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Arcipelago ictus
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Arcipelago ictus

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Samsa Gregor è il nome di fantasia, ispirato a "La metamorfosi" di Kafka, con cui il protagonista si immedesima dopo che un ictus cerebrale stravolge la sua vita, intrappolandolo in un corpo che non è più capace di controllare.

Grazie alla sua esperienza di velista imparerà ad orientarsi nel complicato labirinto degli ostacoli burocratici e delle offerte riabilitative, schivando i vicoli ciechi e orientando la rotta in direzione dei piccoli graduali progressi.

Allenato dalla sua storia personale alla capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici e a riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà cercherà di affrontare quella che per chiunque è una sventura come se si trattasse di un'avventura e di approfittare dell'esperienza infausta come di un'occasione per cercare di migliorare se stesso e il rapporto coi suoi cari.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 7, 2019
ISBN9788827865194
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    Book preview

    Arcipelago ictus - Samsa Gregor

    passo!

    Il contesto

    Il comprendonio e la curiosità intellettuale per fortuna non li ho mai persi, neanche nella fase più acuta quando, incapace di muovere l’intero lato sinistro del corpo e portato d’urgenza in ospedale, mi sono messo a seguire rapito le luci roteanti della prima TAC della mia vita come uno spettacolo nuovo e affascinante da ammirare e non come un evento drammatico che riguardasse me in prima persona.

    Raziocinio e curiosità intellettuale, queste credo che siano state le due più grandi fortune per uno come me, cresciuto a pane e Superquark, in questa esperienza impegnativa dell’ictus, che di punto in bianco ha stravolto la mia vita e i miei punti di riferimento. Non ti riconosci più, non solo perché non riesci a eseguire movimenti in un lato del corpo, ma neanche riesci più a pensarli e nemmeno a immaginarli. È difficile capirlo per chi non ci sia passato direttamente. Non è la stessa cosa di non riuscire ad usare un braccio o una gamba perché ti sei fatto male, perché in quel caso la rappresentazione di te nella tua testa non cambia, così come la tua percezione del corpo nello spazio. Con l’ictus invece, non solo non riesci a muovere una parte del corpo, ma neanche a percepirla. O, se la percepisci, è in un modo alieno, che non riconosci. Non sai più dove si trovano i tuoi confini e ti sembra di occupare molto più spazio di quello che in realtà è. Così hai difficoltà a muoverti in spazi ristretti, quando riesci a muoverti, ma ciò non ti impedisce di andare a sbattere col braccio plegico ogni volta che sei distratto e ti muovi senza una forte concentrazione e attenzione a quello che stai facendo e a come lo fai. Cose che rendono anche la giornata più semplice in salita e procurano una spossatezza insolita perfino per te che eri abituato a ritmi di lavoro e di concentrazione abbastanza disumani, eppure… niente in confronto!

    Per tutto il primo anno gli attimi più felici della giornata sono stati quando arrivava il momento del riposo pomeridiano e notturno e sprofondavo nel letto con un senso di gratitudine! Inoltre, imparerò più avanti che c’è in ballo anche un meccanismo protettivo adottato dal cervello a seguito di un ictus: la diaschisi, una strategia biologica di difesa che tende ad evitare un sovraccarico delle strutture interessate dalla lesione, per cui vengono inibite anche altre aree e strutture cerebrali che non sono anatomicamente collegate con quelle lese, ma che sono ad esse funzionalmente connesse, ovvero con le quali partecipano in sinergia all’interno di alcune funzioni tramite il continuo scambio di informazioni. All’interno della diaschisi si ha quindi una fase acuta di shock dove l’inibizione è molto ampia e coinvolge molte zone del cervello e dei circuiti nervosi. L’organizzazione del movimento è un processo complesso basato sull’attivazione simultanea di processi mentali e cognitivi come l’intenzione¹, l’attenzione, la percezione, la memoria ed altri. È per questo motivo che in seguito a un ictus la fase acuta è caratterizzata non solo da problemi motori, come la paralisi flaccida, chiamata così proprio per la quasi totale impossibilità di muovere la metà del corpo opposta alla lesione (lesione all’emisfero destro, paralisi del lato sinistro), ma anche da una serie di difficoltà cognitive, di attenzione, di concentrazione, di memoria.

