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Genesi di Atheris - La Danza delle Ceneri
Genesi di Atheris - La Danza delle Ceneri
Genesi di Atheris - La Danza delle Ceneri
Ebook580 pages8 hours

Genesi di Atheris - La Danza delle Ceneri

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About this ebook

Pedine spinte da un feroce Destino scivolano sempre più rapide verso l'Abisso. Adesso la battaglia si concentra nell'ostile terra barbarica di Algol, dove le più antiche leggende colano nella realtà, corrompendola e travolgendo chiunque la calchi. Sotto una pioggia di cenere, anche il più valoroso dei guerrieri pagherà pegno. Intanto il tempo scorre e i cardini di un Cancello Proibito cigolano, pronti a piegarsi e rovesciare sui mortali la notte più lunga.

Danza delle Ceneri è un fantasy dai toni adulti e cupi, secondo romanzo della saga Genesi di Atheris, iniziata con Mappa per l'Abisso.

"Leggendo Atheris si dimentica ciò che si conosce, e si entra in un immaginario tanto poderoso da divenire reale, quasi magia, mostri, elfi e demoni facessero parte della nostra vita di tutti i giorni" (Saint Martin Post - wordpress.com)
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 7, 2019
ISBN9788827864852
Genesi di Atheris - La Danza delle Ceneri

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    Genesi di Atheris - La Danza delle Ceneri - Rita Arcidiacono

    volume.

    Riassunto

    (da Mappa per l’Abisso)

    Sulla Terra

    Racchiusi in uno spicchio del mondo di Atheris, quattro regni convivono separati da confini precari.

    Con le spalle premute contro l’impervia catena dei Massicci di Cristallo e un ventre duro e montagnoso, la nordica Menkalinan svezza figli dal cuore guerriero e le sue scuole d’arme sono le più rinomate tra le terre conosciute.

    A sud, nell’abbraccio di una stellata di isole e arcipelaghi, il dominio dei mari, delle ricchezze che si celano nei liquidi abissi e dei fiorenti commerci in ogni porto, è saldo nelle mani di Deneb.

    Merak germoglia a est, in una terra fertile e generosa, ove colline di smeraldo si stiracchiano intorno alle mura di armoniose città, dimore di conoscenza e arte, culla di sapienti, guaritori e incantatori.

    E nelle terre del tramonto, solitario e austero, sotto il respiro cocente delle catene vulcaniche, arde il cuore duro di Algol, temuta patria di uomini e donne che onorano la brutale legge del più forte: i barbari.

    Sullo stagno di una pace vulnerabile, basta un solo sasso per spezzare l’equilibrio e una mano abbastanza spregiudicata che lo lanci.

    Quel sasso è l’isola di Imoon, proprietà di Deneb. Nell’ostinato desiderio di conquistare uno sbocco sul mare, Auris Stonn, Signore della nordica Menkalinan, vi ha insediato di prepotenza il sovrintendente Tharion. L’uomo però si rivela corruttibile e guerrafondaio. Riunendo diverse etnie, più un drappello di mercenari, le scatena contro l’immorale nemico comune che infesta il sottosuolo e che le genti di Imoon conoscono con il nome di ssywar. Ma è solo l’inizio e non saranno le viscere dell’isola le uniche a soffrirne.

    Deciso a reclamare il proprio sasso, un vascello denebiano solca le acque che lo circondano e invece di trovare ad attenderlo il nemico menkalinense, è la leggendaria Spregiudicia, e il suo manipolo di pirati, a dargli furiosa battaglia. Sembra troppo per Imoon. Oltraggiata, si ribella all’infezione che la affligge, e un imponente terremoto travolge tutto e tutti in un’immane catastrofe. Il sasso sprofonda, e una miriade di onde si propaga da lì in poi. Ma è davvero la guerra ad aver fatto crollare Imoon?

    Ergendosi in aristocratica riservatezza presso un angolo appartato dell’isola, la Torre di Selianth, sede di un ordine di incantatori, cela in grembo un remoto segreto, seppellito nelle profondità dei sotterranei dimenticati. Una Chiave. Toccherà a Mylian, giovane maga di origine elfica, scostare inavvertitamente la polvere di un’era e venirne in possesso, senza nemmeno conoscerne la natura.

    Gli eventi precipitano.

    Mylian, accompagnata dal suo allievo Keremil, è costretta alla fuga dall’isola che sta sprofondando e scopre allora di essere inseguita da qualcuno, probabilmente in cerca di ciò che lei ha fortuitamente trovato. Messa alle strette, deve ricorrere alle pratiche arcane, ma qualcosa va storto. La sua magia, inspiegabilmente corrotta, incenerisce un uomo, forgiando così un feroce nemico nel suo gemello, sopravvissuto e assetato di vendetta. La fuga riesce solo grazie all’aiuto di un misterioso vecchio, un antico sapiente dall’aria raggrinzita, di nome Astarion, che conduce lei e l’allievo prima presso un altro porto, e successivamente in mare aperto. Ma non sono gli unici a cercare la salvezza sulla distesa salata.

    Adriel e Valanjr, esperti mercenari assoldati da Tharion, emergono sulla superficie dopo la battaglia con gli ssywar solo per scoprire il disastro imminente. Durante la precipitosa ritirata verso la scogliera, Adriel attacca inspiegabilmente l’amico di sempre. Valanjr riesce a rendere innocuo il compagno, a rubare un’imbarcazione e a prendere il mare.

    La rotta di ognuno sembra casuale, le tempeste imperversano e spingono pescherecci e vascelli a incontrarsi e scontrarsi. Ma tutti, in un modo o nell’altro, si avvicinano alle coste della temuta Algol.

    È qui che Malisken, illustre studioso merakense, ha trovato riparo e prigionia insieme per dieci lunghi anni. In una terra che bandisce la scrittura come opera di blasfemia, ultimo luogo in cui cercarlo, reca con sé un libro proibito, il T’anmoValafar, sottratto alla custodia della prestigiosa biblioteca di Eghnoria, capitale di Merak. Ha trascorso dieci lunghi anni a studiarlo, cercando di svelare la rotta per il Cancello che intende aprire. Quando Ewan, suo apprendista, riferisce il rinvenimento della Chiave e si prepara ad abbandonare il barbarico Fare del Lupo di cui è ospite. Ewan però si fa cogliere nella pratica dell’arte proibita e i barbari lo giustiziano in modo sommario, mettendosi subito in viaggio per condurre Malisken presso Vhalcan, perché il Warin Demilar Warlash possa giudicarlo a sua volta.

