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Con il 9 sulla schiena
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Con il 9 sulla schiena

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About this ebook

“il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette...”

In realtà, il Nino di De Gregori nel libro è Marco, bimbo timido e impacciato che, palla da calcio al piede, vive gli anni ‘70 con le incertezze dell’età.

Per farcela, copre le “spalle strette” con la maglia di Savoldi, si veste da Zorro, mercanteggia con Dio per amore del Bologna e della sua biondina rispettando regole e criteri educativi trasmessi da genitori, chiesa e tessuto culturale.

Intanto, tra il realismo dei familiari e il cinismo dei coetanei, fuori c’è l’austerity, dalla nonna si ammazza il maiale, a scuola e in cortile si prendono lezioni esistenziali.

Marco vive le contraddizioni del periodo, in cui la semplicità contadina si scontra con la modernità che avanza e le antiche radici, rappresentate dalle tradizioni religiose e dai valori morali, vengono difese strenuamente, nel caso, anche con improperi alla bolognese.

Così anche Marco reagisce e prende a calci il pallone proprio come la vita fa con lui.

Come si dice a Bologna “quel che non ammazza ingrassa!” e lui, pur non ingrassando mai, “resiste agli urti della vita” comprendendo che, in essa, potrà avere un ruolo anche se non dovesse essere quello di centravanti!
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 21, 2019
ISBN9788827863374
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    Con il 9 sulla schiena - Marco Gollini

    buddista")

    PREFAZIONE

    Il racconto di Marco Gollini, Con il 9 sulla schiena, non è altro che la divertente storia di un bambino, uno dei tanti bambini di periferia, dove le giornate scorrono tra casa, scuola e chiesa. I ritmi sono cadenzati dagli obblighi precostituiti delle culture e delle tradizioni. Tutti vogliono dare consigli convinti che questa sia la strada giusta per la crescita. A casa i genitori, a scuola gli insegnanti, in chiesa i preti ma si sa che i bambini sono pieni di fantasia ed inventiva pronti a trovare, tra questi impegni, spazi per i loro giochi preferiti: il gioco del calcio, la raccolta delle figurine dei calciatori, i timidi sguardi dei primi amorini aspettando la domenica. Il giorno tanto atteso dove finalmente si è liberi di andare allo stadio per vedere i propri beniamini oppure, se la squadra del cuore gioca in trasferta, mettersi davanti alla radio ascoltando Ameri, Ciotti ma soprattutto aspettando che Piero Pasini si faccia sentire, annunciando il gol del Bologna segnato da Beppe Gol !

    Beppe Savoldi

    Capitolo uno

    COMPLEANNO IN ROSSOBLÙ

    Il mondo è una palla! pensò felice il bimbo, grattandosi quella di destra, mentre osservava stupito la sua immagine riflessa nello specchio. Sorrise a se stesso, convinto di aver fatto una scoperta astronomica degna del Nobel ignorando di essere stato anticipato di qualche secolo da un certo Galileo Galilei.

    Ma a lui, a quel bimbetto intendo, poco importava di chi lo avesse preceduto, impegnato com’era ad imprimersi nella mente quella data che era e rimarrà sempre il 13 luglio 1973.

    Quel giorno non se lo sarebbe più scordato ed anch’io mi ricordo bene di lui, secco e con le gambette a ics, come se fosse ora, come se fossi io. In verità ero davvero io!

    Ben pettinato e con la riga di lato, come piaceva a mio padre, mi rivedo qualche attimo prima della mia grande scoperta, pronto a sputacchiare anidride carbonica sulle sei candeline imbullonate nella torta. Si trattava del classico prodotto dolciario che la Gabri, al secolo mamma Gabriella, aveva realizzato ispirandosi alla sua capoccia tonda, immobilizzata di fresco dalla lacca del fido Silvano, il parrucchiere gay a cui si affidava periodicamente.

    Vediamo se riesci a spegnerle tutte d’un fiato!? esclamarono i miei familiari con tono di sfida. Non ho mai capito se volessero minare la mia autostima, confermandomi che rimanevo un fesso anche il giorno del mio compleanno o rinforzarla in caso di un (improbabile) successo finale.

    Nel dubbio mi concentrai per garantire una prestazione da valoroso pompiere dato che, tra me e il regalo, era rimasta solo lei: la torta!