    Poi, oltre che per gli aspetti corporei, motori e cognitivi, dopo l’ictus non ti riconosci più neanche dal punto di vista emotivo e caratteriale. Ne sa qualcosa la mia famiglia, che ho messo a dura prova con i miei frequenti scoppi d’ira, soprattutto all’inizio, ma a distanza di cinque anni non ho ancora recuperato la calma olimpica e la stabilità emotiva di prima e, anche se le cose ora vanno molto meglio, il mio livello di sopportazione prima che una situazione mi faccia arrabbiare è ancora piuttosto basso, oltre all’assenza di freni inibitori nell’esternare i sentimenti², sia che si tratti di arrivare a urlare come un ossesso (solo in famiglia, però), soprattutto quando non riesco a farmi capire come vorrei, o di commuovermi fino al pianto di fronte a una scena appena un po’ toccante in un libro o in un film. Io, che fin quasi a sessant’anni avevo pianto solo quando è morta mia madre, e allora ne avevo trentotto. O di scoppiare a ridere anche nelle situazioni più serie, se in quel momento un pensiero buffo mi balena in testa. E allora si creano le situazioni più imbarazzanti, come quella volta che…

    Avrei preferito sprofondare, piuttosto che comportarmi così, quella volta, nella sala d’aspetto del Centro di riabilitazione, quando è arrivato un ragazzo con evidenti problemi motori e cognitivi, accompagnato da una famiglia affettuosa e premurosa. Il padre soprattutto, di una pazienza veramente infinita, era il solo che riuscisse a calmarlo al frequente innescarsi di esternazioni vivaci da parte del figlio, con vocalizzi e gesti che, ahimè, il mio cervello registrava come comici. Ho sentito immediatamente che la mia mimica facciale seguiva un impulso irrefrenabile a disegnarmi sul volto la piega di un sorriso, mentre in gola si preparava lo scoppio di una risata. Ovviamente, col mio emisfero razionale del cervello mi rendevo conto che non c’era niente da ridere, anzi! Semmai era ammirevole e commovente la pazienza con cui questo padre stringeva a sé il figlio, parlandogli a voce bassa e quasi cullandolo, fino a calmarlo. Ma che ci posso fare io se contemporaneamente l’emisfero emotivo, lesionato dall’ictus, registrava il comportamento del ragazzo come buffo e da ridere? Colpa dell’ictus? Forse no: spesso le disgrazie e le stranezze altrui sono fonte di ilarità, come ben sapevano i due indiscussi maestri delle Comiche, Stanlio e Ollio. Il problema è che in situazioni normali non avrei avuto nessun problema a far prevalere l’emisfero razionale e a nascondere dietro una maschera di indifferenza la reazione agli aspetti comici, come se non fosse successo assolutamente niente. Invece, e questo sì che è colpa dell’ictus, ora la mimica facciale, e il riso e il pianto, sono come collegati a presa diretta ai sentimenti che provo e ciò mi costringe, a volte, a sforzi colossali per riuscire a mantenere un’aria imperturbabile, creando situazioni assolutamente imbarazzanti, mentre cerco inutilmente di trasformare una risata in un colpo di tosse e di spianare dietro un finto sbadiglio quel sorriso idiota che mi si è disegnato in faccia, sperando che il tutto passi inosservato.

    Tutta questa serie di differenze e di deficit rispetto a prima, non ti fanno riconoscere e ti generano un atteggiamento di rifiuto che nel migliore dei casi, come credo sia il mio sotto questo aspetto, ti fanno provare vergogna per quello che sei diventato e ti spinge a nasconderti come un lebbroso. Per molto tempo ho avuto problemi, quando incontravo amici o conoscenti che non sapevano dell’ictus, a dir loro la verità, rallegrandomi quando non si accorgevano di niente e spiegando che ero caduto dalla bicicletta quando all’inizio mi vedevano camminare col bastone. Ma questo atteggiamento è estremamente pericoloso perché, finché perdura, ti impedisce di uscirne fuori e andare oltre, riprendendo la vita.