    Durante il cammino, sul Passo del Corvo, la colonna viene attaccata da stranieri vestiti da predoni, con il segreto compito di catturare il merakense. La battaglia è sanguinaria, molti cadono e coloro che sopravvivono tra i barbari lo devono al fatto che lo studioso ha evocato le ombre a difenderli, ma soprattutto a difendere sé stesso. Tuttavia nessuno gli è grato e la superstizione è forte. Malisken viene condannato a espiare i suoi peccati attraverso il rituale del Morso, che lascerà un crudele marchio su di lui, ma è anche la svolta definitiva.

    Con l’aiuto del proprio Servitore d’Ombra, fugge, abbandonando dietro di sé la fedele ancella, Gaira, a scontare le sue colpe. Braccato da Ivharos, uno dei giovani più promettenti del Fare del Lupo, raggiunge la temuta Piana delle Ceneri e qui affronta e sconfigge il proprio inseguitore. Stremato, con in pugno la spada che era stata del nemico e che ora ne imprigiona l’essenza, si abbandona contro uno degli alberi scheletrici, guardiani della Piana, sicuro di non avere più forza per procedere.

    Ma si sbaglia.

    Il legno di bandwo nasconde una linfa perversa e lui, in uno stato di pieno delirio, se ne nutrirà.

    Scoperta la fuga di Malisken, insieme al lascito di un lupo morto a infausto presagio, e consapevole della presenza di stranieri a profanare Algol, il Warin Demilar apre la caccia. Libera gli Helfeirch, leggendari uomini-bestia fatti di puro istinto, e comanda che qualunque Fare offra asilo ai fuggiaschi venga messo a ferro e fuoco.

    Per il capitano merakense Vaieeno, e l’umile manipolo dei sopravvissuti alla battaglia sul Passo del Corvo, sarebbe la fine della cerca e, quando appaiono gli Helfeirch, anche della vita. Il fato vuole però che il più giovane di loro, Reidon, abbia raccolto la fuggitiva Gaira, ancella del perseguitato Malisken. Sarà proprio la selvaggia a offrire loro una via di scampo, ma non per tutti. Erniban viene catturato dagli Helfeirch. Algol adesso sa che gli stranieri vengono da Merak.

    Sul Mare

    La missione del vascello menkalinense Precettalis è segreta: Auris Stonn ha inviato un dono, la figlia illegittima Kalistea, al proprio sovrintendente Tharion su Imoon, per assicurarsi la sua fedeltà. Tuttavia, la vista del tumulto presso l’isola convince il capitano, Nathen Valgar, a non rischiare e quando il capriccioso fato lo porta a incrociare i pirati della celebre Spregiudicia, la decisione è presa: fingendo lo scontro, coglie l’occasione per parlamentare con il capitano avversario, Denskar Linch, e dopo averlo comprato perché compia la missione al posto suo, gli affida la ragazza e si defila rapido. Offerta come un grazioso passatempo, Kalistea incontrerà sulla Spregiudicia il vice del Capitano Linch, Khaies Oughter, detto Principe, uomo particolare e di sospette nobili origini che mal si adattano alla vita da filibustiere. Tra i due scocca qualcosa che sfugge a entrambi e che marchierà il loro destino e quello del vascello stesso. Intanto la situazione peggiora su Imoon e la Spregiudicia non solo non riesce ad avvicinarsi, ma si scontra con il micidiale tre alberi denebiano che reclama la propria isola. Nonostante la bravura e la famigerata reputazione degli uomini di Linch, di fronte a simili Signori del Mare la sconfitta è imminente e sarebbe inevitabile, se non vi fosse a bordo Kalistea. Ergendosi sulla prua, la fanciulla intona un canto sacrilego e gli spiriti degli annegati le rispondono. La Spregiudicia conquista così la vittoria, ma il prezzo è caro: il vascello è largamente danneggiato, molti uomini perdono la vita e lo stesso Khaies è disperso tra i flutti. Eppure sarà proprio lui la fortuna di Valanjr. A bordo del peschereccio rubato nel tentativo di abbandonare l’isola, il mercenario recupera il pirata in mezzo ai detriti e si presenta con il prezioso superstite al cospetto della Spregiudicia. Dopo un breve interrogatorio il capitano Linch sceglie di accettare Valanjr e Adriel fra la ciurma e fa rotta per la Baia dei Pugnali, a ridosso della costa di Algol.

    Rimasta a bordo Kalistea ha un breve incontro con Adriel e gli rivela la scomoda realtà sulla spada che porta al fianco: dono del sovrintendente Tharion, è stata proprio la preziosa lama a indurlo ad attaccare l’amico. Un dono pericoloso e perverso, che non deve rimanere in mano a Linch. Convinto a riappropriarsene, Adriel si reca nella cabina del capitano, dove incontra Valanjr e dopo un breve chiarimento decidono di abbandonare i pirati. L’occasione si presenta all’avvicinamento di un misero natante, su cui i briganti del mare hanno messo gli occhi. Proprio mentre la Spregiudicia si appresta ad abbordarlo però, il mare rimescola le carte.

    Appare la Precettalis. Spinto dalla necessità di recuperare la principessa illegittima, il Capitano Nathen Valgar ha infatti inseguito la Spregiudicia, ed è solo grazie a un uomo di nome Hellgi se scova la rotta privata dei pirati. Mosso dalla vendetta per la morte del proprio gemello, Hellgi è segretamente guidato a sua volta proprio da Kalistea di cui è al soldo per recuperare la Chiave. L’oggetto pare sia molto vicino, così come l’elfa su cui il mercenario agogna mettere le mani.

    Mentre la Precettalis si prepara ad attaccare i pirati, Adriel e Valanjr si gettano in acqua e, raggiunto il piccolo battello, vi scoprono a bordo proprio Mylian, il suo allievo Keremil e il Maestro Astarion. La loro presenza presso le acque di Algol non è casuale. Da anni sulle tracce del vecchio amico Malisken, Astarion ha tentato l’ennesimo contatto, e questa volta riesce a scoprirne il nascondiglio.

