo, cosa penserebbe la gente?
.
Ancora con questa storia Livia, davvero? Credi che importi alle persone quello che ci sta succedendo? E soprattutto credi che importi a me cosa stracazzo pensa la gente se non ti vede?
.
Adesso è incazzato nero, giustamente, credo.
Perdonami Paolo, ho solo un po’ d’ansia
, dire un po’ è più che limitativo.
Alcune lacrime scendono silenziose sulle mie guance pallide, non so quando è successo di preciso, ma ho smesso da tempo di singhiozzare, i miei pianti sono diventati silenziosi quasi avessi paura di dare un suono a quel dolore.
Paolo mi accarezza, ultimamente lo fa spesso, a volte mi piace mi fa sentire amata, voluta bene ecco, altre mi sento un piccolo randagio che ha bisogno di essere coccolato dal padrone.
Abitiamo all’ultimo piano di una vecchia palazzina piuttosto borghese, in questi condomini datati non ci sono ascensori quindi iniziamo la nostra discesa per quattro piani di scale, scalino dopo scalino quasi fosse una metafora della vita.
Ogni tanto incontriamo qualche vicino, non ci salutano, non ci saluta più nessuno, si limitano a guardarci e sorriderci con afflizione.
Che nervoso!
Se c’è una cosa che detesto è la compassione, dal latino cum patior
soffro con.
Ecco, mi urta questo soffro con… con chi?
Perché la verità è che per quanto uno possa essere dotato di profonda empatia, non potrà mai, ribadisco mai, capire il tuo dolore se non ci è passato a sua volta.
Al massimo lo può immaginare, al massimo.
Entriamo in macchina e ci dirigiamo verso il cimitero, il funerale di Tommaso è stato celebrato più di un mese fa, il cimitero della nostra città era al completo e stavano finendo i lavori dedicati alla nuova area che sembra più un centro commerciale che un cimitero, è tutto spigoloso e con strane sculture dalle forme geometriche.
Dal momento che era tutto occupato e nell’attesa che i posti nuovi fossero pronti, dovevamo trovare una soluzione e capire dove mettere Tommaso nel frattempo.
Quel giorno un anziano signore ci sentì parlare con il custode del cimitero.
Ne rammento la conversazione come fosse ieri.
Buongiorno, mi perdoni, non di proposito s’intende... ma ho ascoltato la vostra conversazione e volevo proporle qualcosa
.
Mi dica
, gli dissi guardandolo in cagnesco.
Sono Matteo Campisi, mia moglie, Emilia, è morta diversi anni fa, ho comprato un posto accanto al suo... che ecco… al momento non mi serve diciamo e… insomma se vuole può occuparlo suo figlio fino a quando non trova una soluzione, mia moglie sarebbe contenta ad avere vicino un bel ragazzo piuttosto che un vecchio come me
.
Rideva. Io no.
Lo guardavo questo strano uomo bassino con la pancia e con quattro peli bianchi sulla testa e mi domandavo per quale diavolo di motivo stava sorridendo, come se in una situazione del genere ci si potesse trovare qualcosa di divertente.
Decisi di non parlare quasi a farglielo apposta, volevo che sentisse addosso il disagio di quello che aveva detto, volevo vedergli la fronte imperlata dal sudore di chi sa di essere fuori luogo.
Mio marito Paolo, che non è sadico come me, decise di interrompere quel momento imbarazzante.
Francamente ci farebbe un favore enorme dato che al momento non sappiamo come uscire da questa stasi. Mi chiamo Paolo Buonaccorsi, lei è mia moglie Livia
.
Nessun problema signor Buonaccorsi, mi segua
, disse l’anziano signore.
Ci incamminammo in religioso silenzio fino a ritrovarci in una zona del cimitero che non conoscevo.
Rimasi di stucco quando mi accorsi che c’era un interminabile fila di lapidi che sembravano delle villette a schiera, tutte a coppia e ogni coppia aveva il proprio giardinetto privato. L’avrei trovato delizioso se non fosse stato un cimitero.
Sa signora Buonaccorsi…
, disse il vecchio.
Mi chiami Livia, sono piuttosto giovane sa?
, risposi stizzita.
Livia voglio raccontarle una cosa, quando Emilia è morta ho deciso di piantare un roseto di rose bianche ma le rose in questi anni sono sempre sbocciate rosse, sono certo che sia stata mia moglie a farmi questo dispetto
.
E perché mai?
, chiesi incuriosita.
Perché le ho regalato rose bianche tutta la vita, solo perché piacevano a me, e ogni volta lei si arrabbiava non poco perché le voleva rosse, come piacevano a lei
.
E perché lo ha fatto… delle rose intendo… perché non regalarle rosse e basta?
.
Io e Emilia ci facevamo un sacco di dispetti a vicenda, così di prop