    Mantenere raziocinio e curiosità intellettuale quindi, credo sia stato il motivo per cui ho conservato dentro di me la continuità col passato e la consapevolezza che, nonostante tutto, ero ancora io. Con la mia curiosità che mi spingeva, da piccolo, a rompere i giocattoli per capire come funzionavano gli ingranaggi interni o che spinse i miei amici, da ragazzo, a regalarmi una maglietta che mi chiedeva tutte le volte che mi guardavo allo specchio: «Perché vuoi sempre spiegare ogni cosa?», a caratteri cubitali e con un grande punto interrogativo rosso.

    Il carattere di una persona, si sa, in parte dipende dal DNA, e lì c’è poco da fare, quello che ti tocca in sorte ti tieni, ma in parte dipende dalle esperienze che fai nella vita, che modellano nel tempo chi sei e come ti comporterai, nella buona e nella cattiva sorte. A tale proposito credo che l’esperienza più significativa della mia primissima infanzia, alla quale devo essere riconoscente per avermi allenato e dato gli strumenti che mi avrebbero permesso poi di affrontare l’ictus nel modo giusto, sia stata la fortissima asma che mi ha assillato dall’età di due anni in poi. E allora non era come adesso. Non esistevano ancora medicine efficaci e paff che ti risolvono le peggiori crisi in pochi istanti. Nel cinquantasei la scienza medica non sapeva ancora come affrontare questo disturbo, ed ero già grandicello quando uscì finalmente il Contrasma, uno sciroppo broncodilatatore che aiutava almeno in parte a riprendere fiato. Ovviamente ero troppo piccolo per ricordare cosa avvenisse a due o tre anni, ma ne avrò avuti cinque o sei, ricordo ancora la sensazione come fosse ora, quando cominciavo a tossire e tossire e mi mancava l’aria. E più cercavo di gonfiare i polmoni per farla entrare, meno ne passava e più mi sentivo soffocare. Mia madre, santa donna, altro non poteva fare che confortarmi con la sua presenza, ora dopo ora, notte dopo notte, mese dopo mese, di anno in anno. A quell’età il concetto di morte non lo concepisci, ma la sensazione di soffocare sì, ed è un’esperienza molto tangibile, che ti mette alla prova e ti costringe a tirar fuori il meglio di te per cercare di toglierti da quella situazione. Così, in assenza di medicine, facendo tante prove e tentativi e osservandone i risultati, alla fine avevo imparato da me che l’unico modo per attenuare e far passare gli attacchi era quello di non farmi prendere dalla paura ma mantenere la calma, evitando di gonfiare a dismisura il petto, respirando invece di pancia, così da far entrare l’aria nella parte bassa dei polmoni. Senza dubbio un’esperienza formativa formidabile per l’inclinazione al raziocinio e alla sperimentazione della mia vita futura!

    Perciò sono grato alle avversità che ho dovuto affrontare da piccolo, perché le attitudini acquisite mi sono state utili non solo nel lavoro e nella vita in generale ma, quand’è stato il momento, ne sono convinto, mi hanno risparmiato quella che credo sia la più subdola e temibile conseguenza di molti ictus: la depressione. In questi anni ho conosciuto tante persone in riabilitazione e ho visto coi miei occhi quelli che non l’accettavano e non ce la facevano. Semplicemente non reagivano alle avversità e rifiutavano di impegnarsi nella riabilitazione, sentendosi già morti e inutili anche se ancora vivi e vegeti. Quando la tua stessa testa ti rema contro c’è poco da fare!

    La fase acuta, per me, è consistita nel ricovero per quindici giorni nel reparto neurologia dell’ospedale della mia città e per un altro mese e mezzo presso il centro di prima riabilitazione più blasonato della mia regione. Per tutto questo periodo le informazioni che hai sono quelle col contagocce che trapelano dai medici, sempre avari di spiegazioni e poco propensi a sbilanciarsi. Vengo comunque informato che nell’emisfero destro del cervello, in particolare nell’area motoria, ho una lesione molto estesa e che è abbastanza probabile che non riuscirò mai più ad usare la mano sinistra. Sarà davvero così? «Mah… Vedremo.» Nel centro di prima riabilitazione intanto, tra luci e ombre, ho recuperato la stazione eretta e ho ripreso a camminare, anche se per pochi passi e con l’aiuto di un bastone.

