Vittoria amara
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Info su questo ebook
Dal 24 maggio 1915 il piccolo paese contadino di Castello rimane come sospeso in un silenzio ovattato di paura e rabbia. Uno ad uno i figli partono per la guerra e terribile è il giungere del postino o l’avanzata dei Carabinieri. Tutti portatori di cattive notizie.
C’è chi va in guerra eroicamente, chi cerca di fuggire, chi ne torna mutilato nel corpo e nello spirito.
In mezzo la fame in una terra che ha bisogno di braccia forti e non di vecchi e bambini abbandonati e le lettere del marito non possono dare sollievo al tormento di Martina.
Lei che si carica sulle spalle tutto il peso della famiglia e della piccola comunità, vivendo minacciata ogni istante da Rinaldo, il possidente che forte della sua ricchezza la ricatta.
La storia attraversa anche le trincee della Grande Guerra raccontando l’intimo dolore dei fanti e l’umana miseria degli esseri umani. Le mitragliatrici scandiscono il tempo tra un battere e un levare di morte e distruzione. Si consumano così le vite di coloro che partiti per la Patria si perdono sul Carso.
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Anteprima del libro
Vittoria amara - Roberto Andreuccetti
9788899735746
CAPITOLO I. SOLITUDINE
Squarci di azzurro facevano capolino in mezzo a batuffoli di nuvole candide, mentre le rondini avevano ripreso numerose a solcare il cielo con pirotecnici voli accompagnati da un veloce cinguettare.
Il vento teso di libeccio stava riportando il sereno ed asciugava le pozzanghere dell’aia che erano sparse qua e là, dopo due giorni di pioggia intensa.
Martina, con la canestra dei panni stava percorrendo lentamente ma con passo sicuro il sentiero impervio e costellato di pietre aguzze che dalle case di Castello scendeva verso la polla ed il lavatoio. Doveva risciacquare tovaglie, asciugamani, federe e lenzuola, ma soprattutto i panni degli uomini che erano stati lavati nella conca, ma che da quando aveva iniziato a piovere erano ammassati in un mastello nell’angolo della cucina.
Martina era una donna ancora giovane, nonostante avesse già un figlio di cinque anni; aveva corporatura sottile ma armoniosa, un seno piccolo e sodo ed una cascata di capelli neri che teneva raccolti dietro la nuca. Gli zigomi erano pronunciati, gli occhi bruni e luminosi in un volto sempre aperto al sorriso ma con i lineamenti marcati che evidenziavano il carattere forte di una ragazza abituata a doversi reinventare di continuo la propria giornata.
L’aria di quel pomeriggio di maggio era frizzante mentre alle narici arrivava intenso il profumo del glicine e del gelsomino.
La campagna aveva indossato una variopinta veste; era il verde dell’erba e delle foglie nuove degli alberi il colore dominante, al quale si accompagnava il rosso dei papaveri sparsi nelle piane e l’azzurro dei ranuncoli e dei non ti scordar di me
che occhieggiavano dai poggi. Ciuffi di ginestre elevavano la loro chioma in mezzo alle rocce sparse numerose nel vicino bosco di querce e di lecci.
Martina, se pur immersa nei profumi e nei colori del mese di maggio, sembrava non godere di quelle meraviglie della natura.
Aveva fretta, perché sapeva che durante la mattinata sarebbero stati molti i compiti che l’avrebbero attesa. I polli ed i conigli erano già stati governati ma dopo il lavaggio dei panni era necessario metterli ad asciugare e bisognava tornare poi a prendere l’acqua per bere con la secchia. Con l’aiuto della suocera Sofia, c’era poi da preparare da mangiare ai cognati di ritorno dal lavoro nell’oliveto, al suocero Paride vecchio ed infermo ed al figlio Giacomo.
La mente della donna era catturata da un pensiero dominante.
Il marito Marco, il più piccolo dei fratelli Bertini, che aveva sposato in giovane età e che da quasi cinque anni era partito per l’America, da molto tempo non dava notizie. Nell’ultima lettera aveva scritto che era in attesa di trasferirsi da New York a Memphis perché in quella nuova città le prospettive di lavoro sarebbero aumentate. Nel quartiere di Bronx aveva infatti sofferto disagi e violenze. Aveva dovuto subire numerose rapine, sia nel bar dove svolgeva il compito di garzone e dove era stato ferito anche ad una mano, sia nella povera dimora composta di un’unica stanza ubicata in un fatiscente palazzo.
Durante i cinque anni di permanenza in America, Marco non era riuscito ad inviare a casa alcuna somma di denaro. Diceva che quel poco che riceveva come compenso dal padrone dell’esercizio pubblico nel quale lavorava, gli bastava appena per pagare l’affitto della stanza che occupava. Aveva cercato di far capire a Martina che la vita era divenuta impossibile nella grande città di New York e che trasferendosi a Memphis le cose sarebbero forse andate meglio.
Martina provava una struggente nostalgia per il marito lontano.
Erano già trascorsi quasi cinque anni da quando, allora ventenne, lo aveva salutato con le lacrime agli occhi e con il piccolo Giacomo fra le braccia, mentre si apprestava a lasciare Castello. Negli occhi del marito aveva letto la tenacia e la speranza nonostante l’incognita di un futuro incerto.