    Già, la torta. Potrei giurare, anche se ho tentato in tutti i modi di cancellarla dalla mia mente, che si trattasse di un Pan di Spagna che mammina confezionava più che con amore con rassegnazione: Tanto a Marco non piacciono i dolci! come dire che ...qualsiasi prodotto avrà lo stesso effetto sul Piccolo Inappetente, tacito sottotitolo che seguiva la precedente considerazione.

    In effetti non amavo i dolci. Del resto come avrei potuto appassionarmi alle caramelle di miele se mi venivano offerte quando avevo la tosse o ai pavesini tocciati nel tè quando avevo il raffreddore? Che dire delle palline di zucchero colorato (e stantio!) regalate dalle anziane parenti quando si andava ad ascoltarne pianti e ricette? E la domenica poi? Che domenica poteva essere senza il dolcino a fine pasto?

    Mi pareva che la tortura del lesso post-tortellini fosse già sufficiente ma era una pura illusione. A conclusione del pranzo giungeva immancabile il temuto dessert fosse la torta di riso (al dente!) o il lingotto semifreddo (più freddo che semi) della stessa consistenza del marmo di Carrara! Se si considera poi che il monoblocco di mascarpone ghiacciato era ricoperto dai famigerati pavesini (e inzuppati di liquore!) la tortura diventava completa, non fosse altro per l’associazione con il raffreddore di cui sopra.

    Insomma, per comprendere come mai non mi piacessero i dolci non bisognava scomodare il Dott. Freud.

    Chiarito ciò, sull’onda del successo ottenuto sulle sei candeline, riuscii ad ingurgitare in qualche modo la fetta di torta, ultimo prezzo da pagare per avere l’agognato pacchetto regalo.

    Non saprei descriverlo nel dettaglio ma ricordo un pacco sui generis: medio, informe, morbido con carta rigorosamente riciclata! D’altra parte, una confezione con sopra Babbi Natali, renne ed agrifogli il 13 di luglio avrebbe destato qualche sospetto anche al più ritardato dei festeggiati.

    Secondo te cosa c’è dentro? mi stuzzicò Liliana, detta Lilli, la mia sorellona.

    Un autobus scala 1:1? risposi di rimando mascherando con l’ironia la tensione e sfoderando la mia espressione più gioiosa nel timore che si trattasse di un odiatissimo capo di abbigliamento.

    Così, con incazzatura da neo6ennefrustrato, scaricai l’adrenalina accumulata strappando la carta, nell’intento di non ritrovarmela anche il Natale successivo. Chiusi gli occhi, deglutii ed inoltrai a Dio la preghiera più efficace che avevo nel mio repertorio, affinché non facesse comparire un maledetto maglioncino di lana a collo alto, Pericolo Numero 1 in simili ricorrenze. La paura fu tale che mi presi persino la libertà di ricordare all’Altissimo (augurandomi che non fosse troppo permaloso) che eravamo in piena estate. Non che considerassi i miei genitori due ipodotati, ma il rischio regalo utile e preventivo era sempre in agguato perché, si sa, il tempo vola quando ci si diverte e l’autunno sarebbe arrivato in un attimo…

    Mi feci forza, introdussi la mano nello squarcio ed andai in perlustrazione.

    Non è lana e non è nemmeno il cappello con le orecchie (Pericolo Numero 2)!

    Grazie Signore Grazie, Grazieeee! esultò la mia anima.

    Rinfrancato, spalancai la breccia squartando Babbo Natale ed amputando le zampe ad un paio di renne, quindi puntai dritto dritto sul contenuto che mi si mostrò in tutta la sua bellezza. Rimasi a bocca aperta!

    Ero fortemente adenoideo ma non fu solo per quel motivo che mi ritrovai in una posa da idiota statuario. Fui folgorato da uno di quei regali che non si dimenticano nemmeno se vivi tre vite, figurarsi se ti arriva dopo sei anni della prima…

    Nell’ordine estrassi: pantaloncini corti (e fin qui tutto nella norma), scarpette nere con sotto tredici tacchetti ciascuna (non avendone mai viste fu un vero choc!), infine dei calzettoni senza il piede ma con un’inspiegabile strisciolina chiamata ghetta. Lo stupore aumentò quando, dal pacchetto, fuoriuscì il pezzo forte dell’equipaggiamento: una maglia a strisce verticali rossoblù con cucito sul retro un numero, anzi il Numero per eccellenza. Si trattava del 9 del mitico Beppe Gol, al secolo Giuseppe Savoldi da Gorlago (BG) come proclamava l’Almanacco Panini!