    Intanto, sulla Spregiudicia, la ciurma decide di liberarsi di Kalistea, portatrice di sventura. A ostacolarli, gli uomini trovano Khaies e nonostante la stima che nutrono per lui, la paura ha la meglio. Il nobile pirata offre una buona sfida, ma quando una lama lo trafigge, alle sue spalle c’è Kalistea e l’acciaio la raggiunge. Tutto ciò che i pirati temevano si realizza: il sangue della donna tocca il legno della nave. E la Spregiudicia è dannata. Fiamme inestinguibili avvolgono il vascello e i membri dell’equipaggio si trasformano in qualcosa di sacrilego. Tutti tranne Khaies. Grazie a un sortilegio operato dalla stessa Kalistea, sarà l’unico a tenere stretta la propria identità in un corpo che non sembra più appartenere al mondo dei vivi.

    La battaglia tra i due vascelli esplode subito dopo, il mare si gonfia e il piccolo natante, preso nel mezzo, ne paga le spese, colando a picco. Dispersi e separati dagli altri, Adriel e Astarion trovano la salvezza presso un faraglione. Gli altri, convinti della morte dei compagni, non hanno migliore scelta se non quella di avvicinare a nuoto la Precettalis e scalarne il fianco per issarsi a bordo, piuttosto che annegare. Qui hanno un’amara sorpresa. Il vascello è contaminato, vinto dall’assalto dei pirati dannati della Spregiudicia. E Kalistea è al loro comando. La fanciulla cattura il gruppo e lo imprigiona nelle segrete della stiva, per offrirlo in pasto all’immonda ciurma.

    Chiuso nella propria cabina, prigioniero di un incubo a occhi aperti, Hellgi non è consapevole della cattura ed è in preda al delirio. Quando Kalistea lo raggiunge, il mercenario viene a conoscenza della morte dell’elfa, oggetto della sua smania di vendetta, e ogni scopo di vita per lui è perduto. O quasi. Di fronte alla consapevolezza di essere sul punto di condividere la sorte dell’equipaggio dannato, accetta un patto con la principessa illegittima. La Chiave infatti non è più nelle mani dell’elfa, ma in quelle di Astarion e Kalistea lo sa.

    Che a Hellgi piaccia o no, la cerca continua.

    Sottoterra

    Il sottosuolo di Imoon stringe il pugno sui combattenti che recano assedio ad Amyn’xyr, l’oscura città degli ssywar. Braccati da crolli e frane, i più solleciti ad abbandonare il campo sono gli umani, che lasciano gli alleati nanici in prima linea a subire un destino crudele di decimazione. Ma anche tra gli ssywar, conosciuti altrove con il nome di drow, il tradimento è maturo.

    La Yathtallar Asraena, Somma Sacerdotessa della Dea Vielyth, reclama il suo posto di guida per il popolo degli elfi scuri. Uccide il Signore di Amyn’xyr, G’yrsei, guida coloro che le hanno prestato fedeltà verso l’esilio e forse, un domani lontano, la gloria.

    Viaggeranno attraverso territori selvaggi e inesplorati, dove a ogni svolta attende un’insidia e, come se non bastasse, saranno perseguitati dai nani sopravvissuti e dai drow della fazione opposta. Tra questi ultimi in particolare, una pattuglia inviata da Lor’yhe, acerrima e gelosissima rivale di Asraena, sembra muoversi meglio delle altre. Formata da membri di eccezionale talento, tra cui un abilissimo esploratore, Veldryn, e un rinomato Maestro d’Arme, Zhennuken, rinviene subito le tracce dei traditori e riesce a star loro addosso, finché un’improvvisa frana non la decima. Perduto il capo pattuglia, Nedyssia, i superstiti vengono presto assaliti da uno dei più formidabili predatori del buio profondo e, a rincarare la dose, a battaglia finita sopraggiunge il gruppo di nani inseguitori. Lo scontro è duro e crudo, e metterà di fronte lo straordinario Tharoldos, Signore dei nani di Dunewar, e Zhennuken, ottimo guerriero di nobili origini. Quest’ultimo però sfugge al nano, beffandolo. Per Tharoldos diventa ossessione.

    Zhennuken riesce così a nascondersi, libero di decidere il proprio cammino. Si mette all’inseguimento dei nani con lo scopo di scoprirne la meta. È proprio seguendoli che li vede raccogliere una fiaschetta appartenuta a Nedyssia e scopre così che l’antichissimo oggetto porta di fatto i segni della fattura nanica. Tuttavia non è l’unico oggetto particolare in possesso di Nedyssia. Un prezioso spillone le ferma la chioma ed è il motivo per cui Asraena ha inviato l’impeccabile guerriera Rill a catturarla. Giunta in suo possesso, Asraena tenta un rituale sullo spillone, fallendo.

    La tortura prima, e l’autorità sprigionata dalla giovane Asraena dopo, sono ingredienti sufficienti a convincere Nedyssia di aver giocato dalla parte sbagliata e prima di morire, confessa all’avversaria il segreto per violare i misteri del riluttante artefatto. Il rituale viene affrontato una seconda volta dalla Yathtallar, ma con la complicità forzata di un mago, Alixter, che catalizzerà su di sé tutta la resistenza dell’oggetto, pagandone salate conseguenze. Magia Sacra e Magia Arcana si intrecciano e lo spillone infine cede il suo segreto: una mappa tracciata con rosse linee di sangue si inciderà a fondo nella mente della Somma Sacerdotessa.

    Decisa la meta, i primi ostacoli da affrontare saranno la Valle Acida e il tenace inseguimento dei nani di Dunewar sopravvissuti alla catastrofe di Amyn’xyr, sull’isola di Imoon.

    Una pattuglia viene mandata in avanscoperta e si imbatterà in Veldryn, superstite fuggitivo del gruppo di Nedyssia. Per salvare la propria vita, l’esploratore si offre per tendere una trappola ai dunewariani e, tracciando il glifo personale di Nedyssia, guida l’ignaro Hyluan, loro prigioniero, proprio presso la Valle Acida e le sue mefitiche esalazioni. Ma è qui che giunge anche la pattuglia di Rill. Formata da Arlene, Prima Sacerdotessa di Asraena, include anche il mago e ha il compito di svelare le intenzioni che la Yathtallar pare non voler condividere con la sua promessa erede.