I due giovani andavano sperando che il sacrificio sopportato, avesse portato frutti in grado di migliorare le misere condizioni della loro famiglia.
A Martina, dopo la partenza del marito sembrava però che le cose non fossero cambiate, perché se prima c’era miseria, questa era purtroppo ancora presente. A ben considerare forse la situazione familiare era addirittura peggiorata.
La donna si era ritrovata sola con tre cognati da accudire, con i suoceri anziani e con un bimbo piccolo da far crescere; senza il supporto fisico e morale del marito, ma soprattutto senza quelle rimesse di denaro nelle quali tutti speravano.
Dei sei fratelli di Marco tre erano emigrati in America del sud per cercare di fare fortuna; due in Brasile e l’altro in Argentina. Avevano scritto soltanto una volta e poi non avevano dato più notizie, quasi si fossero dimenticati che a casa avevano ancora due genitori, una cognata e tre fratelli. Se n’erano andati uno alla volta seguendo l’esempio di Marco che era il più giovane e che si era dimostrato anche il più intraprendente. Gli anni passati senza ricevere notizie dai tre figli avevano fatto pensare ai genitori Paride e Sofia che quei ragazzi avessero fatto una brutta fine.
Nei primi anni del secolo ventesimo c’era stata una grande corsa all’emigrazione, per necessità economiche delle famiglie, ma anche per un desiderio di andare a provare nuove esperienze da parte di giovani che erano continuamente sottoposti a lavori faticosi come quello di boscaiolo e di contadino.
Che vita è questa?
– andava chiedendosi Martina.
Tutti i giorni un lavoro logorante, con pochi centesimi ricavati dalla vendita del carbone che non sono sufficienti per comprare il sale, lo zucchero e la minestra. Dovendo mangiare quasi giornalmente necci e polenta di granturco. Poco cibo e molto lavoro, senza nessuno in grado di regalarmi una parola di conforto. A cosa è servito il nostro sacrificio?
– si domandava Martina con insistenza, quasi Marco, che era assente oramai da un lustro, fosse vicino e potesse ascoltarla.
Con il pesante carico di quei pensieri la giovane aveva raggiunto il lavatoio, ma lo trovò occupato da altre donne che avevano avuto la stessa sua idea, considerato che la giornata era luminosa dopo giorni di pioggia. Dopo aver poggiato sopra una grossa pietra liscia e sporgente il cesto, Martina dovette aspettare il proprio turno di lavaggio.
La polla che alimentava quel lavatoio era l’unica sorgente esistente nei pressi del borgo di Castello, una località arroccata sulle pendici del colle che guarda da nord il paese di Valdottavo e non vedeva diminuire mai la sua portata, nemmeno durante i lunghi periodi di siccità.
Quella fonte serviva le numerose famiglie della frazione che dovevano attingere acqua e risciacquare i panni nel lavatoio.
Altre piccole polle erano sparse nella campagna, ma servivano soltanto per dissetare i contadini che si riversavano nelle vigne e negli oliveti e per creare piccoli bacini d’acqua dove portare a bere i numerosi animali da lavoro.
I compiti di recarsi con i panni al lavatoio e di andare ad attingere acqua con la secchia di rame, erano una esclusiva delle donne che avviavano a quella pratica anche sorelle e figlie in tenera età.
Era frequente vedere bambine con il cesto dei panni tenuto sotto braccio, perché non ancora in grado di portarlo in equilibrio sulla testa.
Per fare acquisire dimestichezza con quella pratica, le madri poggiavano un cesto senza carico sul capo delle figlie facendole camminare sull’aia alla ricerca dell’equilibrio necessario per un compito che avrebbero poi dovuto svolgere fino alla vecchiaia.
Anche gli uomini si recavano spesso al lavatoio, ma lo facevano per fare il bagno, soprattutto alla sera al termine delle faticose opre
nei poderi e nelle selve.
Se in inverno era scomodo il bagno fatto in grossi mastelli riempiti con acqua riscaldata sul fuoco del camino, che andavano poi ripuliti per permettere agli altri componenti della famiglia di potersi lavare, in estate, ma già con l’arrivo delle belle giornate di maggio, sotto l’ultimo raggio di sole della giornata, i giovani e gli uomini di Castello si recavano al lavatoio del Fondinello.
Portavano un asciugamano a tracolla e tenevano in mano una maglia di lana pulita ed un paio di pantaloni di ricambio. Arrivati presso quel provvidenziale serbatoio d’acqua, posavano gli zoccoli od i saboni
si toglievano gli abiti rifrusti e da strapazzo
e si immergevano. Dopo una bella risciacquata uscivano e prima di infilarsi di nuovo le calzature raschiavano il tallone ed i calli nella pianta del piede sulla pietra ruvida del bordo esterno del lavatoio.
Quando il sole smorzava i suoi raggi ed arrivava l’ora nella quale gli uomini si recavano a lavarsi, le madri vietavano alle ragazze di andare ad attingere acqua presso la polla, per evitare loro la vista de