    Semplicemente magico quel 9, tondo e morbido come le tette della Carrà con la quale flirtavo da tempo, ovviamente a sua insaputa anche se pare superfluo esplicitarlo. Ma non fu l’associazione con la sensuale Raffa (ed i conseguenti brividini che mi provocava nel basso ventre) a far sì che la mia fantasia galoppasse. Venni proiettato tra le grida e gli applausi dei 36mila del Comunale di Bologna scattati in piedi dopo un mio gol ed io, sotto la curva Andrea Costa con i pugni al cielo, a godere per l’incitamento ritmico degli ultras rossoblù: Mar-co Gol, Mar-co Gol!

    Sì, perché io, il gol, se non nel sangue l’avevo di sicuro nel cognome.

    Quando mi svegliai da quel sogno, mi ritrovai di fronte allo specchio della camera dei miei genitori, vestito come il mio idolo! In verità, mi sentivo ridicolo con quelle gambette secche e storte, con quei tacchetti che mi creavano imbarazzo ed un’evidente instabilità. Non avevo proprio nulla di Savoldi anche se, sino a poco tempo prima, nemmeno conoscevo il suo volto. Beppe Savoldi, inizialmente, era solo un nome gracchiato nei pomeriggi domenicali dall’autoradio dell’Audi 100 LS di mio padre, rigorosamente piena di fumo. Savoldi ! era un urlo del radiocronista, solo di qualche decibel più alto di un Va-A-Cagher! (invito dialettale a defecare!) a una Printz bianca ed un C-at-Vegna-Un-Azident! (augurio di un imminente ictus!) recapitati da Augusto, detto Gusto, a qualche ometto col cappello intento a domare una Simca 1000 lanciata ai 30 all’ora sulla via Emilia.

    Il viso sorridente e baffuto di Savoldi mi apparve in bianco e nero una domenica sera insperatamente concessami davanti alla tv. Insieme a lui, altri uomini, molto meno interessanti, discutevano del gol che gli era stato sottratto ad Ascoli.

    Io non capivo di cosa parlassero e poco m’importava, essendo rimasto folgorato da due miracoli in una sola serata: andare a letto tardi ed assistere all’apparizione del Dio del Gol. E pazienza se il Lutring dell’area di rigore, capace di rubare il tempo a qualsiasi stopper, fosse stato rapinato di una rete da un giovane raccattapalle. Infatti, lu frichì (il cinno in versione ascolana), non riuscendo a tollerare che Beppe Mio segnasse il suo terzo gol (il quarto del Bologna!!!), calciò di nuovo in campo la palla che era ormai entrata in porta. Malgrado l’evidente scorrettezza, l’arbitro non se ne accorse pensando che avesse colpito il palo. Peccato che per quel gol sottratto, Savoldi perse la classifica dei marcatori di quel campionato.

    Avrei dovuto comprendere in quel frangente che il Bologna, già dai mitici anni Settanta, apparteneva alla schiera di quelli che non contano. Se l’avessi capito, forse, mi sarei risparmiato le arrabbiature per gli squallidi errori in buona fede che si sarebbero succeduti negli anni a seguire, spesso a favore degli stessi colori, quelli bianconeri, come fantasmi juventini a strisce verticali.

    Solo quel 13 luglio 1973, il bianconero mi sembrò tutt’altro che orribile, considerando la morbida sfera che mi ritrovai tra le mie mani. Era il completamento del regalo di compleanno, ovvero uno splendido pallone di cuoio che mio padre aveva comprato per me.

    Osservandomi allo specchio, mi parve che la mia aria da coglione fosse meno evidente, forse perché le mie gambette venivano in buona parte nascoste dai pantaloncini abbondanti e dall’enorme sfera che profumava di pelle ed amore. L’Amore di chi mi aveva cucito addosso un sogno ed il mio per loro che avevano capito quanto per me fosse importante travestirmi da eroe del calcio, armato di un globo a scacchi da colpire.

    "Grazie Gusto! Grazie Gabri!"

    Capitolo due

    ARIA DI CASA MIA

    Dai Marco, vai giù in cortile che oggi è una bella giornata!

    No mamma, oggi non ne ho voglia…

    Una simile motivazione non avrebbe retto alla cocciutaggine di una madre che sapeva andare ben oltre le mie banali scuse. Infatti…

    Ma guarda quanti bimbi stanno già giocando!