    Nel letale abbraccio di una Valle deturpata dall’acido, i nani di Tharoldos e i due drappelli drow sono destinati a incontrarsi e scontrarsi, dando sfogo a un odio che affonda radici remote.

    Rimasta indietro insieme al grosso delle forze di Asraena, Arlene freme di impazienza. Mentre si trova in un simile stato di tensione, la Prima Sacerdotessa abbassa le proprie difese e un intruso irrompe nei suoi pensieri, inviandole una visione che la istiga a tradire la Yathtallar. Un intruso… o forse un potente stratega, burattinaio spietato che ha mosso i loro passi fin dal principio.

    E forse non solo i loro.

    Prologo

    Il mondo è antico e stanco,

    Delirante per la febbre che lo piaga,

    Inquieto sul giaciglio stropicciato.

    Lo ricordo al tempo della sedia a dondolo,

    Benevolo e paziente fra le fiabe che narrava,

    Nella stanza che fioriva di incanti e magia.

    Ora il cero trema incerto,

    E il suo volto si apre di rughe nuove,

    Rantolando un sussurro per orecchie sorde.

    Sta narrando il suo ultimo richiamo,

    A chi conosce solo fiabe e non ascolta,

    Non lo vede, non ci crede.

    Il cero si spegne.

    Il volto si spezza.

    È la fine. È l’inizio.

    * * *

    Hellgi Samaely affondò fino alla caviglia in un limaccioso pantano di pietruzze acuminate e acqua stagnante, pessimo luogo per perdere l’equilibrio. Reggendo in una mano gli stivali, agitò le braccia e imprecò tra i denti contro i graffi che sentì aprirgli la pianta dei piedi, ma non appena smise di barcollare, si ammansì e inspirò a pieni polmoni l’aria nebbiosa della prima alba sulla terraferma. Era satura del lezzo di alghe marcescenti, misto all’appiccicoso sentore di pesce rancido, eppure paragonato al tanfo di morte che lo aveva afflitto nelle ultime ore sul ponte di una nave condannata gli parve l’odore più buono del mondo. Avanzò di qualche passo prima di lasciarsi cadere dove le onde non arrivavano a lambire la rena, e da lì volse infine uno sguardo risentito al mare, concedendosi un briciolo di tregua per spegnere l’affanno ereditato dalla lunga nuotata.

    A spezzare la linea dell’orizzonte sulla riva, la fragile figura che lo aveva accompagnato non mostrava la stessa stanchezza e gli dava le spalle, cosa di cui il mercenario, vergognandosi, fu grato agli dèi. Non gli sarebbe piaciuto dare mostra di sé in quello stato nemmeno alla propria madre, figurarsi a quella che considerava un‘insopportabile sciagura, sbarcata con lui per spingerlo verso una disgustosa costa puzzolente. Risentito, ne osservò le spalle immobili e con insolita rassegnazione attese.

    Il tempo gocciolò sull’ampio manto cobalto che avvolgeva la sua compagna e sui segreti tormenti che, racchiusi nei propri silenzi, nessuno dei due condivise. Per quanto lo riguardava, Hellgi fu contento di non vedere più la sagoma incorporea del vascello che a lungo era rimasta sbiadita ma incombente, prima di tuffarsi nella nebbia e riprendere la via del mare aperto.

    Nonostante l’impegnativa traversata a nuoto gli avesse rotto il fiato e appesantito i muscoli, abbandonare la Precettalis e il suo equipaggio maledetto era stato per lui come risvegliarsi da un incubo senza fine. E nemmeno del tutto. Persino da così lontano, ogni volta che chiudeva gli occhi afflitti dal bianco riverbero della bruma, rivedeva il ponte popolato di uomini fatti a pezzi, marinai le cui viscere colavano sangue scuro sul legno, cadaveri. Cadaveri che camminavano.

    Se lo raccontassi, mi crederebbero pazzo. E forse lo sono.

    Rabbrividendo, il mercenario si alzò. Con robuste manate ripulì gli abiti ancora umidi, grossolano tentativo di liberarli dal nero pietrisco della battigia, riassestò il fodero della spada dopo averlo vuotato dall’acqua salata e infilò gli stivali per addentrarsi nel cuore di Algol, la terra dei barbari. All’unisono con i propri passi udì il mantello cobalto sospirare sul freddo arenile, e la scomoda figura che lo accompagnava seguirlo senza dire una parola.

    Il giorno maturò nella nebbia, un denso sudario che divorò il suono della loro marcia sulla roccia nuda, amplificando il silenzio e ingannando ben presto il consumarsi delle ore. Hellgi riconobbe il trascorrere del tempo solo attraverso il crescente morso della fame che gli si aggrappò allo stomaco, e non poté fare a meno di rammentare che l’ultimo pasto l’aveva vomitato in modo indecoroso sulle assi della Precettalis. Fu un ricordo molesto che scacciò con sdegno, sollevando lo sguardo in cerca di un punto di riferimento nel biancore che lo assediava. E lo trovò. Ombre grigie affiorarono sulla sommità del pendio davanti a lui, e avanzarono bucando la caligine con un sordo tuono di pellicce e passi rabbiosi.

    Senza aver registrato razionalmente il movimento, Hellgi si ritrovò con le dita chiuse intorno all’impugnatura della spada, ma prima che potesse snudarla una mano gli serrò il polso in un inequivocabile monito. Contrariato, scoccò uno sguardo risentito al proprio fianco senza riuscire a penetrare la barriera del cappuccio attraverso cui un sussurro lo raggiunse composto.

    «Placa l’irruenza, eroe. Quattro come te non avrebbero alcuna possibilità contro uno solo di loro».

    Ingoiando una ritorsione poco elegante dettata dall’orgoglio, il mercenario ottemperò con riluttanza e allargò le braccia in un deliberato cenno di resa.

    «Mpf!», sbottò sarcastico, «se dovevamo diventare cadaveri senza batter ci, tanto valeva restare sulla Precettalis!».

