Altro Tempo
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Book preview
Altro Tempo - Antonia Certo
Indice
Frontespizio
Copyright
Antonia Certo
Altro Tempo
Youcanprint Self-Publishing
Altro Tempo
© 2018 - Antonia Certo
ISBN | 9788827861387
Prima edizione digitale: 2018
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing
Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce
www.youcanprint.it
info@youcanprint.it
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Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
Mi sorprende un ricordo di gelo
e ne bevo l'amaro.
Zampilli
che il tempo
non ferma,
né il cuore.
Chissà perché improvvisamente ho sentito il canto delle cicale. Quando ciò accadeva ero bambina, i fichi erano maturi sugli alberi e io scorrazzavo sotto il sole, tra viottoli irregolari, talvolta alla ricerca di due grossi sassi che il mio nonno paterno aveva conficcato nel terreno, perché noi bambini trovassimo facilmente il sentiero del suo campo. Le cicale non ci sono adesso, non ci sono ancora e tuttavia mi è sembrato di sentirle. Come mi è sembrato di vedere il sole luminoso delle estati della mia infanzia e me che cerco mia madre e mio padre tra i filari delle viti. L'odore del fosforo, il verderame tra le foglie, le mie sorelle e poi tutti a mangiare sotto l'ombra di un noce. Ho sentito quel canto e nella mia mano una cicala che stringo dolcemente e accosto all'orecchio. Poi, il tempo e lo spazio si sono confusi. È calato il sipario. Ho fatto un respiro profondo per assorbire la dolcezza, ma non è bastato. Sono cresciuta. Ho saltato tutti i passaggi e sono tornata sempre lì, a quel giorno.
Ridicolo. Era tutto ridicolo.
Quelle figure, ingessate e incravattate, immobili su scranni rossi, seriose, assorte, preoccupate; alla ricerca dell'appiglio giusto per far valere le proprie ragioni e con un occhio all'orologio da polso. Quelle figure attente a ogni particolare , a ogni flessione di verbo, a ogni emissione di voce, al sinonimo, perché tutto era importante e una sola vocale avrebbe potuto cambiare il verdetto.
Eccola lì. La parola mi è sfuggita. La parola solenne che fa eco nelle teste, perché è ciò che più conta, che esalta e avvilisce, che confonde le verità. E io, su quella sedia cosa facevo? Come ero arrivata? L'immagine che mi viene in mente è quella di un lungo filo fatto di parole, una funivia che mi aveva trascinato recalcitrante, per farmi poi planare incredula e schiva. Fuori da queste mura qualcuno sta morendo, dicevo, qualche miglio più a est c'è la guerra, un po' più giù la fame. Lo dicevo a me stessa e intanto stavo lì tra toghe e cravatte, distante col corpo, ad ascoltare lamentele su presunti attentati all'amor proprio, all'etica personale, alla certezza esistenziale. A volte le figure immobili diventavano ombre che si muovevano in verticale e in orizzontale, in piedi, seduti, dentro, fuori, come se una cortina sottile posta tra me e loro non mi permettesse di distinguere le immagini.
Dove...? Di preciso...? Perché...?
Non ricordo...Si....Non so
Voci, voci, voci.
Intanto pensavo al tempo e alla noia, alla falsità della parola e alla verità della vita. Io che alle parole avevo sempre prestato fede, che non mi ero facilmente rassegnata all'impossibilità delle favole e vedevo autentica e veritiera ogni storia; io non sarei caduta nella trappola della parola.
Ogni cosa mi stava stretta.
Sentivo l'aria serpeggiare e graffiarmi la pelle, sentivo una pressione che mi stringeva il corpo da ogni parte, quasi spintonata da forze che non potevo dominare.
Ma la mia testa vagava libera col pensiero e volava su altri fronti, li disegnavo quei fronti, proiettandoli nelle vie d'uscita che mi si presentavano intorno: una porta sulla mia destra, un'altra più lontana alla mia sinistra, l'altra ancora in fondo.
Una sensazione di libertà fisica e di straniamento pirandelliano, ma anche di distanza morale cosciente. Per questo ripetevo tra me Ridicolo
, senza che, quanto accadeva intorno suscitasse in me sprazzi di ilarità.
Sarei potuta restare ferma come una statua per un tempo infinito, con lo sguardo fisso in un punto e il pensiero teso a raccogliere dati del tempo trascorso per concentrarli in un'unica autentica verità.
Perché solo allora mi accorgevo di non essere mai riuscita a definirne i contorni.
E non perché non avessi capito. Avevo lasciato aperta una breccia, spinta dal solo dono che gli dei avevano concesso a Pandora.
Poi, improvvisamente, l'ombra grigia si era mossa davanti a me e tutti i miei sensi avevano captato la realtà. La breccia si chiudeva e io tentavo di aggrapparmi a qualcosa che non c'era. Mi trovavo non più a nuotare, annaspando in acque torbide, o a volare al di sopra di tutto e di tutti, ma sentivo l'attrito sotto i piedi e, nel pugno stretto, l'aria aveva la consistenza della materia solida e malleabile.
Veniva da fuori lo scalpiccio dei passi e il vociare confuso che mi portavano a volgere l'attenzione verso l'esterno, senza averne una visuale chiara.
Ero stata la prima ad arrivare, mi ero seduta in fondo e man mano osservavo gli altri, cercando di capire chi fossero. Passi sicuri e direzione precisa, testa alta e spalle dritte, oppure sguardi perplessi e testa bassa.
A quale schiera appartenevo?
Dentro di me le domande erano: chi? Cosa? Quando? Essenziali. Il quando mi interessava meno, anzi lo vedevo del tutto accessorio, poteva essere imminente o lontano, in quell'attimo o il giorno dopo o anche la notte, o all'infinito. Il tempo non aveva importanza.
Da una delle porte uscirono due persone della cui presenza non mi ero accorta e io, che fino a quel momento avevo guardato con avidità insana quella via di fuga, restavo inchiodata, lo sguardo dritto, decisa a costruire quella che pensavo sarebbe stata la mia distruzione. Poche volte ero stata così calma