    No... non mi sento... e poi... mi sto divertendo anche da solo…

    La cocciutaggine unita ad una testa tonda come quella della Gabri, dava vita ad un binomio invincibile!

    Scherzerai??? Non voglio che ti isoli! Alla tua età bisogna stare insieme agli amici!

    Il concetto era ineccepibile ma altrettanto lo era il mio interrogativo: Quali amici?

    Per me erano tempi duri, con addosso il peso del seienne ma con il quoziente intellettivo di un bimbo di tre anni, avendo vissuto i cinque precedenti in una specie di giardino dell’Eden. Chiaramente non mi è dato sapere se in Paradiso sia presente tanta polvere nera come nella casa in cui ero nato, posizionata a fianco della fonderia di mio padre.

    Non andavo all’asilo ed a mantenermi impegnato ci pensava mia madre che, per contrastare l’odiato pulviscolo, mi affidava uno straccetto chiedendomi di aiutarla a spolverare. Pretendere, in quel contesto, di mantenere un minimo di pulizia era come cercare di asciugare il mare con una spugna. Con la Gabri ci muovevamo a ritmo di musica spostando da un ambiente all’altro un minuscolo transistor che proponeva le canzoni dell’epoca, almeno fino a quando il volume si abbassava lento ma inesorabile. Tale fenomeno non era da attribuire ad una delle funzioni tecnologiche più avanzate dell’apparecchio ma più semplicemente all’esaurimento delle batterie; ciò mi costringeva a vagare per la casa con la radiolina incollata all’orecchio, e la testa inclinata per trattenerla, allo scopo di ascoltare fino al termine la canzone prediletta bruciando sul tempo la totale estinzione del suono.

    In alternativa, ricorrevo al mangiadischi che fagocitava i miei 45 giri preferiti: da Massimo Ranieri con Sogno d’amore e Vent’anni, al bolognesissimo Morandi che raccontava di una certa Belinda in grado di annacquare la minestra con le lacrime.

    Però, l’allagamento più gradito, era provocato da La pioggia della splendida Gigliola Cinquetti, poco sotto alla mia Raffa nella speciale classifica delle fidanzate famose.

    Provavo sentimenti sinceri pure per la virtuale Agata ma quella era già di Nino Ferrer perciò dovevo dirottare qualche pensierino a Lisa, quella dagli occhi blu.

    Non sono invece riferibili gli effetti provocati da Minnie Minoprio che si strusciava addosso a Fred Bongusto mentre cantava Quando mi dici così... lasciandomi sempre con un enorme interrogativo: Chissà cosa gli diceva di tanto eccitante?. Mah… vai a saperlo.

    Nella top ten musicale era presente anche Jonny Dorelli con Quelli belli come noi! ed il molleggiatissimo Celentano con Una carezza in un pugno, pezzo che sussurravo usando la scopa come microfono. Comunque, quando Adriano passava alle minacce del tipo Chi non lavora non fa l’amore, mi rimettevo subito all’opera per ripulire al meglio ogni superficie presente nel locale.

    Purtroppo, anche il mangiadischi presentava gli stessi limiti del transistor, con l’aggravante che il sonoro risultava più truce: le voci soavi dei miei beniamini si trasformavano in gracchianti suoni che sembravano appartenere più ai fantasmi del castello maledetto che a fenomeni da Canzonissima.

    Così, nuove pile e nuova musica per poi ripartire di corsa lungo gli scaffali straccetto alla mano. In realtà, non ero solo un casalingo anche se, spesso, giocavo con le bambole ed i piattini abbandonati dalla Lilli. Mi dedicavo pure ad attività considerate più maschili: progettavo opere edili e facevo buchi nei vasi di gerani (gli unici a foglia nera esistenti in botanica) o sotto le siepi fino a scoprirne le radici. Ruspavo e scavavo imitando mio padre nello svolgimento del suo mestiere combattendo la mia personalissima battaglia verso l’identificazione di genere. Da una parte la femmina che cucina, rammenda, cura casa e famiglia e, dall’altra, il maschio, sudato e lercio dalla testa ai piedi, che lavora per lo stipendio con cui mantenere tutto il gruppo. Gabri e Gusto: due modelli chiari e ben definiti! Prendere o lasciare e nessuna via intermedia con buona pace del coiffeur Silvano che non figurava nel catalogo delle scelte possibili.