    La mano abbandonò la presa sul polso e la voce sorrise con malcelata ironia: «Non devi crucciarti allora. Costoro non lasciano cadaveri… sarebbe cibo sprecato».

    Hellgi deglutì suo malgrado, ma un ferro rugginoso a doppia punta, spianato dritto alla gola, tagliò ogni altra protesta e quando il mercenario riportò lo sguardo davanti a sé, ebbe di nuovo voglia di vomitare.

    Quelli non erano uomini!

    Avvolti nell’umido abbraccio di spesse pellicce, con il sudicio volto appena visibile in un groviglio barbuto e capelli stopposi che ammantavano le spalle, avevano stazza, portamento e occhi traboccanti della ferocia tipica di bestie selvagge.

    «Helfeirch…», spiegò in tono grave la compagna accanto a lui e le teste degli esseri si rizzarono d’attenzione nel sentire il nome con cui venivano chiamati, «… bruti fatti di puro istinto. Instancabili cacciatori, svezzati come animali e spietati come demoni. Se sono uomini, loro stessi lo hanno dimenticato. Davanti a te, Hellgi Samaely, hai l’élite dello spirito guerriero di Algol».

    Il sangue defluì dalle guance del mercenario e il freddo si fece più intenso nello stomaco.

    «Cosa… cosa ci aspetta?», domandò con uno sforzo sovrumano per trovare la voce. La figura al suo fianco non rispose.

    Oltre le falde del mantello che la avvolgeva, lasciò emergere le mani con deliberata lentezza e le mostrò, i palmi rivolti in alto in un aperto cenno di pace. Hellgi la imitò cercando di controllare il proprio tremito, e quando la vide chinare il capo fece altrettanto.

    «Cerco Demilar Warlash», la udì poi scandire attraverso il cappuccio, e il suo tono limpido dal vago sapore imperativo riecheggiò innaturale nella nebbia.

    Gli Helfeirch si scambiarono sguardi neri e annuirono quasi all’unisono. Più espressive di qualunque parola, mani callose furono sui due naufraghi con impietosa brutalità, rapide nel privarli dei mantelli ma non della spada che Hellgi portava al fianco, quasi la considerassero un sacro cimelio da non toccare.

    Annaspando nel gelido alito di Algol che lo aggredì all’istante, il mercenario gettò uno sguardo interrogativo al proprio fianco, dove raccolse solo un impercettibile cenno di diniego del capo e un consiglio sussurrato a fior di labbra.

    «Non mostrare paura o sei morto».

    Hellgi era un combattente, sapeva cosa fosse la paura e sapeva nasconder la, eppure mentre gli Helfeirch lo sospingevano con primitiva durezza lungo il sentiero, non poté fare a meno di domandarsi quanto avrebbe retto. La lunga, mostruosa marcia per condurli nel cuore di Algol era solo cominciata, ma ben presto il mercenario si ritrovò a scommettere fra sé su chi li avrebbe uccisi per primo, gli uomini-bestia o l’ingenerosa terra dei barbari.

    «Non avrei mai creduto di dirlo…», mormorò in miseria, sforzandosi di tenere il passo serrato dei formidabili selvaggi, «… ma mi manca la Precettalis».

    Accanto a lui, Kalistea Stonn incespicò su una roccia appuntita e prima ancora che potesse rovinare al suolo, fu afferrata con malagrazia per i lunghi riccioli castani e tratta in piedi in modo rude, quasi fosse una bambola di pezza. A suo merito, la fanciulla non perse una briciola della propria dignità, non emise un solo gemito e rivolse gli occhi d’ambra al guerriero con una de terminazione che, suo malgrado, lo riempì di ammirata meraviglia.

    «Per ora siamo prede…», mormorò attraverso labbra esangui per il freddo, «… ma hai la mia parola che presto diverremo predatori».

    Capitolo I - I Fuochi dei Monti Rubino

    Posta Brevis, dettò al corpo. Iniziava così il ventiquattresimo ciclo, se la mente non lo ingannava. O era il venticinquesimo? Poteva aver perso il conto, ma non aveva poi tanta importanza, purché la sequenza delle poste di guardia fosse corretta.

    Portando il ginocchio in avanti, piegò appena la gamba, lasciando la sinistra arretrata, il filo della lama a quarantacinque gradi di fronte agli occhi, mano destra aderente all’elsa, la mancina sul pomolo, corpo eretto a tre quarti. E per la ventiquattresima volta, un’acuta fitta di rabbia a stento trattenuta gli artigliò lo stomaco. A ogni nuovo ciclo non poteva fare a meno di lamentare l’assenza di un compagno con cui misurarsi, ma peggio ancora era patire la smania di impugnare una spada reale, e non poterla assecondare. Non osava farlo e, sebbene le mani ne avessero una gran sete, Adriel si impose di non cercarla né tra i pensieri, né con lo sguardo.

    Concentrati!, si ammonì per l’ennesima volta.

    Affidandosi al sospiro del mare che dettava il ritmo della danza, non appena udì il canto del terzo frangente sugli scogli passò alla Posta di Corona. Levò la spada fantasma più in alto, ruotando i polsi quanto bastasse per avere la lama di piatto di fronte a sé, e fu allora che un violento fremito gli attraversò il bicipite. Frustrato, il guerriero ringhiò di disappunto. Se avesse avuto una vera arma tra le mani, adesso l’avrebbe persa e il suo clangore irriverente avrebbe svegliato il vecchio.

    Sospirando, abbassò le braccia lungo i fianchi e si arrese alla tregua che i muscoli stremati reclamavano, lasciandosi flagellare dall’ennesima folata di vento spirata dal mare. Ne era stato afflitto per tutta la notte, tanto che ora il suo corpo nudo era imbiancato di salsedine.

    Sotto il cielo che cominciava a schiarire, gli occhi del mezz’elfo poterono di nuovo distinguere i colori, se così si potevano definire le avvilenti sfumature di grigio che lo accerchiavano, e nella penombra vide la sagoma irregolare degli altri faraglioni fare capolino sopra esuberanti corolle di schiuma, inseguendosi verso ovest sulla Passeggiata dei Giganti. Poco più che scogli, molto meno che isole, erano nient’altro che sassi crudi e ingenerosi, proprio come quello su cui lui e Astarion avevano trovato approdo la notte precedente, nel tentativo di sottrarsi alla sorte ruggita dal mare. Sottrarsi… o rimandarla.

