Just be you. Storia di una rinascita
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Just be you. Storia di una rinascita - Andrea Zirilli
forza.
L’atterraggio
Per quindici lunghissimi anni, la droga è stata il mio incubo, la tossicodipendenza la mia compagna esclusiva di viaggio. L'eroina, in particolare, spaventava chiunque mi fosse vicino, perché portava con sé, il fantasma dell’autodistruzione che prendeva corpo in un circolo vizioso fatto di reati, di carcere, di overdose e di malattie terribili.
Un giorno, verso sera tornai a casa, scesi dall’autobus, alla fermata di fronte casa. Pioveva a dirotto e come al solito non avevo l’ombrello. Scendendo tentai di coprirmi la testa con il giaccone nuovo che avevo appena acquistato ai Magazzini Mas, vicino alla stazione Termini. Era una giacca di stoffa in velluto a costine: sembrava un modello delle divise militari degli anni sessanta, molto in voga nei film del tempo, molto probabilmente un avanzo da qualche magazzino, ma a me non interessava. Non dovevo piacere a nessuno, doveva essere molto calda e costare poco.
Di fronte il mio palazzo, fuori dal cancello del parcheggio, trovai quattro volanti della Polizia del commissariato Spinaceto, due gazzelle dei Carabinieri della stazione Tor de Cenci e un’ambulanza con il portellone completamente spalancato.
Le luci blu delle lampeggianti della Polizia giravano in silenzio. Sembrava che anche loro sapessero. Tutto s’illuminava e si oscurava in modo intermittente, gli alberi, i lampioni, il marciapiede, gli occhi dei curiosi, il portone di casa mia. Ero completamente stordito. Mi facevo spazio tra una persona e l’altra, inciampando di tanto in tanto, mi giravo e vedevo parlare, ma dalle loro labbra non uscivano suoni. Un incubo psichedelico. Quello che mi colpì fu la presenza della Polizia mortuaria e tanti amici del mio palazzo che piangevano. Non volevo pensare che potesse toccare a qualcuno di noi.
Entrato nel fabbricato, feci le scale di corsa, attraversai il porticato ed entrai nel portone. Chiamai l’ascensore ma era fermo al mio piano, con il segnale di occupato acceso. Non scendeva. Iniziai a salire le scale e man mano che mi avvicinavo al mio piano, sentivo sempre più forti le voci dei poliziotti.
Non avevo più fiato. Mi girava la testa. Era successo qualcosa di terribile a casa mia. Speravo non si trattasse di Daniele.
Entrai in casa, chiedendo cosa fosse successo. Vidi Martina in un fiume di lacrime e Claudia che le teneva stretta le mani e l’abbracciava, tentando invano di consolarla. Cercai Daniele in preda alla disperazione, col cuore in gola. Lo trovai in bagno accasciato a terra vicino alla vasca, con gli occhi ancora aperti, gli occhiali erano caduti, aveva ancora l’ago nella vena e, stretta intorno al braccio, la cintura di El Charro
che gli avevo regalato il mese prima per il suo compleanno. D’istinto mi chinai per prendere gli occhiali in terra e per rimetterglieli, ma il poliziotto mi bloccò. Il suo viso aveva un terribile colore bluastro che non dimenticherò mai. Era morto.
La polizia mi disse che era morto per asfissia, in seguito ad un’overdose d’eroina. Era morto da solo senza nessuno accanto, indifeso come un bambino, senza voler disturbare. Non volevo crederci: il mio amico, il mio compagno di banco, quello che era diventato il mio fratellino, non c’era più.
Scappai di casa piangendo, scendendo la rampa di scale velocemente come quando ero bambino, ma uscendo dal portone trovai mio padre ad aspettarmi. Aveva saputo della sua morte da Claudia.
Mi fermò per un braccio, mi abbracciò e mi chiese di sfogarmi: piangi figlio mio, piangi! Ti chiedo scusa per le volte che non ho capito, per ogni canna che ti sei fatto, per ogni pasticca che ti sei calato, per ogni striscia che hai sniffato e per ogni buco sulle vene che ti sei fatto! Daniele è morto e io non voglio perderti. Da oggi io vivrò per te, per uscire assieme da questo incubo. Ti amo Alessio, più della mia vita. Aiutami ad aiutarti. Io ci sono se tu me ne darai la possibilità.
Mio padre diverse volte aveva cercato di venirmi incontro, e una volta mi portò in ospedale per farmi disintossicare, ma quando uscivo tornavo a fare quello che facevo prima: pensavo che ormai quella fosse la mia vita. Ero dipendente da quello schifo chimico e anche rassegnato. Non ero capace di vivere senza una sostanza nel mio corpo.