    Tornato finalmente a casa e recuperato un minimo di autonomia, quanto meno nel lato del corpo funzionante, la mia prima preoccupazione è stata quella di cercare di capirci di più, sia su quello che avevo avuto, sia su quello che mi riservava il futuro. Ovviamente, il mio primo oracolo è stato Internet.

    Wikipedia mi informa che l’ictus (dal latino colpo, stroke in inglese) si verifica quando uno scarso afflusso di sangue al cervello provoca la morte delle cellule.

    Che ci sono due tipi principali di ictus, quello ischemico (il mio caso), dovuto alla mancanza del flusso di sangue, e quello emorragico, causato da un sanguinamento; entrambi portano come risultato una porzione del cervello incapace di funzionare correttamente.

    Che nel 2013, dopo le malattie coronariche, nel mondo sviluppato l’ictus è stato la seconda più frequente causa di morte, oltre che una delle principali cause di invalidità.

    Che i sintomi di un ictus possono essere transitori o permanenti e possono comprendere, tra gli altri, l’incapacità di muoversi e di percepire un lato del corpo, problemi a comprendere o esprimere parole e la perdita di visione di una parte del campo visivo.

    Che il principale fattore di rischio per l’ictus è la pressione alta, mentre altri possono essere il fumo di tabacco, l’obesità, il colesterolo alto, il diabete mellito, un precedente TIA (attacco ischemico transitorio) e la fibrillazione atriale.

    Colesterolo alto e fibrillazione atriale, ambo!

    Proprio la mia situazione. Eppure ci convivevo da una ventina d’anni quasi, e nessuno mi ha mai avvisato che correvo questo rischio. Beninteso, non intendo lamentarmi del Servizio Sanitario Nazionale grazie al quale sono ancora vivo e sto qui a raccontarla, ma se mi fossi potuto risparmiare del tutto questa esperienza dell’ictus, non credo proprio che mi sarei offeso! Ma ho subito deciso che non me la sarei presa con nessuno per quello che mi era capitato. Non voglio passare le mie giornate a rimuginare su colpevoli e colpe, riempiendomi la testa di logoranti pensieri negativi; piuttosto sento che ho bisogno di assegnare tutto lo spazio e le energie disponibili al recupero. Comincio quindi subito uno slalom tra pensieri e persone, accogliendo quelli positivi, che mi fanno sentire bene e mi ricaricano, e fuggendo senza alcun ritegno da quelli che invece mi succhiano energie come vampiri!

    Il taglio enciclopedico di Wikipedia però non mi aiuta a capire come orientare nel modo giusto la mia riabilitazione che, a quanto pare, sarà una cosa lunga, e ci sono diverse metodiche riabilitative.

    «Che fare?»

    Senza scomodare le più recenti scoperte in merito alla plasticità cerebrale, basterebbe considerare che l’ictus produce una lesione al cervello e non ai muscoli per capire che la riabilitazione, per essere efficace, dovrebbe indirizzarsi al cervello e non ai muscoli; invece, purtroppo, nonostante la riabilitazione neurocognitiva sia stata ideata in Italia (dal prof. Carlo Perfetti, perciò conosciuta soprattutto come metodo Perfetti) in Italia è ancora poco conosciuta e ancor meno utilizzata. Così come anche nel centro che mi ha rimesso in piedi, dove evidentemente puntavano più alla velocità che alla qualità del recupero, con metodiche riabilitative neuromotorie, basate sul rinforzo muscolare e sulla stimolazione dei riflessi neuromuscolari, a scapito di un forte ipertono che a distanza di cinque anni ha sì allentato un po’ la presa, ma non accenna ancora a voler mollare l’osso, che forse mi sarei potuto risparmiare seguendo fin dall’inizio un approccio diverso.

    Per mia fortuna durante la degenza vengo a contatto con una persona («Sia benedetta») che conosce il metodo Perfetti per esperienza diretta, perché il fratello è stato curato con esiti molto positivi in una struttura sanitaria di Vicenza. Poi scoprirò che si

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