    Bagnati e digiuni, non avevano osato accendere nemmeno un modesto fuoco da campo per cercare un po’ di sollievo e, trascorsa una sola ora dal naufragio, il vecchio aveva cominciato a tremare senza controllo. Adriel aveva sofferto nel vederlo versare in uno stato tanto misero, così aveva rinunciato alla segretezza di un bivacco buio, e si era prodigato a frugare in lungo e in largo quel maledetto pezzo di roccia in cerca di legna o sterpi da ardere. Peccato che nella rigida morsa dell’oscurità non avesse trovato altro che muschio umido e vento salato. Alla fine si era arreso e, una volta raggiunto di nuovo il vecchio, lo aveva trovato penosamente assopito – anche se per un terribile istante lo aveva creduto morto. Se non altro la scalata e l’infruttuoso arrovellarsi alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti gli avevano acceso una fucina nelle vene, e gli abiti gli si erano infine asciugati addosso. Ammonticchiarli sulle spalle del vecchio per ammansire l’incontrollabile tremore era stata una scelta durissima, e Adriel fu subito consapevole che prima o poi li avrebbe rimpianti.

    Ecco, adesso che aveva interrotto l’esercizio fisico, poteva ben dire che quel poi era giunto infine, e per quanto fosse severo con sé stesso, non se la sentì di biasimarsi. In fondo aveva resistito tutta la notte, rifugiandosi nella sua disciplina di guerriero. Sagoma nera su uno sfondo ingannevole di cielo e mare, aveva disteso le braccia, piegato le gambe per poi tracciare archi, semiarchi, affondi e fendenti a un ritmo preciso, rigoroso, senza concedersi un momento di sosta. Gli ansiti rapidi che gli scuotevano il petto adesso ne erano testimoni, e non avrebbe saputo dire quanti dei brividi che stavano cominciando a pretenderlo fossero dovuti allo sfinimento del corpo o al freddo incalzante.

    Devo muovermi, si sollecitò, prima di cedere alla tentazione di destare il vecchio per riavere i propri indumenti. Non gli sarebbe dispiaciuto se al suo risveglio avesse potuto dirgli di aver trovato un modo per abbandonare quella sorta di prigione senza sbarre su cui erano esiliati. Il fatto che all’orizzonte il vascello infuocato fosse scomparso, liberandoli dallo sguardo infernale che li aveva perseguitati per tutta la notte, lo aiutò a recuperare un brandello di speranza.

    Senza rendersene conto, gettò un’occhiata al fodero poco distante, ma subito dopo se ne pentì e spostò l’attenzione altrove, quasi la spada lo avesse morso. Non gli serviva un’arma qui, di tanto poteva stare certo. E fu subito smentito. Aveva mosso meno di quattro passi quando, nell’abbraccio a mezzaluna della piccola baia vicina, scorse il susseguirsi di piccole onde concentriche sul pelo dell’acqua, opposte alla direzione della risacca. Acquattandosi su mani e ginocchia, si tese all’ascolto e con prudenza indietreggiò a portata dell’arma.

    Un tonfo, e poi un altro, cadenzati, discreti.

    Le dita sfiorarono il fodero e risalirono fino alla guardia che vi si affacciava suadente, freddissima.

    Dèi, fate che io non debba…, pregò in segreto, diviso tra il desiderio di snudare la spada e il timore di appagarlo. Nei suoi occhi d’acciaio si specchiò il profilo della roccia, la linea di luce che accendeva l’orizzonte, il susseguirsi di cerchi sull’acqua.

    E una cocente brama di guerriero.

    Il suono ritmato cessò, e per qualche istante non vi fu altro che il mormorio stropicciato delle onde che morivano sugli scogli.

    Cadaveri nell’acqua?. Non aveva invocato il pensiero consciamente, ma la sua presa fu forte nello stomaco e sulla mano che si chiuse intorno al fodero. Attese, ascoltò. Pregò.

    Non quei cadaveri, non quei volti…

    Prima che l’ansia prendesse il sopravvento sui nervi, un gracchiante stridio di metallo strofinato contro la pietra lo raggiunse facendolo sobbalzare. Accanto a lui il vecchio si mosse appena e quando ne incontrò lo sguardo assonnato, Adriel si portò l’indice davanti alle labbra in un implicito monito.

    Non attese la sua reazione.

    Ogni fibra nel corpo gridò di protesta, e anche se non avrebbe mai e poi mai voluto farlo, si decise ad avanzare piano verso il suono, la destra chiusa intorno all’impugnatura, l’altra mano sul cuoio che nascondeva l’acciaio, pronta a liberarlo. Quello che vide oltre il bordo dello scoglio lo sorprese tanto da fargli dubitare di essere desto.

    Strapazzata da un manipolo di onde indisciplinate, una minuscola piroga a remi dondolava brusca, minacciando a ogni rollio di andare a sbattere sulla roccia cui era legata con una logora gomena. Sul lato di dritta, fugace come lo scintillio del primo sole sulle grinze dell’acqua, una sagoma scomparve fra i flutti, immergendosi del tutto prima che Adriel potesse identificarla. Poco dopo lo stridio riprese, ovattato e cupo.

    Riscuotendosi dall’iniziale stupore, il guerriero fece scorrere lo sguardo all’interno della barcaccia, cercando di prendere le misure dell’eventuale pericolo, e non vi scorse altre armi se non un rudimentale arpione incrostato e un paio di coltellacci dentellati.

    Legata a un anello sul bordo, pendeva una rete per metà immersa nell’acqua, e quando sotto lo specchio distorto delle onde vide la sagoma rugosa di qualche guscio, Adriel comprese.

    Un pescatore di ostriche.

    Impossibile, razionalizzò all’istante. Sulla Passeggiata dei Giganti, così vicino alle coste di Algol…

    Nessun uomo, per quanto povero, poteva essere così sconsiderato da rischiare la pelle per una manciata di molluschi, anche se il loro pregio e la speranza di arricchirsi con qualche rara perla erano stimoli difficili da ignorare. Prima che Adriel avesse completato il pensiero, la superficie dell’acqua si oscurò e il pescatore riemerse con gli occhi puntati direttamente nei suoi.