    Insomma, dopo l’inizio della mia esistenza vissuta tra polvere, buche, musica e bambole, ci trasferimmo nei "prestigiosi" (???) palazzoni sorti come funghi in Via Martin Luther King, candidata a diventare una delle arterie principali del mitico quartiere Borgo Panigale.

    Il neo appartamento, vanto ed orgoglio dei miei genitori, era posto al settimo piano di un agglomerato di alveari figli del boom edilizio degli anni 70.

    "Antisismico!" era l’aggettivo più usato dai miei anticipando ogni argomentazione relativa all’abitazione appena acquistata con la quale, probabilmente, pensavano di elevare la famiglia al livello del famoso (ed inquietante) grattacielo di quartiere.

    Antisismico! dicevano con orgoglio, solo sulla fiducia, almeno fino a quando il terremoto del Friuli mise alla prova l’edificio in cemento armato, facendolo sventolare come una bandiera rossoblù nella curva del Bologna.

    Per noi fu solo un tremendo spavento ed una conferma della buona tenuta del nostro stabile ma per altri fu una terribile tragedia che polverizzò diversi paesi friulani facendo tante, troppe, vittime. Di quella sera, oltre alla paura e la preoccupazione, ricordo che, mentre eravamo tutti in terrazza ad ondeggiare come sul Titanic quel simpaticone di Pio (che diventò poi il mio migliore amico) uscì in terrazza con una frase talmente stupida da risultare indimenticabile:

    Arriva la Juve il mondo trema!

    Chi, se non uno juventino, poteva sparare una simile minchiata in un momento come quello?

    A detta dei miei genitori, oltre a fornire garanzie di sicurezza anche contro attacchi alieni, la nostra dimora possedeva altre caratteristiche di pregio. Tralasciando per decenza, porcellane e quadri acquistati alle aste sul lungomare, penso che il top degli oggetti storici fosse una statua in bronzo che offriva ai visitatori almeno un’ora di discussione collettiva con Gusto nella veste di docente universitario. Mio padre dava il meglio di sé narrando la leggenda del ritrovamento e dell’ipotetica identità del militare, senza testa ma con il cavallo. L’ultima versione fornita dallo storico da bar lo aveva probabilmente convinto che il decapitato dovesse essere niente di meno che Garibaldi. La versione piacque parecchio a Gusto che, in evidente stato di eccitazione, aggiungeva ogni volta al racconto particolari stimolanti a beneficio di ogni ospite che veniva in pellegrinaggio per adorare l’appartamento.

    La descrizione ed il conseguente dibattito sul tema duravano fino a quando la qualità dell’aria degenerava ed il turista per… casa cominciava a guardarsi attorno annusando con circospezione, come fosse un segugio. Col passare dei minuti, quello che inizialmente si presentava come uno strano odore, diventava fetore. Quando la sensazione di trovarsi in un mercatino del pesce si trasformava in inquietante realtà mio padre invitava la compagnia a spostarsi in sala per bere qualcosa sul divano color panna.

    Per lunghi mesi il miracolo dell’ "Apparizione del merluzzo decomposto" si verificò senza che nessuno riuscisse a trovare spiegazioni scientificamente sostenibili. Anzi, qualcuno dotato di particolare originalità insinuò che il puzzo provenisse dagli organi putrefatti del bronzeo patriota. Poi, anche senza l’intervento dei NAS, Gusto riuscì a scoprire che il fenomeno era causato dal surriscaldamento dei portalampada in plastica della plafoniera che dominava l’ingresso. Anche se ciò fece scomparire l’aurea di mistero concedemmo ai visitatori l’idea che attorno alla statua dell’eroe dei due mondi aleggiasse ancora il profumo del mare dopo lo sbarco dei Mille.

    Mentre l’atmosfera leggendaria al sapore di nasello riempiva l’appartamento anch’io mi lasciavo coinvolgere da quei racconti, in quanto protagonista della storia d’Italia; per quel motivo mi presentavo puntualmente in salotto con la scusa di accendere la lampada coi filamenti in vetro che cambiava a rotazione i colori (ennesima attrazione locale) oppure per versare un Montenegro o un Petrus. Non che fossi dedito all’alcol, nonostante a quell’età mi dilettassi (di nascosto!) a fare il giro del tavolo per scolare i bicchieri col fondo di vino rosso. Io facevo il barman per gli adulti, godendomi il privilegio di poter ascoltare Gusto ed i suoi ospiti per studiare ed assorbire modelli, linguaggi ed espressioni su cui formare il mio stile personale. Stivando informazioni utili per il mio futuro, venivo ammaliato dalle tinte della lampada che variavano a ritmo lento e ripetitivo oppure guardavo distrattamente la televisione. A questo proposito va specificato che non ci si poteva certo uccidere di tv non essendoci Sky o il digitale terrestre come nei tempi moderni; la scelta si alternava tra il primo e il secondo canale della RAI, rigorosamente in bianco e nero!

