Dall'altra parte dell'etichetta
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Dall'altra parte dell'etichetta - Elpidio Cecere
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CAPITOLO 1:
DIETRO L’ETICHETTA
Quando una palla ci rendeva felici
Oggi, raggiunti i miei primi 30 anni, ritengo si possa parlare di una nuova generazione di genitori: ora più che mai, padri e madri cercano freneticamente di far combaciare come in un puzzle i tanti impegni di lavoro con quelli della gestione della casa e dei figli al punto che, se non ci si organizza nei minimi dettagli, si vive nella costante sensazione di non farcela. Nel tempo, questo ha portato ad alcuni cambiamenti. I padri di oggi, ad esempio, sono molto più presenti: solo una decina di anni fa non era difficile assistere a scene in cui il genitore di sesso maschile rientrava da lavoro, mangiava, faceva il pisolino durante il quale era legge non fiatare e se ne riandava; il tutore dell’educazione, invece, era la mamma che talvolta delegava la nonna. Al giorno d’oggi, i papà sono tendenzialmente più affettuosi, disponibili, comprensivi e presenti, anche se spesso sembrano più ansiosi e preoccupati di quanto non lo fossero anni fa.
Stiamo vivendo un significativo calo demografico, la cui tendenza è attenuata solo dal contributo delle famiglie migranti. Oggi le nuove madri e i nuovi padri decidono di procreare a 35-40 anni e sempre più spesso non vanno oltre l’unico figlio. Il rapporto tra i genitori e i figli è cambiato: non ci sono più ruoli prestabiliti e ben decisi e questo, dunque, alimenta le paure dei genitori che non riescono a gestire la libertà richiesta dai figli. Il punto è che nella nostra società, mamma e papà sentono il peso di dover garantire il successo ai propri figli e per farlo sono disposti a tutto. Avere degli standard troppo elevati, però, comporta il rischio di insoddisfazioni continue e di vivere con eccessiva preoccupazione il timore del fallimento. Affinché si possa accompagnare serenamente un figlio verso la meta prefissata è necessario, dunque, che gli obiettivi siano raggiungibili e graduali e, soprattutto, vissuti nel pieno rispetto delle sue inclinazioni e dei suoi ritmi. È importante, infatti, prendere in considerazione la possibilità che i piani non sempre vadano come previsto, che un figlio possa avere esigenze/caratteristiche/attitudini diverse da quelle che si erano immaginate e che, di conseguenza, un eventuale mancato raggiungimento di un obiettivo non sia un fallimento, ma un punto cardine dal quale è possibile imparare a ricominciare e a riprendere da dove si era lasciato, migliorandosi e aiutando un figlio a migliorare.
Questo non è certo un punto di vista facile e scontato. Tante famiglie oggi si ritrovano a far fronte a problemi e preoccupazioni che diversi anni fa non rappresentavano che una condizione di pochi: il lavoro precario, il divorzio, la perdita di un caro, le malattie, l’indipendenza dei figli sono solo alcuni degli esempi di fattori che influiscono sulla vita familiare e personale di un genitore. Tutto ciò rischia facilmente di degenerare in continua insoddisfazione che viene poi vomitata
sui figli, creando una delle principali cause di fallimento genitoriale. L’idea è sempre la stessa: i bambini, e soprattutto gli adolescenti, hanno bisogno di una guida che li possa accompagnare nelle tappe semplici e delicate della crescita, come una sorta di paracadute pronto ad aprirsi al momento giusto.
Ed è proprio il concetto di momento giusto
che può dare adito ad ansie e preoccupazioni eccessive: le nuove generazioni di figli stanno perdendo l’autonomia che, in un certo senso, li responsabilizzava in passato. È importante che i genitori lascino sbagliare i figli ogni tanto, perché insegna a rialzarsi, a fare le proprie esperienze e a imparare quali sono le regole nella vita.
Ad esempio, in alcuni casi i genitori non ritengono nemmeno opportuno che un figlio che frequenti le scuole medie rientri a casa da solo. A dire il vero, quando ero piccolo non ricordo scene di mia madre o mio padre che badavano costantemente a me; anzi, uscivo e rientravo negli orari consentiti, vivendo sensazioni di libertà e spensieratezza pur avendo solo 9 anni o poco più. Giocavo tantissimo con i miei amici, passavamo molto tempo in una stradina con un pallone; anche quando cadevamo e ci sbucciavamo le ginocchia, poco importava: una pacca sulle spalle era quanto bastava per riprendere a giocare senza sosta. Il calcio era diventata quasi un’attività da svolgere obbligatoriamente, accendendo le sfide e facendoci esultare ad ogni goal come se stessimo vincendo il campionato del mondo. Una palla ci rendeva felici.
A quell’età il gruppo era tutto, rappresentava l’anima e la protezione di ciascuno di noi: ognuno era perché eravamo, tutti eravamo perché l’altro era. Veniva così a crearsi uno spazio infantile condiviso che ci dava molta forza, dove la voce della mamma che si affacciava al balcone per ricordarci che dovevamo mangiare era l’unica