    Un solo attimo e, sibilando in un fascio di schiuma, un pugnale sfrecciò con rapidità mozzafiato dritto verso di lui.

    Adriel reagì di puro istinto e si gettò di lato, riuscendo a sottrarsi a malapena al morso della lama, ma la sentì ringhiare tanto vicina da sputargli acqua salata sulla guancia, portarsi via una sottile ciocca dei capelli corvini, e urlare infine il suo clangore scontento sulla roccia.

    «Non sono un nemico!», gridò, ma il pescatore stava già immergendosi di nuovo per scomparire sotto il ventre del peschereccio, senza dubbio intenzionato a riemergere dall’altra parte per proteggersi e recuperare al tempo stesso gli altri rozzi coltellacci. Esasperato, Adriel si affrettò a coprire la distanza che lo separava dalla gomena. Se c’era una sola speranza di fuggire da lì era quella di convincere l’uomo a prenderli a bordo, e il guerriero giurò a sé stesso che per nulla al mondo gli avrebbe permesso di andare via senza di loro.

    Proprio come si era aspettato, lo vide riemergere sul lato di mancina e stendere un braccio in cerca delle lame.

    «Non sono di Algol!», riprovò scandendo le parole una a una, e per un attimo vide il velo di una strana esitazione adombrargli lo sguardo.

    Facendosi scudo della barca contro il torace, il pescatore lo squadrò dalla testa ai piedi – ricordandogli così che era completamente nudo – e con aria insoddisfatta gli riversò addosso una sequela di parole in una lingua aspra e sconosciuta.

    Adriel strinse le labbra e abbandonò la stretta sull’impugnatura della spada. Deciso a calmarlo, allargò le braccia per esporre il palmo della mano destra vuoto e l’arma, ancora chiusa nel fodero, nella sinistra.

    «Ohibò!», lo raggiunse alle spalle il borbottio impastato di Astarion, «Una conta invidiabile di anni e variopinte esperienze gravano le mie vetuste spalle, e ciononostante madre Conoscenza mi destina cotali, singolari visioni. Ti appare forse consono, giovanotto, mostrarti in ‘sì discinta maniera agli occhi di un indigeno spaurito? Persino io non oserei riporre fiducia alcuna nelle tue non bellicose intenzioni, anzichenò!».

    «Non ora, Maestro…», ringhiò Adriel, cercando di tingere il proprio tono con un‘adeguata quantità di rispetto. Doveva trovare il modo di comunicare con il pescatore, magari ricorrendo ai rudimenti di quelle poche parole apprese lungo i numerosi viaggi per mare e, per quanto sgradevole, non gli era certo utile crucciarsi per la propria nudità.

    Valanjr gli sarebbe stato d’aiuto invece.

    L’amico era un collezionista di vizi, difetti e pessime abitudini, ma ci sapeva fare in queste situazioni e Adriel non riuscì proprio a risparmiarsi di rimpiangerne la presenza, maniere scanzonate comprese.

    «Pace», offrì a voce più alta, tentando di ricorrere all’idioma delle genti di mare, e in tutta risposta il pescatore gli scagliò contro uno dei due coltellacci che aveva recuperato dal fondo della barca. Scansandosi ancora una volta, Adriel ruggì di disappunto e riportò la mano alla spada, esitando però a sfoderarla.

    «Se hai esaurito i tentativi…», riprese Astarion imperturbato, «… ti chiedo licenza di lasciare il mercanteggiamento al sottoscritto».

    Adriel dovette ricorrere a tutta la cortesia di cui fosse capace per non sbuffare, ma prima di riuscire a organizzare una risposta che convincesse il vecchio a trovare un riparo, questi intraprese un audace dialogo in una lingua molto simile a quella gracchiata dal pescatore.

    Sbigottito, e in buona misura anche imbarazzato, il guerriero alternò gli sguardi tra lo straniero immerso nell’acqua e il mite Astarion. Quante sorprese ancora riservava il Maestro sotto quell’aria svampita, talvolta debole e vulnerabile, di anziano dall’indole burbera e intransigente? Chi era davvero costui che, con lunga chioma e barba bianca, si offriva agli occhi in modo tanto stereotipato e ingannevole? Di una cosa il guerriero poteva stare certo: con lui non si sarebbe annoiato.

    Sul volto del pescatore l’ostilità perdurò molto a lungo, qualche volta attraversata da un vago moto di confusione, e Adriel si sorprese a sorridere.

    Confrontando la lunghezza delle frasi articolate dal vecchio con quelle brusche e spigolose dell’uomo, non era difficile dedurre che Astarion si esprimesse in modo forbito e contorto anche in una lingua che non gli apparteneva per nascita. Scuotendo la testa, il guerriero si rassegnò all’attesa, cercò una posizione comoda – nonché più pudica – e sedette, raccogliendo le ginocchia al petto per ripararsi un po’ dal freddo del mattino che sbocciava in una rigogliosa nebbia. Non osava allontanarsi, visto che per quanto Astarion stesse abbondantemente dimostrando di avere la situazione in pugno, c’era ancora almeno un coltellaccio all’interno dell’imbarcazione. Infine il pescatore tacque e vedendolo ponderare, Adriel si volse verso il vecchio con aria interrogativa.

    «Dunque?», osò tiepido.

    Quasi fosse stato disturbato da un saporito sonno, Astarion si riscosse e lo guardò come se lo vedesse per la prima volta.

    «Dunque, cosa? Non riesco a capacitarmi, anzichenò, come un giovanotto di buone maniere, e pertanto fuor di dubbio generato da dignitosa famiglia, possa ancora in ‘sì torbida condotta perseverare, tralasciando l’assenza di un decoroso vestimento. Di grazia, stiamo per salpare da codesto desertico e poco ameno scampolo di pietra, e tu indugi a rollare sotto il bigio sole antimeridiano, piuttosto che somministrare almeno un singolo cruccio al preparamento del tuo obliato bagaglio?».

    Con la scusa di inumidirsi le labbra Adriel le masticò e si impegnò magistralmente a non cedere alla risata che gli germogliava nello stomaco. Astarion c’era riuscito, e questo era tutto ciò che contava.