    Il progresso televisivo bussò alle case degli italiani sotto forma di Svizzera e Capodistria, due canali stranieri che, con i loro programmi introdotti gradualmente, portarono entusiasmo e colori alle famiglie della penisola.

    Con l’avvento dei suddetti venni investito del ruolo di telecomando dei Gollini, con l’incarico di cambiare le frequenze tv su gentile richiesta dei miei che mi indicavano quale tasto del televisore spingere.

    Per un lungo periodo le prove tecniche di trasmissione venivano trasmesse il sabato, ad ora di cena, quando ci si riuniva per ammirare, come rincoglioniti, le estrazioni del lotto... svizzero! Ipnotizzati e con la forchetta a mezz’aria fissavamo le pallette variopinte che si agitavano in una sfera trasparente per poi rotolare su una corsia in metallo fino a giungere a destinazione portando felicità ai fortunati vincitori cantonesi.

    L’incantesimo terminava quando l’immagine scompariva improvvisamente o si udiva la voce di una crucca che proclamava la fine della corsa della boccia numerata: zettantatre!, ottantanofe! e via così.

    In alternativa, c’erano pupazzetti gialli e rossi fatti col pongo che animavano storielle infantili con un sottofondo di musichette da reparto di neurologia che, infatti, ci lasciavano imbambolati e meravigliati per tanta magnificenza.

    Insomma, ero arrivato a sei anni sospinto da queste incommensurabili soddisfazioni a cui se ne aggiungevano via via molte altre.

    Ad esempio, un giorno mi accorsi di essere cresciuto in altezza quando riuscii a spingere i tasti dell’ascensore, pur dovendo mettermi sulle punte come fossi Carla Fracci!

    Ciò mi tolse la possibilità di avere la scorta e l’accompagnamento di mamma per i miei spostamenti in cortile. Sapevo chi e cosa mi aspettava laggiù, nell’inferno di cemento, e la body guard in gonnella era un buon deterrente per il gruppo di baby aguzzini non così ardimentosi da affrontare un’energica signora sui trentacinque. Sapevo altresì che "l’energica signora sui trentacinque non avrebbe, comunque, mai abbandonato la preparazione delle cotolette per svolgere un servizio di figliosorveglianza".

    Un pomeriggio, cedendo all’insistenza materna, effettuai la discesa in ascensore dal settimo piano mentre il vociare dei bambini già si sentiva dal sesto. Si spalancarono le rumorose porte metalliche e mi feci coraggio: deglutii il ricordo della saliva (ormai evaporata) ed aprii il portone che dava direttamente sugli inferi.

    Vai Pizzòle! fu il grido d’accoglienza che mi venne tributato appena la mia testolina, pettinata con la riga da una parte, sbucò dalle colonne dell’enorme palazzone.

    Pizzòle, cioè io, avrebbe voluto essere come quel milite decapitato per non vedere e, soprattutto, per non essere visto e riconosciuto. Invece:

    Bella Pizzòle! continuò il coro di piccole facce con sembianze da deretano.

    Perché Pizzòle? domandai timidamente per comprendere il motivo di quel nomignolo.

    Tu prova a dire pistole e lo capisci da solo! rispose uno dei tanti svelti (lo erano tutti in confronto a me!) che popolavano il cortile dei due mostri gemelli abitati da quasi cento famiglie. E qualcuno aveva l’ardire di definirlo "contesto esclusivo"…

    Io ero convinto che la mia pronuncia non avesse alcun problema. I piedi storti e la voce nasale, per via delle tonsille sempre infiammate, erano difetti riconosciuti ma la zeppola no. Quella non me la sentivo così come non sentivo la erre moscia e mi sorprendevo sempre quando qualcuno me lo faceva notare.