    «Chiedo perdono», offrì, chinando il capo e levandosi per recuperare il proprio equipaggiamento.

    Solo quando furono entrambi sistemati sulle assi del peschereccio, e con la complicità del pigro dondolio delle onde, Adriel sentì infine la minaccia del sonno afferrarlo con mano pesante. Immagini del naufragio si accavallarono ai volti dei pirati, alle fiamme sulle vele della Spregiudicia, allo sguardo severo dell’elfa dai capelli rubino e alla donna-bambina che aveva conosciuto sulla nave di Denskar Linch. Vide Valanjr sorridere beffardo con la sua spada in grembo, e poi lo vide sparire tra i flutti, sotto un cielo che si adombrava di rabbia. Tutti volti di morti, tutti perduti.

    Ogni pensiero si fece più greve, ogni angoscia crebbe funesta finché non si rese conto di essersi arreso al sonno per qualche istante e si riscosse allarmato. Non doveva abbassare la guardia, non quando erano alla mercé di un uomo che ogni saggia considerazione suggeriva non dovesse trovarsi lì. All’improvviso si rese conto che gli era sfuggito qualcosa, e rievocò lo sguardo del pescatore al momento in cui lui aveva menzionato Algol. Non vi aveva colto paura o disprezzo, ma una sorta di… dubbio? Lo aveva visto misurarlo dalla testa ai piedi, forse cercando tracce della stirpe barbarica in lui senza trovarne alcuna, e solo allora gli aveva scagliato contro parole dal suono scontento.

    Cercando di intercettare lo sguardo di Astarion, Adriel snudò pochi centimetri d’acciaio dal fodero e la luce filtrata del mattino vi si specchiò in un fugace sfolgorio, quanto bastasse per ottenere l’attenzione del vecchio.

    «Un pescatore? Sulle rive di Algol?», mimò con le labbra per condividere i propri dubbi senza farsi sentire dall’uomo. Ora che il sospetto aveva cominciato a intossicarlo, il guerriero non era più sicuro nemmeno del fatto che l’indigeno non capisse la sua lingua. Una scintilla passò negli occhi azzurri di Astarion che però non gli concesse altro se non un breve cenno di diniego con il capo. A Adriel bastò per comprendere che la contraddizione non fosse passata inosservata neanche alla mente brillante del Maestro e saperlo consapevole in qualche modo lo rassicurò. Chi fosse costui e come avesse fatto Astarion a convincerlo a ospitarli sul suo pezzo di legno forse sarebbe rimasto un mistero, e forse non valeva nemmeno la pena svelarlo. In fondo, nulla poteva essere peggio che morire di stenti e di freddo sulle rocce a cui era approdato il loro naufragio.

    Poi Adriel vide all’orizzonte la costa e riconobbe in lontananza i fuochi lavici che ardevano su leggendarie catene vulcaniche, segno distintivo e inequivocabile che imponeva un nome a quella terra: Algol.

    E malvolentieri cambiò idea. Sì, c’era qualcosa di peggio.

    * * *

    Non si poteva scorgere molto del villaggio oltre la grezza palizzata di legno. Tronchi appuntiti, alti almeno quanto due uomini, si tendevano a bucare la serpeggiante cortina di fumo sbuffata dai numerosi falò, scoppiettanti sulla legna infradiciata dalle recenti piogge. Non era comunque il primo insediamento che gli era capitato di scorgere sulla piana brulla di Algol e non gli serviva in fondo molta fantasia per immaginare cosa lo aspettasse oltre lo steccato. Qualche tenda di pelliccia per la casta più umile del Fare eretta in periferia e, verso il nucleo, sommarie baracche di legno rialzate su corte palizzate, per i guerrieri con più onori sulle spalle. O più massacri, a seconda del punto di vista. Secondo le usanze algoliane, le due cose naturalmente coincidevano.

    Agli occhi di Reidon comunque, i villaggi di queste genti erano tutti uguali. Tutti acerbi, come il loro senso etico e morale.

    Raccolte entro pietrosi recinti, avrebbe trovato le poche bestie selvatiche che i barbari erano soliti allevare, e a giudicare dal profumo che gli stava torcendo lo stomaco, qualcuna di esse l’avrebbe trovata anche negli ampi paioli sospesi sui fuochi, o infilzata in grossi spiedi sulle braci.

    «Perché dovrebbero darci asilo?», mormorò Vaieeno dentro la pelliccia che gli copriva parte del volto, e Reidon scosse la testa dubbioso. Non avevano argento con sé da offrire, né cacciagione da condividere e nemmeno una schiava da barattare. Seguendo il pensiero, lo sguardo andò a infrangersi su Gaira senza volerlo e un attimo dopo il merakense se ne vergognò così tanto che si sarebbe preso a schiaffi da solo.

    «Avremmo dovuto abbandonarla e attraversare la Piana delle Ceneri», riprese il capitano, fraintendendo l’occhiata del giovane.

    Sì, forse avrebbero dovuto, ma Gaira era stata inamovibile. Con il terrore più atavico dipinto sull’esotico volto, aveva implorato, aveva indicato l’albero che, avvampando spontaneo, forse aveva consegnato alle fiamme anche l’uomo sulle cui tracce avevano speso giorni, compagni e immensi sacrifici. Nella sua lingua stentata, li aveva travolti con storie nere e terrificanti, pregne di tutta la superstizione della sua stirpe, e Reidon aveva tradotto ogni singola parola perché il capitano potesse scegliere cosa fare in un momento delicato come quello. Con sua grande sorpresa, Vaieeno si era mostrato più malleabile di quanto si fosse aspettato, cosa che poi, ripensandoci a freddo, gli tornò perfettamente sensata. Scarsità d’equipaggiamento.

    Malisken poteva essere morto carbonizzato, oppure vivo e a un tiro di sasso, ma in entrambi i casi attraversare la Piana sguarniti non sarebbe stato saggio. Era più prudente scegliere di aggirarla e sostare a fare rifornimento in un villaggio, in modo da garantirsi una scelta successiva: riprendere l’inseguimento e accertarsi del destino del loro bersaglio, o cercare il mare per reclutare un messaggero e fare rapporto al Decano.

    Peccato che ora la fiducia nella decisione presa stesse inesorabilmente vacillando al cospetto dell’insediamento

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