    …allora tu digli: pistolone! mi esortava a difendermi la Gabri quando tornavo a casa con l’orgoglio in frantumi. Come facevo a farle capire che era impossibile imporsi con i più grandi? In verità mi sembravano tutti enormi anche se avevano solo un anno in più che, tra l’altro, a quell’età fa la differenza. Inoltre, si trattava di un gruppo coeso, impastato con l’ignoranza! Non avevo abbastanza parole, faccia tosta e fiducia in me stesso nemmeno per pensarle certe cose, figuriamoci per farle uscire! E poi, rispetto alla mente, la mia bocca toccava l’apice della maleducazione solo con uno sterile cretino, decisamente inefficace contro le bordate di "figliodiputtana" e "porcoquiDiolà" da fare crollare i palazzoni abitati e pure quelli in costruzione.

    Del resto, il termine pistola per me era di vitale importanza, essendo cresciuto tra le colt di Trinità e gli speroni di GionUein, idoli indiscussi di mio padre al pari di "CasciusClei che sparava" cazzotti micidiali con una forza ed una spavalderia invidiabili.

    La pistola era tutto per me. Era l’arma giusta per il mio riscatto immaginario in un mondo di furbi ed arroganti anche se "Terensill" e Badspenser mi rappresentavano perfettamente poiché mettevano al tappeto i cattivi senza lasciare scie di sangue dietro di loro. Il massimo della vita!

    Comunque sia, la pistola era la pistola ma, dopo quel compleanno, avevo con me un’efficace arma tattica, anzi "tennico-tattica" per dirla alla Capello, il giocatore dal collo taurino che aveva ricoperto il ruolo di idolo in attesa che Beppe Savoldi lo scalzasse da quel piedistallo.

    Lo so che Capello era della Juventus ma aveva anche castigato l’Inghilterra a Wembley con una rete in maglia azzurra…

    E va bene, ho deciso: adesso faccio outing! (come se fino ad ora abbia parlato dei vicini di casa). Prima di innamorarmi perdutamente del Bologna, ero attratto dalla Juve ma, a mia discolpa, sottolineo che non capivo ancora nulla di calcio e subivo il fascino mediatico già allora piuttosto potente: da Mike Bongiorno (che lanciò in TV l’inno E’ la Juventus) a Maurizio Barendson che ne parlava a 90° minuto fino ai colori della tv: tutto era bianconero! Una vera e propria cospirazione ed ancora oggi non posso fare a meno di ricordare la formazione tipo della Vecchia Signora: Zoff, Spinosi, Longobucco, Furino, Morini, Salvadore, Causio, Cuccureddu, Anastasi, Capello, Bettega.

    Bianconero era anche lo strumento con cui potevo difendermi, sperando che risultasse più incisivo della tanto amata pizzola, ovvero il mio cuoio nuovo che avrei però calciato indossando ben altri colori!

    Capitolo tre

    QUANDO GIRANO I PALLONI

    Dopo la faccenda di Pizzòle rimasi in casa diversi giorni a meditare sul da farsi e se non fosse stato per i miei genitori forse sarei un ultracinquantenne in perenne meditazione al settimo piano di via King.

    Dai Marco vai in cortile, ci sono già tutti gli altri sulle panchine...

    Non preoccuparti, appena arriva l’autobus vedrai che se ne vanno!

    Smettila di fare l’asino! disse mia madre che sapeva essere molto dolce all’occorrenza.

    Dopo casomai... ora sto giocando con le macchinine…

    Non puoi stare in casa con questo caldo! rilanciò utilizzando l’ultima stilla di delicatezza in suo possesso.

    Veramente tu e papà dite che qui al settimo piano c’è sempre corrente e si sta freschi!

    Bona lè! Vestiti e scendi!!! concluse democraticamente la Gabri.

    L’unica possibilità che avevo era lavorare sull’immagine.

    Era giunta l’ora di indossare l’armatura del Bologna per affrontare il gruppo degli infami. M’infilai tutto con la massima cura tralasciando, per l’occasione, le scarpe coi tacchetti per evitare di pattinare sui lastroni del cortile. D’altra parte, le mie ginocchia mostravano già un campionario di croste di eccellente qualità senza bisogno di aumentare l’offerta.

    Gonfiai il petto (o meglio evidenziai le costole) cercando di controllare il cuore che batteva così forte da sfondare la rachitica cassa toracica... rossoblù.

    Quindi abbracciai il pallone con decisione, come fossi un pistolero anzi un "Pizzòlero", che accarezza la sua colt in vista del duello. Le ante dell’ascensore si aprirono sbatacchiando come le porte di un

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